lunedì 21 luglio 2014

David Lynch e la ricerca della felicità



Ho trovato e letto questa interessante intervista all’artista e uomo David Lynch che anticipa, di alcuni mesi, l’argomento del 2015 “ La ricerca della felicità”. Antico pallino dell’uomo pensante e costruttore. David Lynch rappresenta un prototipo di quello che, per dirla con le parole di un mio amico fraterno, sagacemente romano e fatalmente siciliano de Roma Riccardo Ascoli, si chiama: L’imperfetto! E dove sta l’imperfezione? Sta nell’allargare a 360 gradi il suo campo d’azione per diventare filosofo, pittore e narratore oltre che cineasta. Siamo troppo involuti nella cultura debole di questo millennio, al punto che rappresentiamo le persone con il loro semplice titolo e ci scordiamo che l’essere umano, grazie alla sua imperfezione, è un esploratore di Mondi. Godetevi questa intervista che ho tratto da Repubblica e …. Meditate gente, meditate!
Ugo Arioti


David Lynch e la ricerca della felicità. "Provate a guardare dentro di voi..."
Il cinema e l'arte, la musica e la televisione, le paure e i progetti. Incontro con il regista, diviso fra il rock, Parigi, Los Angeles e la meditazione trascendentale. "Libero il mio corpo, e ogni volta mi sento di nuovo libero"
PARIGI - Non andava al cinema, non guardava la tv, leggeva poco. Ascoltava musica, ma con orecchio non fanatico. La sua vera passione da bambino a Missoula, nel Montana, dov'è nato nel 1946, era il disegno: che non l'abbandonerà mai. A spingerlo a mettere in mostra i suoi lavori ("Non ci avevo mai pensato", dice ora) furono alcune recensioni che nel 1986 vedevano in Blue Velvet "il film d'un pittore". È stato quello il momento in cui, a quarant'anni, cineasta già di culto, David Lynch comincia a allargare a compasso la sua intera personalità - arte, fotografia, musica - fino allora reclusa su grande schermo. L'"altro Lynch" oggi è una costellazione frastagliata: dischi e mostre in Francia (in Italia al decimo Lucca Film Festival in settembre) e un elettrico viavai tra Los Angeles, dove continua a vivere "in piena voluttà" e Parigi, dove due volte l'anno viene a acquattarsi nell'antico atelier Mourlot in rue du Montparnasse, divenuto Idem Paris, per tirare le sue litografie. È qui che l'abbiamo incontrato: pacificato, persino etereo, dopo una delle sedute di meditazione quotidiane, grandi occhi blu cielo, capigliatura d'argenteo rocker, tra fil di fumo gentilmente consentiti dai servizi di sicurezza, concentrato nel suo caratteristico eloquio liquido e scandito.
Fotografie, lito, dipinti, come i film, emanano angoscia. Mr Lynch: paure e inquietudini che dovrebbero evaporare con la pratica della meditazione non tornano per caso a condensarsi nella sua arte?
"Penso di no. Son due piani diversi. La meditazione trascendentale libera il corpo da stress e preoccupazioni, che svaniscono nel nulla. È come togliersi di dosso un gran peso, fino a sentirsi di nuovo liberi. L'arte non è catarsi d'emozioni. Neanche il cinema. Ho le mie angosce, come tutti. Ma non ne faccio il soggetto dei miei lavori".

