venerdì 6 luglio 2018

Partiamo dal tuo libro. “La bellezza delle cose fragili” è un’epopea familiare, un viaggio nei dolori e nelle gioie più intime. Quale storia raccontano le sue pagine?
Sì, è una saga familiare “classica”, per quanto riguarda la trama. Sin dall’inizio si viene a sapere che il padre è morto e poi, man mano che la storia va avanti, si scopre perché ha lasciato la sua famiglia, e come questa ha poi imparato a gestire le sue emozioni durante la sua assenza.
Il titolo originale del libro era “Ghana must go”, un titolo sicuramente più conciso e narrativo. “La bellezza delle cose fragili” è molto più poetico, ma anche criptico. Perché questo cambiamento, nella resa in italiano?
La paura dei miei editori, al momento della pubblicazione e diffusione in tutti i paesi stranieri, era che un possibile lettore, vedendo il nome di un paese africano nel titolo, avrebbe subito pensato alla solita storia di guerra, fame e carestia, gli stereotipi sempre tristemente attribuiti  al continente africano. “La bellezza delle cose fragili” esprime un concetto astratto, non attribuibile a nessuna trama precisa, che devi investigare leggendo, appunto, il libro.
“Afropolitan” è un termine che hai coniato per descrivere chi, come te, è un po’ ambasciatore della cultura africana nel mondo. Ce lo spieghi?
Ci tengo a precisare che non esiste UNA cultura africana, e questa è una mia frustrazione. Spesso mi capita di sentir parlare dell’Africa come se fosse un’unica grande entità, quando invece è un enorme continente costituito da ben 55 paesi, tutti diversissimi tra loro sia per cultura, sia per politica, per geografia etc. “Afropolitan” vuol dire semplicemente che, da un lato, hai un grande legame d’appartenenza all’Africa e, dall’altro, che vivi nel mondo con la coscienza di essere un cittadino del mondo e quindi un africano del mondo. Noi siamo abituati a pensare all’Africa come ad un luogo mitologico, lontano, di cui si sente parlare solo al TG: in realtà internet, la comunicazione che si evolve e la globalizzazione ci permettono di conoscere e avvicinare qualunque posto, e anche l’Africa: dobbiamo imparare a scoprirla.
Oltre ad essere scrittrice sei anche fotografa, e sei evidentemente innamorata della “tua” bella Africa. Se dovessi coniugare queste tue passioni per dipingerla a parole, che colori useresti?
Ghana e Nigeria, sono la “mia” Africa. Ma Accra è la città a cui sono più legata. E’ una città giovane, che sta ancora crescendo. Quindi sarebbe un quadro semplice, con colori morbidi, e caldi, tranquilli…un po’ astratto. In un angolo, tuttavia, metterei una punta di un colore “shock”, come un rosso fortissimo: rappresenta le sorprese che mi hanno regalato e, sono sicura, continueranno a regalarmi questi magnifici luoghi.
Tra i cannoncini e le brioches offerte dalla Pasticceria San Biagio, interviene poi la dott.ssa Nadia Monacelli, psicologa sociale e lettrice accanita, che avvia una lunga e interessante conversazione/intervista con Taiye, sottolineando tutte le ricchezze e le sfaccettature psicologiche nascoste nelle pieghe del libro. Il tema centrale, che presto emerge con insistenza, è certo quello dell’identità e dell’appartenenza, in questo mondo in cui, ogni giorno, qualche piccolo mattone delle numerose (e immense) barriere culturali viene fortunatamente abbattuto.
“La cosa più importante, oggi, è sentirsi a casa, dovunque ci si trovi. L’identità e il senso di appartenenza sono psicologici, non politici”.

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LA PROSSIMA INTERVISTA CON UGO ARIOTI, AUTORE DEL ROMANZO "L'EQUAZIONE DEL VAPORE" EDITO DA QANAT EDIZIONI PALERMO 2018 - tonisaetta@gmail


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