martedì 8 settembre 2015

I racconti della domenica - Ugo Arioti


Accadde una mattina

 


Accadde una mattina. Gino Cannato, detto “Minimo”, era libero da impegni di lavoro e aveva in testa di andare a contare i diavoli della Zisa! Si intruppò su un autobus che lo trasportava verso Piazza Principe di Camporeale e scese alla fermata più vicina alla nuova villa. L'Amministrazione comunale l'aveva voluto costruire proprio davanti al “Sollazzo normanno” per evocare le antiche e preziose impronte del parco che, un tempo, circondava il castello.

Camminava e rideva Ginuzzu!

La sua mente incespicava su ogni cosa di vivo o di morto che catturava la sua attenzione. Il topo di fogna agonizzante sotto il marciapiede, la gente che entrava in un negozio, quelli che correvano per recuperare il tempo della gioventù, quelli che lo facevano per mantenere un buon rapporto con il loro corpo, devastato da inedia e mangiate da sballo, le signore che tenevano per mano i bambini, incarcerandoli con il loro amore, le due giovani ragazze, una bionda e una bruna, che con una tuta aderentissima e fascia reggi-capelli correvano per i viali della villa lungo percorsi d'acqua che sembravano scheletri di cemento dopo lo scirocco che aveva essiccato tutte le fonti di approvvigionamento di H2O.

Camminava e rideva Ginuzzu!

L'ombra sul suo cammino era fresca. Sembrava gorgogliare, mossa da un gentil venticello, come provenisse dal cuore della terra e nel suo cuore si diramasse verso orizzonti nuovi, ancora senza segnali distintivi. Lento, passo pigro e strusciante, accompagnava il movimento dei piedi con un oscillazione della testa e con il pendolo delle braccia. No, non era ubriaco. Luigino Cannata, chiamato dai ragazzacci del quartiere “Gino Minimo”, a quel tempo aveva i suoi quarantatré anni e mezzo, stampati sulla fronte col marchio di “solitario”. Non frequentava nessuno, non parlava con nessuno e se gli rivolgevano la parola, lui si metteva a ridere e poi se ne andava. Per molti, infatti, era matto, per altri sordo muto, per altri, ancora, scemo. Ma era sempre lui, un uomo cresciuto troppo poco dal punto di vista della vita che scorre e moltissimo in rapporto ai programmi dell'architetto dell'Universo. Doveva andare così. Il suo mestiere, manco a dirlo, era quello di puliziere al cimitero comunale. Scopava i viali del tramonto che accompagnano i viaggiatori stanchi al molo di Caronte! Badate bene, un uomo tutto d'un pezzo, dalla testa ai piedi, capelli nero corvino a spazzola, sopracciglio folto e unico sopra due buchi d'occhi più neri della pece; sempre in abito nero gessato (modello Borsalino) e scarpe di vitellina nere lucide come canne di fucile uscite dalla fabbrica! Ora, mi sembra normale, che chi lo incontra metta le mani nel posto dove in genere si mettono per far uscire dalla patta dei pantaloni … diciamo che se la tira!

È evidente che un siffatto individuo non può passare inosservato. I ragazzacci, che giocavano tirandosi pietre da una parte all'altra delle vasche piene di bottiglie di plastica e scatole di cartone di ogni genere e qualità, lo avevano già segnalato ai loro amici e ogni tanto qualcuno lo avvicinava gridandogli in faccia: “Minimo picchi un tu iouchi e dadi ca ci fai chu fiura”? Parlavano del suo arnese sessuale e ne scimmiottavano le dimensioni, poi, nondimeno degli sberleffi e degli scherzi se ne tornavano ai loro giochi da bambini tranquilli (lancio di pietre e oggetti vari a squadre contrapposte), restavano sconfitti dal suo sorriso e dalla sua indifferenza. Come se non li sentisse. Lui continuava il suo tour!

Camminava e rideva Ginuzzu!

Le fabbriche del Signore sono piene di giocattoli guasti, eppure, anche questi sono utili al grande disegno!

