Ugo Arioti@2020
Luigi
chi?
Il mattino,
seguente a tanti altri sempre uguali, quando aprii gli occhi, per guardare in
faccia lo schifo di vita che respiravo tutti i giorni, chiusa in quarantacinque
metri quadrati, mi resi conto che l'atmosfera che mi assediava era divenuta pesante.
I telegiornali vomitavano paure e angosce ataviche; fuori
si stava combattendo una guerra contro un nemico invisibile: Il COVID 19! Mai
vista una cosa del genere, vissuta in diretta TV dai primi focolai, nel Wuhan,
fino alla pandemia.
Quella notte avevo dormito bene solo a sprazzi. Bene!
Tanto per dire!, l’inferno mi aveva inghiottito. Un inferno muto. Strade vuote,
gente che si rifugiava nei portoni. La guerra? Gridavano “coronavirus,
coronavirus”.
Stavo sul letto, nuda; su quel giaciglio duro come una
lastra di marmo. Erano tutte le tavole che ci aveva infilato Luigi, per
sistemare, alla meno peggio, il nostro talamo, perché potesse reggere le nostre
“voglie”, ma lui non c’era. Sono sola. Una donna abbandonata. Volevo che il mio
cervello si spegnesse, almeno per qualche minuto, senza pensare a lui o a mio
padre, morto mentre io stavo fuori dalla sua camera d’ospedale a fumare.
Non volevo considerare la casa sottosopra, i suoi occhi
smarriti sui miei seni e sul ventre, no. Porco mondo. Desideravo staccarmi un
attimo dal mondo.
Così, mi alzai. Andai verso il frigo e strappai dal
freezer la mia bottiglia di vodka. Presi un “ditalino” e cominciai. Uno tira
l’altro, mi scolai tutta la bottiglia. Tra una sigaretta e l’altra mi venne una
voglia di vederlo, di toccarlo, di sentire le sue stronzate, di farlo godere,
di farlo piangere, di farlo incazzare.
Invece, ero inchiodata a quello schermo di computer e le
sue insulse immagini. “Portami via di qua o muoio” pensavo, ma non avevo la
forza di prendere il cellulare e chiamarlo. Se ne era andato. Era scappato via,
lasciandomi sola col mio dolore interiore e col virus che mi assedia. Ha usato
un pretesto meschino: si è alzato e ha recitato la storica frase “Basta, io non
ci resisto più così”.
È vero!, io l’ho preso per stronzo, impotente,
ciarlatano, fedifrago e idiota e lui, sempre “Non ce la faccio più. “Lo capisci che sono solo un uomo? Devo alzarmi ogni santo mattino per
andare a lavorare e rendere possibile la vita per me e per te?”.
E io: Sì, ma, dimmi che mi ami. Gridalo al mondo. Lo fai?
Mi svegliai
all'aria aperta, su una barella, con le mani legate. Mi guardavo intorno, molti
dormivano, altri salivano su dei furgoncini neri, la maggior parte era sullo
sfondo, su una specie di duna, e c'erano uomini che venivano trascinati via da una
casa rosa ai piedi della dolina, quasi in riva al mare, sulla battigia. Riconobbi
un ragazzo, non lo vedevo da tanto e, nonostante fosse di spalle, capì: era il
mio ex marito. Lo chiamai: Claudio! Non mi rispose, anzi sparì con gli altri e
le mura della mia casa mi serrarono la gola. Non so se sono svenuta, se ho
sognato o cosa? Non lo so, ma è stato un incubo, questo ve lo posso giurare.
“Luigi. Amore mio, dai, torna a casa. Ti prego.
Ho paura che ti ammali, se t’infetti con questo maledetto virus, e non puoi più
tornare da me io muoio. Torna, ti prego e fai presto, amore mio”. Parlavo
da sola o la batteria era scarica.
Brancicando, mi spostai dal grande tappeto, dove ero
sdraiata, verso il divano! Accesi l’ultima sigaretta del pacchetto e lanciai
l’involucro verso il cestino. Centro! Guardai con tenerezza la bottiglia di
vodka vuota.
“Mondo dove sei?” Nessuna risposta.
Penombra. Radi raggi di luce penetravano dalle persiane. Magari, c’era anche
quel terribile virus? Il petto mi batteva come un cavallo imbizzarrito.
Finalmente, qualcuno si accorse della mia esistenza, marginale e scomposta! Il
display del mio cellulare s’illuminò! Il cellulare guaiva. Bellissimo! Allora
non era scarica la batteria!
“Pronto, chi sei?” riuscì appena a dire.
“Sono, Luigi” rispose lui. Scoppiai a ridere per la
gioia, gli gridai in quei suoi stramaledetti orecchi “Luigi Pirandello?”
“Marì!, smettila e stammi a sentire” ordinò lui.
“Ti sei alzata?, si! Bene, alle due porto il pranzo,
quando esco dal lavoro. Chiaro?” ammonimento, ieratico.
