lunedì 7 dicembre 2020

 

Il bimbo nel barattolo    (parte prima)     Ugo Arioti@2010

Perché è stata la sua assenza, il vuoto, quella promessa mancata ad alimentare il dolore che mi porto dentro, da sempre?

State pensando a una storia da ridere? Ci sta prendendo in giro con una delle sue filosofie astratte che portano, dopo un giro di frasi, il sorriso e l’ironia sulla condizione umana e sui suoi usuali non eroi ridanciani!

No, ve lo assicuro. Tutt’altro.

È triste e misteriosa; è una ferita dell’anima che non si rimargina mai. Ti resta dentro, muta e strisciante, copre i tuoi occhi, di tanto in tanto, quando sale, la marea è nera. Vorrei dire, semplicemente, per venirne fuori: eravamo troppo giovani. Sì, indubbiamente, due studenti non si possono permettere simili pesi, dicono i saggi, ma questa storia è tutta, ancora, dentro di me. Vive nel fondo del mio Io e non può restare nella deriva di un oblio senza limiti.

Era un mercoledì afoso, pedante e asfissiante. Pina, la giovane crocerossina della carità che seguiva i miei passi da apprendista architetto, mi portò il fardello carnale e impetuoso di un sogno da ragazzi, e lo consumammo insieme. Eravamo amanti e promessi, in un tempo che nega e non vuole, ma pretende.

L’albergo, vicino la Stazione centrale, era a buon prezzo e non chiedevano i documenti. Quattro ore erano sufficienti per me e per lei, giovani leoni irruenti; tutto giocato e

consumato in dodici metri quadrati, con annesso servizio igienico e doccia. Una stanza bianca come le nostre ragioni e celeste, come il nostro cielo bambino.

Lei era nella sua più bella fioritura di femmina e io un acerbo uomo avido di sesso e di carezze, di baci e di paesaggi colorati di fiabe e di eroi. Un immaturo garzone del testosterone.

Prima di entrare nell’alcova dei satiri e delle ninfe, ci procurammo dei dolcetti! Io, ricordo,  portai una bottiglietta metallica, di quelle da viaggio, con del liquore dolce: sambuca!

            Era di maggio, il cielo scolorito dall’afa e stordito dai rumori dei treni e delle auto ci guardava, lontano e muto.

Lei non parlava, usava il corpo per chiedere e per rispondere a tutte quelle domande che nascevano da una voglia irrefrenabile di essere l’uno parte dell’altro, senza se e senza ma. La ventola sul soffitto girava e girava, lenta e senza pudore, fendendo l’aria di quella stanza da letto prestata alla passione e al fuoco di due corpi frementi. 

..........................(continua)


 

domenica 6 dicembre 2020

PRESENTAZIONI DEL ROMANZO "L'EQUAZIONE DEL VAPORE" - UA@2010-16 -Reportage fotografico













 

Galleri d'Arte - 1- Belle le Signore

 

Galleri d?arte Conte di Sant'Ermete, on line

1) La Signora delle Nuvole - Acrilico e olio , dim. 100x70 (cm) - 2018
2) Donna col cappello a calamaio -AeO -40x40
3) Anima AèO -40x40


Luisa, disegno preparatorio
 
La marchesa Ruffini la Corte!
 

Luigi chi?

Ugo Arioti@2020

Luigi chi?

Il mattino, seguente a tanti altri sempre uguali, quando aprii gli occhi, per guardare in faccia lo schifo di vita che respiravo tutti i giorni, chiusa in quarantacinque metri quadrati, mi resi conto che l'atmosfera che mi assediava era divenuta pesante.

I telegiornali vomitavano paure e angosce ataviche; fuori si stava combattendo una guerra contro un nemico invisibile: Il COVID 19! Mai vista una cosa del genere, vissuta in diretta TV dai primi focolai, nel Wuhan, fino alla pandemia.

Quella notte avevo dormito bene solo a sprazzi. Bene! Tanto per dire!, l’inferno mi aveva inghiottito. Un inferno muto. Strade vuote, gente che si rifugiava nei portoni. La guerra? Gridavano “coronavirus, coronavirus”.