Ma chi l'ha detta sta “fissaria”, pensava Gino Cannata, mentre, intorno a lui, si era fatto un silenzio disumano. I palazzi nuovi erano scoloriti, le vasche della villa cominciarono, al contrario, (va sempre così in questa città in contro-tempo) a godere dell'abbraccio fruttato e frizzante del ruscello che partiva dalla vasca numero 1, il castello sullo sfondo era diventato di un senape scuro ossessivo e dai torrini uscivano piccole nuvole di grigio vestite, i lampioni sui vialetti erano neri, i fiori, le palme e le erbacce erano ferme come soldati che aspettano l'ordine per l'assalto, il topo, mezzo morto, si era appena appena rizzato sulle quattro zampine ed era tornato per lo scarico di una vecchia caditoia guasta nel suo regno di fognature e vecchi merletti di immondizia. Ma, la cosa più seccante era che il tempo si era interrotto. Zac, pausa! Una persona una che passasse correndo o saltellando o camminando o volando non c'era. Ma a Gino?

Camminava e rideva Ginuzzu!

E dove erano andati a finire i ragazzacci e le comari con i figli al seguito? Possibile che tutti erano scomparsi. Allora sono morto, pensò Gino. È più facile che la morte si rappresenti al singolare che al plurale! Pensieri da filosofia casereccia, genuina e imperfetta, forse, ma sempre filosofia!

Ora, mentre continuava il suo corso il nostro puliziere cimiteriale, sentì due cose che si prendevano a pugni tra loro. La prima era come un brutto suono, un colpo di bastone e l'altro un fruscio di vento come di gente che scappa, ma tutto troppo in fretta per Gino. Non capiva, ma sorrideva.

Sorrise ancora una volta e poi inciampò....
 
(segue)

 