“Sì, Luigi Pirandello!” risposi io, piangendo per la
commozione.
Mi aveva chiamato. Si era preoccupato di questa piccola
pazza donna, lo aveva fatto. Arrivò a casa verso le due e un quarto. Sentii il
suo scooter fermarsi sotto il balcone del soggiorno. Mi avvicinai alla persiana
e lo spiai.
“Riesce a sopportare il mio umore, le mie
stranezze e, perfino, la mia brutalità, quando sono ubriaca. Ero consapevole
che la sua corazza, avrebbe ceduto, ma ora è qui! È qui per me! Non voglio
pensare ad altro”
-Ciao! lo accolsi, nuda.
-Ciao, Marì, perché non sei…? Ma che ti salta in testa?
Non sono nella condizione, devo fare una doccia. Devo togliermi di dosso tutto
questo schifo che c’è fuori di casa. Tieni, ho portato il pranzo! sembrava
veramente angosciato, e lo era anche per me! Avrei voluto piangere, ma un nodo
alla gola me lo impediva, andai dietro di lui raccogliendo i vestiti che
sfogliava come la buccia di una banana e li misi in lavatrice, lui s’infilò in
doccia. Quando tornò alla vita, io ero ancora svestita, lo aspettavo per
buttargli le braccia al collo.
Tentò di
divincolarsi! “No, ora comando io”!
-Vieni, amore mio!
Pranzammo che erano
le quattro e mezzo del pomeriggio. Il pollo arrosto e le patate fritte erano diventati
un unico ammasso, freddo, oleoso, grigio, ma l’appetito ebbe il sopravvento sul
disgusto.
Poi, ritornati all’ordinaria quotidianità di coppia, ebbi un vuoto e gli dissi:
-Andiamo a fare la spesa?
I suoi occhi si accesero, come una spia luminosa d’allarme.
-Non possiamo uscire, dobbiamo restare in casa, Marì. Io
sono andato a lavoro con l’autocertificazione che dice che stavo uscendo per
raggiungere l’ufficio. Non lo senti questo silenzio surreale? Torna su questo
pianeta, Marì, la fuori c’è il coronavirus! Ci sono file chilometriche ai
supermercati e le bancarelle sono vuote, come tombe spogliate. Dobbiamo restare
in casa.
-Ma non ho più sigarette, Luigi! Non posso restare senza.
gli dissi, come un cagnolino bastonato.
-Lo so, ti ho comprato due stecche di Camel, va bene?
-Sei un tesoro! Dammele.
-No. Ti do un pacchetto e ti deve durare almeno due
giorni. Mi hai capito?
-Dai, non fare lo stronzo, Luigi.
-Dovrai passare sul mio corpo. No.
-Se è solo per questo, ci passo subito, vuoi farlo
ancora?
-Volevo dire: sul mio cadavere. Marì, dobbiamo restare in
casa, chiusi, senza mettere il naso fuori, almeno per una settimana, lo
capisci?
-Sì, ma cosa sarà mai sto coronavirus? È una normale
influenza. Sai quante persone muoiono ogni anno per queste malattie? Ero
sull’incosciente, felice!, alla faccia del coronavirus.
Finimmo a parlare della mia bottiglia di “Keglevich”! Sì, mi fece la ramanzina, ma io gli giurai,
solennemente, che l’avrei tenuta nel freezer.
-La esco solo per le nostre occasioni e per festeggiare
l’uscita dal tempo del coronavirus. Mentivo!
La sera andò liscia come l’olio. Non volevo perderlo
ancora.
Molti
sostengono che sono matta, io? Uomini piccoli, piccoli! Privi di spirito
critico e di personalità! Non me ne frega niente di costoro. Quelli che non
hanno capacità di giudizio non mi interessano! Tu, amore mio, sei diverso. Sei
troppo sincero, Luigi mio! Non so come fai a sopportare che ti chiamo panzone? Sì,
ogni tanto, scappi da me e ti nascondi, ma poi torni a riempire i miei vuoti.
Io vorrei darti tutto quello che vuoi, come lo vuoi tu, ma sono fatta così.
Sono un’artista!
Mentre lei divagava
con la mente e si godeva il calore umano che promanava dal suo Luigi, lui,
seduto su un angolo del lettone, la guardava, sdraiata come Cleopatra su un
manto di stelle che andavano spegnendosi, a una a una. Triste.
Così, con la delicatezza di un poeta romantico, mentre
lei dormiva, in silenzio, le teneva le mani.
Una strana coppia, per molti. Tutti, nel quartiere
dell’Albergheria e nel mercato di Ballarò, li volevano bene, erano patrimonio
di quel pezzo di città!
Chissà, se sarà così anche dopo che il virus lascerà, ancora,
il posto al sole e alle “abbanniate” dei mercanti di
Ballarò?