Stavo sul letto, nuda; su quel giaciglio duro come una lastra di marmo. Erano tutte le tavole che ci aveva infilato Luigi, per sistemare, alla meno peggio, il nostro talamo, perché potesse reggere le nostre “voglie”, ma lui non c’era. Sono sola. Una donna abbandonata. Volevo che il mio cervello si spegnesse, almeno per qualche minuto, senza pensare a lui o a mio padre, morto mentre io stavo fuori dalla sua camera d’ospedale a fumare.

Non volevo considerare la casa sottosopra, i suoi occhi smarriti sui miei seni e sul ventre, no. Porco mondo. Desideravo staccarmi un attimo dal mondo.

Così, mi alzai. Andai verso il frigo e strappai dal freezer la mia bottiglia di vodka. Presi un “ditalino” e cominciai. Uno tira l’altro, mi scolai tutta la bottiglia. Tra una sigaretta e l’altra mi venne una voglia di vederlo, di toccarlo, di sentire le sue stronzate, di farlo godere, di farlo piangere, di farlo incazzare.

Invece, ero inchiodata a quello schermo di computer e le sue insulse immagini. “Portami via di qua o muoio” pensavo, ma non avevo la forza di prendere il cellulare e chiamarlo. Se ne era andato. Era scappato via, lasciandomi sola col mio dolore interiore e col virus che mi assedia. Ha usato un pretesto meschino: si è alzato e ha recitato la storica frase “Basta, io non ci resisto più così”.

È vero!, io l’ho preso per stronzo, impotente, ciarlatano, fedifrago e idiota e lui, sempre “Non ce la faccio più. “Lo capisci che sono solo un uomo? Devo alzarmi ogni santo mattino per andare a lavorare e rendere possibile la vita per me e per te?”. E io: Sì, ma, dimmi che mi ami. Gridalo al mondo. Lo fai?

 

Mi svegliai all'aria aperta, su una barella, con le mani legate. Mi guardavo intorno, molti dormivano, altri salivano su dei furgoncini neri, la maggior parte era sullo sfondo, su una specie di duna, e c'erano uomini che venivano trascinati via da una casa rosa ai piedi della dolina, quasi in riva al mare, sulla battigia. Riconobbi un ragazzo, non lo vedevo da tanto e, nonostante fosse di spalle, capì: era il mio ex marito. Lo chiamai: Claudio! Non mi rispose, anzi sparì con gli altri e le mura della mia casa mi serrarono la gola. Non so se sono svenuta, se ho sognato o cosa? Non lo so, ma è stato un incubo, questo ve lo posso giurare.

“Luigi. Amore mio, dai, torna a casa. Ti prego. Ho paura che ti ammali, se t’infetti con questo maledetto virus, e non puoi più tornare da me io muoio. Torna, ti prego e fai presto, amore mio”. Parlavo da sola o la batteria era scarica.

Brancicando, mi spostai dal grande tappeto, dove ero sdraiata, verso il divano! Accesi l’ultima sigaretta del pacchetto e lanciai l’involucro verso il cestino. Centro! Guardai con tenerezza la bottiglia di vodka vuota.

“Mondo dove sei?” Nessuna risposta. Penombra. Radi raggi di luce penetravano dalle persiane. Magari, c’era anche quel terribile virus? Il petto mi batteva come un cavallo imbizzarrito. Finalmente, qualcuno si accorse della mia esistenza, marginale e scomposta! Il display del mio cellulare s’illuminò! Il cellulare guaiva. Bellissimo! Allora non era scarica la batteria!

“Pronto, chi sei?” riuscì appena a dire.

“Sono, Luigi” rispose lui. Scoppiai a ridere per la gioia, gli gridai in quei suoi stramaledetti orecchi “Luigi Pirandello?”

“Marì!, smettila e stammi a sentire” ordinò lui.

“Ti sei alzata?, si! Bene, alle due porto il pranzo, quando esco dal lavoro. Chiaro?” ammonimento, ieratico.

“Sì, Luigi Pirandello!” risposi io, piangendo per la commozione.

Mi aveva chiamato. Si era preoccupato di questa piccola pazza donna, lo aveva fatto. Arrivò a casa verso le due e un quarto. Sentii il suo scooter fermarsi sotto il balcone del soggiorno. Mi avvicinai alla persiana e lo spiai.

