Eugène Ionesco e l’assurdo del Novecento
“Diventerete tutti notai!”,
ripeteva Eugéne Ionesco ai contestatori durante il Sessantotto
francese. Ovviamente si sbagliava perché la verità era molto più
semplice: molti di loro sarebbero diventati almeno per qualche anno
professori “modello” (con quel po’ po’ di famiglie era quello il
minimo), forti coi deboli e deboli coi forti, gente che avrebbe
mescolato nuove tendenze e vecchi clichés a un autoritarismo da
ospizio stalinista duro a morire. Probabilmente però al commediografo
francese di origini rumene nato il 26 novembre del 1909 (secondo taluni
invece, indotti all’errore dallo stesso Ionesco, nel 1912), tutto questo
non sarebbe interessato granché. Da parecchio tempo era infatti avvezzo
alle provocazioni, ai nonsense e a sentirla e sparala grossa o come gli capitava. E a volte ci prendeva a volte no. Nel maggio del 1950 era andata in scena La cantatrice chauve (La Cantatrice calva),
anticommedia in atto unico su una famiglia inglese di nome Smith da
dove aveva preso avvio il suo teatro detto dell’assurdo, come assurde
erano le opere di Beckett, Genet e Adamov grazie alle quali la crisi
dell’uomo contemporaneo si manifestava attraverso la mancanza di logica,
e la logica (vedi le parole?) difficoltà/impossibilità di
comunicazione.
Era
stato il critico Martin Esslin a definire così quel tipo di teatro
provocando non poche reazioni da parte di chi non sopportava
l’“ombrello” e la compagnia degli altri. Ionesco amava peraltro definire
il proprio teatro come semplicemente “astratto”.
Caratteristica assai singolare di questo
teatro era l’utilizzo di un dialogo fitto e insistente, creato su
situazioni o proposizioni senza senso (sul giornale: “c’è una cosa
che non capisco. Perché nella rubrica dello stato civile è sempre
indicata l’età dei morti e mai quella dei nati? È un controsenso”),
reali e irreali insieme, confusionarie, incoerenti e slegate dal
contesto nel quale si verificavano. Un quadro con troppe cornici
insomma. Una così splendida ma “inutile” concretezza da far invidia a
qualsiasi “realista”, in perfetto stile avanguardista e perfino
esistenzialista. Ci si poteva leggere la vacuità della borghesia di metà
secolo, l’inadeguatezza del linguaggio rispetto alla vita o magari
perfino quella piccola o grande Entità che prima o poi tutti si sarebbe
andati a cercare. Quando Ionesco morì aveva 85 anni, era stanco e
ammalato e pare fosse in cerca di Dio. E non da poco. Di un Dio che
potesse dare una svolta alla propria carriera letteraria, che gli
permettesse di liberarsi dall’angoscia e dal vuoto di una vita.
A
quel tempo Ionesco era divenuto assai polemico con chi si accordava al
proprio tempo come uno strumento al proprio suonatore. Aveva finito per
vivere da perfetta caricatura anche di se medesimo (da eroe tipico e mai
da tipico eroe!), leggero e pesante allo stesso tempo come il teatro
che aveva donato al mondo di una cultura sempre più internazionale; ove
tutti trovavano tutto tranne (forse) quel che in fondo fosse opportuno
trovare (almeno per l’“ultimo” Ionesco): la ricerca dell’assoluto dietro
temi e fatti che appartenevano al nostro autore e a pochi altri geni
“metafisici” come lo era pian piano diventato lui. Ionesco era nato a
Slatina in Romania da madre francese e lì aveva vissuto l’età più tenera
e la prima giovinezza. In seguito la grande terra francese sarebbe
diventata la patria d’elezione, pur non avendo mai scordato la Romania e
il suo destino privo di libertà.
Fu inizialmente critico letterario, poeta e professore. La sua Cantatrice calva
era stata ricavata da un manuale di conversazione per l’apprendimento
della lingua inglese come se il mondo circostante potesse essere
spiegato grazie a delle comunissime frasi ritagliate da un qualsiasi
manuale ma poi da lì l’autore si era spinto oltre, alla ricerca di
parole che a una qualche certezza potessero somigliare fra le ambiguità
rese obiettive dalla sua stessa carriera di scrittore e poeta. Non
facile, soprattutto per chi aveva faticato non poco perché gli altri
s’accorgessero del suo singolare talento.
Logicamente
il debutto di Ionesco era stato poco compreso, dalla gente innanzitutto
ma anche via via da quei critici che con prosa oramai superata venivano
definiti conservatori. Così la sinistra – sempre uguale a se stessa –
aveva preso a farne una bandiera provocando la reazione dello stesso
Ionesco: di sinistra? No mai! Tempo fa (il 13 ottobre scorso) il Secolo d’Italia ha
ricordato la partecipazione del drammaturgo francese a un noto convegno
per la libertà tutt’altro che da collocare a sinistra: “Non è
dunque un caso se, Eugéne Ionesco, divenne un punto di riferimento per
una nuova cultura di destra che si muoveva all’insegna della libertà.
Così nel 1970 in Italia sorgeva il Cidas (centro italiano documentazione
azione studi) che, di fronte alla doppia egemonia Dc-Pci, organizzava
nel 1973 il 1° congresso per la difesa della cultura intitolato proprio
“intellettuali per la libertà”, con il fine denunciato di rompere il
monopolio culturale della sinistra. E a quella assise – tra i tanti che
intervennero c’erano anche Giuseppe Berto, Julien Freund, Gabriel
Marcel, Carlo Alianello, Robert Aron, Paul Feyerabend e Sergio Ricossa –
aderì soprattutto Ionesco … L’anno successivo, oltretutto Ionesco,
diveniva una delle firme di punta – insieme a Francois Fejto, Antony
Burgess e Renzo De Felice – del nuovo Giornale di Indro Montanelli, nato proprio per reagire all’egemonia della sinistra ideologica”.