I momenti più allucinati del grande schermo tornano comunque in primo piano nelle sue opere in cornice, con specularità ossessiva. A loro volta alcune di queste immagini potrebbero diventare il clic di nuovi film?
"Sicuramente. Lavorando a un quadro o a una foto, può scattare un'idea cinematografica. Anzi, il cinema m'è apparso un naturale complemento quando a vent'anni seguivo i corsi di Belle Arti a Philadelphia. Stavo dipingendo un giardino verde su una tela nera, che un colpo di vento ha fatto vibrare: avrei voluto che l'immagine continuasse a muoversi, su un'onda musicale. Da quel quadro, o da quella folata, è nato il mio primo film d'animazione, Six Men Getting Sick".
Anche la meditazione trascendentale, o MT, come la sigla familiarmente, appresa da Maharishi Mahesh Yogi, il guru dei Beatles, è per lei un laboratorio d'idee?
"È pazzesco come le illuminazioni s'affollino dopo una seduta di MT. John Lennon diceva di trovarsi ogni volta immerso in un flusso infinito d'idee. Maharishi gli consigliò di uscire dalla meditazione, annotare e reimmergersi. Ho preso anch'io questa abitudine: ho sempre un block notes a portata di mano".
In Italia esce domani un suo strano documentario musicale: Duran Duran Unstaged mentre la Francia rilancia Twin Peaks in una leggendaria versione "director's cut" di quasi quattro ore. Ma tutti attendono, a sette anni da Inland Empire, una nuova fiction...
"Le idee non mancano. Ma l'industria del cinema è molto cambiata. Ai Duran Duran era piaciuto il mio remix di Girl Panic, canzone del loro album All you need is now. Di qui l'idea d'un film che restituisse il concerto live attraverso la patina d'altre immagini, colte al volo. Finora era visibile solo sul web: è sempre più difficile garantirsi in sala una proiezione di qualità, per me essenziale. Una volta c'era il circuito d'art et d'essai, dove circolavano i miei film. Oggi il cinema alternativo è sempre più in angolo, schiacciato dai blockbusters".
Intanto la rivedremo, attore, accanto a Tim Roth, in A fall from grace, il nuovo film della sua figlia maggiore, Jennifer, nata nel '68 dal matrimonio con la pittrice Peggy Reavey. Ma che ne è di progetti seducenti come The Goddess, sulla Monroe, o Metamorfosi, l'amato Kafka, cui attingono un po' le sue prime opere, Eraserhead e Elephant Man?
"La magia di Metamorfosi è il suo abisso di mondi diversi: quel che insegue da sempre il mio cinema. Marilyn è l'attrice che ho sempre sognato come mia interprete ideale. Volevo trarre un film dal libro che svela le responsabilità dei Kennedy nella sua morte. Produttori sordi alla chiamata. Lo stesso per Kafka. Non credo d'aver fama di regista da cassetta... ".
Trova che la tv, di cui la saga Twin Peaks rimane un minimonumento, sia più disponibile del cinema ai rischi della creatività? Sta per caso meditando una nuova serie?
"Ci sto pensando. Le tv a pagamento, almeno in Usa, sono oggi in grado d'attrarre l'expubblico d'art et essai. Permettono anche quel che al cinema non è più possibile: sviluppare una storia nella sua interezza. Non che veda un futuro senza grande schermo, risucchiato dal piccolo schermo. Continueranno a convivere: come i dipinti di formato quadrato o rettangolare".
Fellini diceva che il cinema si guarda dal basso verso l'alto, ed è l'universo, la tv si guarda dall'alto verso il basso, ed è una scatoletta...
"Anche per questo amo Fellini. Quando ho visto da ragazzo 8 e ½, è stato come sprofondare in un altro mondo. Un film deve farmi sempre questo effetto, che non posso provare con il naso appiccicato al computer, ma solo davanti a un grande schermo, nel buio totale, trasportato da un suono eccellente: non forte, ma eccellente, come l'ha previsto l'autore. Un'interruzione e l'incanto si spezza. Fellini è uno dei rari registi, con Bergman e qualcuno della Nouvelle Vague, che guardavo con partecipazione da giovane. In realtà, non sono mai stato un gran cinefilo. I film degli Studios li trovavo ridicoli, Hitchcock escluso. Da una parte c'erano i film d'evasione, dall'altra gli altri. E io ho sempre preferito gli altri".
Cuore selvaggio batte al ritmo di Elvis: quanto è importante il rock nei suoi film?
"Presley è stato uno dei miei miti di gioventù. Insieme a Roy Orbison: Only the lonely è la canzone che 'cammina con me'. Ma tutta la musica m'assorbe: dall'elettronica alla dance music che per combinazioni inattese è finita nel mio primo album di solista, Crazy Clown Time, composto di brani da me scritti e interpretati. Mi accompagno anche con la chitarra, che all'inizio non sapevo nemmeno tenere in mano. Il disco è evoluto nel tempo, per 'incidenti' successivi, tanto che dovrebbe essere all'ospedale anziché in circolazione! È il risultato di varie jam sessions che hanno via via coagulato anche i testi: ero convinto di arrivare a una raccolta di modern blues, e invece ne è uscito tutt'altro. Ma il mio secondo 'solo', The Big Dream, uscito l'anno scorso, mi pare più blues. O no?".
Ultimamente Parigi è diventata il suo covo d'arte, in cui è corteggiato da mille committenze, le Galeries Lafayette, Dom Pérignon, il night Le Silencio...?
"È stato dopo la grande mostra alla Fondation Cartier, The Air is on Fire, che mi son legato a Parigi. Grazie anche a Patrice Forest, direttore della Galerie Item, dove ho poi realizzato la mostra Works on Paper. È uno dei luoghi magici della città, da un secolo e mezzo: vi lavorava Picasso, J'accuse di Zola fu stampato qui. Nelle tirature, mi aiuta il vecchio assistente di CartierBresson e Koudelka. È la culla della mia grafica e delle mie fotografie, come le Small Stories esposte quest'anno alla Maison Européenne de la Photograhie".

Lei si batte da anni, con la Fondazione creata nel 2005, per diffondere la MT nelle scuole. In Italia è stato più volte, a Roma e in Sicilia, a questo scopo. Con quali risultati finora?
"Nel distretto di San Francisco, diverse scuole, con allievi prima 'difficili', hanno adottato con profitto la MT: la violenza è calata o sparita. M'incoraggiano registi e artisti amici. Paul McCartney e Ringo Starr si sono esibiti insieme nel 2009 per una raccolta di fondi al Radio City Music Hall di New York. Maharishi Mahesh Yogi, su cui ho realizzato un documentario dopo aver assistito alla sua cremazione nel 2008 in India, ci ha trasmesso una tecnica antica, che lui ha rivitalizzato. L'unica che abbia tradotto in realtà un precetto rimasto per anni un miraggio: 'La vera felicità non è fuori ma dentro di te'".

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