“Riesce a sopportare il mio umore, le mie stranezze e, perfino, la mia brutalità, quando sono ubriaca. Ero consapevole che la sua corazza, avrebbe ceduto, ma ora è qui! È qui per me! Non voglio pensare ad altro”

-Ciao! lo accolsi, nuda.

-Ciao, Marì, perché non sei…? Ma che ti salta in testa? Non sono nella condizione, devo fare una doccia. Devo togliermi di dosso tutto questo schifo che c’è fuori di casa. Tieni, ho portato il pranzo! sembrava veramente angosciato, e lo era anche per me! Avrei voluto piangere, ma un nodo alla gola me lo impediva, andai dietro di lui raccogliendo i vestiti che sfogliava come la buccia di una banana e li misi in lavatrice, lui s’infilò in doccia. Quando tornò alla vita, io ero ancora svestita, lo aspettavo per buttargli le braccia al collo.

 Tentò di divincolarsi! “No, ora comando io”!

-Vieni, amore mio!

 

Pranzammo che erano le quattro e mezzo del pomeriggio. Il pollo arrosto e le patate fritte erano diventati un unico ammasso, freddo, oleoso, grigio, ma l’appetito ebbe il sopravvento sul disgusto.
Poi, ritornati all’ordinaria quotidianità di coppia, ebbi un vuoto e gli dissi: -Andiamo a fare la spesa?
I suoi occhi si accesero, come una spia luminosa d’allarme.

-Non possiamo uscire, dobbiamo restare in casa, Marì. Io sono andato a lavoro con l’autocertificazione che dice che stavo uscendo per raggiungere l’ufficio. Non lo senti questo silenzio surreale? Torna su questo pianeta, Marì, la fuori c’è il coronavirus! Ci sono file chilometriche ai supermercati e le bancarelle sono vuote, come tombe spogliate. Dobbiamo restare in casa.

-Ma non ho più sigarette, Luigi! Non posso restare senza. gli dissi, come un cagnolino bastonato.

-Lo so, ti ho comprato due stecche di Camel, va bene?

-Sei un tesoro! Dammele.

-No. Ti do un pacchetto e ti deve durare almeno due giorni. Mi hai capito?

-Dai, non fare lo stronzo, Luigi.

-Dovrai passare sul mio corpo. No.

-Se è solo per questo, ci passo subito, vuoi farlo ancora?

-Volevo dire: sul mio cadavere. Marì, dobbiamo restare in casa, chiusi, senza mettere il naso fuori, almeno per una settimana, lo capisci?

-Sì, ma cosa sarà mai sto coronavirus? È una normale influenza. Sai quante persone muoiono ogni anno per queste malattie? Ero sull’incosciente, felice!, alla faccia del coronavirus.

Finimmo a parlare della mia bottiglia di “Keglevich”! Sì, mi fece la ramanzina, ma io gli giurai, solennemente, che l’avrei tenuta nel freezer.

-La esco solo per le nostre occasioni e per festeggiare l’uscita dal tempo del coronavirus. Mentivo!

La sera andò liscia come l’olio. Non volevo perderlo ancora.

             Molti sostengono che sono matta, io? Uomini piccoli, piccoli! Privi di spirito critico e di personalità! Non me ne frega niente di costoro. Quelli che non hanno capacità di giudizio non mi interessano! Tu, amore mio, sei diverso. Sei troppo sincero, Luigi mio! Non so come fai a sopportare che ti chiamo panzone? Sì, ogni tanto, scappi da me e ti nascondi, ma poi torni a riempire i miei vuoti. Io vorrei darti tutto quello che vuoi, come lo vuoi tu, ma sono fatta così. Sono un’artista!

Mentre lei divagava con la mente e si godeva il calore umano che promanava dal suo Luigi, lui, seduto su un angolo del lettone, la guardava, sdraiata come Cleopatra su un manto di stelle che andavano spegnendosi, a una a una. Triste.

Così, con la delicatezza di un poeta romantico, mentre lei dormiva, in silenzio, le teneva le mani.

Una strana coppia, per molti. Tutti, nel quartiere dell’Albergheria e nel mercato di Ballarò, li volevano bene, erano patrimonio di quel pezzo di città!

Chissà, se sarà così anche dopo che il virus lascerà, ancora, il posto al sole e alle “abbanniate” dei mercanti di Ballarò? 


 

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