Figuriamoci
poi quanto Ionesco lo fosse stato, poco compreso, dopo questi ultimi
episodi politicamente scorretti in anni così profondamente conformisti
oltreché pericolosi. Il giorno dopo la sua morte peraltro così scriveva
Masolino D’Amico sulla Stampa, ricordando il successo mondiale delle opere del drammaturgo d’origine romena: “L’Italia
non fece eccezione e molti attori, Da Battistella a Bosetti, da
Buazzelli a Bucci fino di recente a Scaccia hanno saggiato la superba
recitabilità di questi classici, superando in qualche caso i tentativi
di ostracismo che la cultura di sinistra per qualche lustro tentò di
decretare a una voce rea di professarsi apolitica e anzi, peggio,
avversaria dei totalitarismi. Non per nulla Ionesco aveva abbandonato il
regime di Ceausescu, di cui era stato avversario: naturalmente poi si è
visto chi aveva ragione”. Un’incomprensione che procedeva anche
dal fatto che Ionesco, noto per i suoi lavori teatrali, in realtà
considerasse questo un genere letterario inferiore, rispetto a generi –
come il romanzo per esempio – coi quali avrebbe potuto guadagnare un
riconoscimento maggiore. Proprio un “Intellettuale” (“I” maiuscola) non
era di certo…
Non di rado l’autore sarà costretto a difendere il proprio modo di fare teatro (dai “dottori” brechtiani Roland
Barthes e Bernard Dort, per esempio). Davvero strano se si pensa che a
poco a poco il pubblico cominciava a interessarsi a lui, che divenne
accademico di Francia e che dal 1957 la sua opera prima verrà
rappresentata con continuità al teatro de la Huchette al Quartiere
latino di Parigi. Le critiche ricorrenti, e dagli anni Sessanta in poi
si erano peraltro infittite, riguardavano il suo “scarso” impegno nella
politica e la sua abitudine a rappresentare – seppur coi tratti di cui
sappiamo – un mondo sostanzialmente conformista, ciò mentre in quegli
anni si decideva il destino dell’occidente e dei territori e delle
“filosofie” a esso legate. Dagli anni Settanta Ionesco abbinerà a un
senso di estraneità al mondo contemporaneo anche certo pessimismo. Stava
forse cedendo alle critiche dei suoi detrattori ma nel frattempo la sua
produzione era andata avanti e bon grè mal grè il nostro era
riuscito a comunicare al mondo (almeno lui), i temi cari al proprio
animo già da piccolo macchiato dall’orrore della guerra; temi forti di
amore e odio, inferno, ricaduta e rinascita che avevano caratterizzato
fortemente i suoi personaggi vuoti e schiavi di forze e volontà da loro
stessi indipendenti. Personaggi spesso comici ma anche terribilmente e
pericolosamente banali (ecco una delle non poche riflessioni di Ionesco:
“Dove non c’è umorismo non c’è umanità; dove non c’è umorismo –
questa libertà che si prende, questo distacco di fronte e a se stessi –
c’è il campo di concentramento”).
Un
Novecento senza idealità e prospettive positive, ecco la sua vera
dannazione: come un artista dada Ionesco aveva espresso le
contraddizioni di quella che veniva chiamata modernità senza una via
d’uscita che fosse almeno semplicemente gradevole. Non c’erano vie di
fuga anzi per Ionesco non esistevano altre vie… Bisognava solo, quello
sì, cercare e cercare un significato più alto… come ne La lezione
(1951), che è la storia di un professore folle, vittima e allo stesso
modo carnefice. La vera protagonista come in un incredibile resoconto di
guerra è la morte, un argomento per forza di cose caro a chi come
Ionesco si interrogava sul significato della vita, il suo inizio e la
sua fine. O come ne Le sedie (1952), o Amedeo o come sbarazzarsene (1954),
che sono i titoli più noti e rappresentativi di un “primo” Ionesco che
lascerà il posto a un autore meno paradossale ma altrettanto
“graffiante” per non dire “esplosivo” nato negli anni Sessanta; si
tratterà del papà di un nuovo eroe (Bérenger) che lotterà contro una
società oramai destinata al livellamento. Rinoceronte (1960),
è senz’altro il suo lavoro più noto perché si tratta di una messa in
scena politica o meglio antipolitica e pensata contro ogni
totalitarismo, un lavoro che ovviamente piacque punto ai custodi
dell’ortodossia progressista. Il re muore (1962),
è invece una riflessione continua sulla morte, da leggersi come un
colossale esame di coscienza. L’assurdo dà più spazio ai grandi tempi
dell’umanità e della condizione storica dell’esistenza, dunque. E ci
riesce davvero bene.
Ionesco riposa nel grande cimitero di
Montparnasse ove si trova fra gli altri anche Charles Baudelaire.
Dopotutto la sua vita artistica era cominciata anche grazie all’autore
dei Fleurs du mal, perché il grande drammaturgo contemporaneo
si era recato da Bucarest a Parigi per una borsa di studio prevedendo di
studiare la “morte” e il “peccato” nella poesia francese dopo
Baudelaire. Ma qui il grande autore parigino raffinato e delirante lo
aveva come chiamato a sé per la vita e per la morte.