domenica 6 settembre 2015

La guerra e la pulsione di morte, principio psicoanalitico e monito etico

La guerra e la pulsione di morte, principio psicoanalitico e monito etico




Valeria Egidi Morpurgo
Eros e pulsione di morte: un monito etico?
Gerda TaroChe cosa può dire la psicoanalisi di fronte a eventi  quali le guerre, i genocidi, le violenze collettive del secolo Ventesimo: eventi  eccedenti la pensabilità che appaiono talmente traumatici da traumatizzare la capacità stessa di  pensiero? Credo che il richiamo di Freud nel Disagio della civiltà alle “potenze celesti”, gli “immortali antagonisti”: Eros e la pulsione di morte, sia ancora fecondo per il pensiero psicoanalitico che si confronta con la distruttività umana e la guerra. Il dualismo pulsionale proiettato su scala sovraindividuale e metastorica  introduce un orizzonte inquietante. Non si tratta infatti della  descrizione naturalistica  di forze  di carattere biologico  (come adombrato da Freud   in  Al di là del principio del piacere) ma di  un orizzonte post-illuministico dove è perduta la fiducia nell’idea del  progresso  dell’umanità. Dove ogni acquisizione umana nel campo delle relazioni tra individui e tra gruppi appare fragile e soggetta a revoca.  Con quel richiamo Freud segnalava  la minaccia di una catastrofe per  l’umanità, di una  rovina delle conquiste sociali ed etiche faticosamente acquisite dalla  civiltà. Un monito anche per noi? Se consideriamo il dualismo pulsionale espresso nella metafora  delle “potenze celesti” come un richiamo di carattere etico, come se si trattasse dell’embrione di quella che sarà definita alcuni decenni dopo come “etica della riparazione” potremo  trovare una base per confrontarci  con le tragedie storiche collettive. 
Frattura nella storia e postmodernità
René Diatkine  in La nuit du chasseur (relazione al CMP marzo 2009) riferendosi alla celebre definizione di cultura della postmodernità (F.Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli 1981)  definisce  Freud un pensatore della modernità  che, dopo la Grande Guerra,  diventa un pensatore della post-modernità in quanto  ha perduto la fiducia nel progresso civile dell’umanità, pur restando in bilico tra le due posizioni. Anche  noi  oscilliamo tra questi due aspetti.  Infatti  siamo non solo inorriditi ma anche stupiti nell’apprendere di  qualche nuova “barbarie” dei nostri giorni.  Questo non accadrà  perché continuiamo ad attenderci  che lo sviluppo etico segua secondo un percorso in crescendo, non revocabile,  alla stessa maniera di come ci raffiguriamo lo sviluppo scientifico e tecnico? 
Se il pensiero postmoderno, non tanto in Lyotard quanto in certi epigoni tardi di Nietzsche, sembra comportare  la neutralità del valore, con il rischio di svalutare ogni presa di posizione etica, il ricorso ai grandi maestri della psicoanalisi, in particolare a Freud e alla Klein,  mostra come  l’interpretazione-spiegazione psicoanalitica dei fenomeni,  non escluda   un’etica dei valori.  (cfr V.Egidi Morpurgo, Etica e psicoanalisi: l’utile del più debole, in Realtà psichica e regole sociali, 2012, pp.104-5). Nel pensiero  postmoderno è sospesa e nullificata l’idea stessa di progresso storico ed è coerente con questa ottica segnalare soprattutto gli  arresti e  le fratture nel cosiddetto sviluppo storico. La frattura per antonomasia è stata identificata dai più  negli eventi del Ventesimo secolo che hanno minacciato la stessa specie umana: Auschwitz, luogo culmine della Shoah, e volto della crudeltà e distruttività collettiva contro gli inermi e  Hiroshima, simbolo dei “disastri della guerra”.
Molti autori hanno riflettuto  sulla Shoah.  Moses Kijak esemplarmente  segnala come la realizzazione di una così totale capacità distruttiva quale si è manifestata nello sterminio degli Ebrei  “svelasse un aspetto dell’essere umano che mutò completamente l’immagine etica che l’umanità ha di se stessa”   (Moses Kijak,  2005,  in Egidi Morpurgo, cit) segnando  un punto di svolta che richiede nuovi parametri e nuovi concetti etici. Molti anni prima, Franco Fornari scriveva il suo Psicoanalisi della situazione atomica (Rizzoli, 1970), in cui (in sintonia con il gruppo internazionale degli psicoanalisti contro la guerra nucleare) indicava nella minaccia di guerra nucleare globale una prospettiva pantoclastica  che  richiedeva  una nuova riflessione etica e politica.
La guerra come elaborazione paranoica del lutto:  Franco Fornari
La riflessione di Fornari sulla guerra ruota attorno a una tesi centrale: la guerra è   un’elaborazione paranoica del lutto fatta dal gruppo. Riprendendo Freud e Klein, Fornari sottolineava la difficoltà per ogni essere umano di fronteggiare le angosce depressive in quanto  gli esseri umani negano il proprio istinto di morte e il sadismo primario tramite una deflessione all’esterno della pulsione  di morte. E lo stesso avviene con il  gruppo che trova un nemico esterno o interno per esportare le sue angosce paranoidee e depressive. Si può così ritenere la guerra  espressione dell’odio dei padri verso i figli,  una forma di   figlicidio, secondo l’idea di Rascovsky, o  come  infanticidio differito che era  la tesi del sociologo Gaston Bouthoul (Op cit, p. 40). O come fratricidio se teniamo conto del pensiero di chi, come Kaes, ha articolato i conflitti dell’Edipo “verticale” (tra genitori e figli) con quello fraterno, cioè “orizzontale”. Questi sono i lutti negati ed esportati. Una domanda sorge immediatamente, quando si parla di guerra: si possono considerare allo stesso modo le guerre offensive da quelle di difesa? Non ripugna all’etica avvicinare aggressori e aggrediti?
Fornari  distingueva tra guerra e guerra e descriveva la diversa dinamica di rifiuto ed esportazione della colpa o di decolpevolizzazione  della violenza vigente tra gli aggressori e gli aggrediti.  Ma segnalava  comunque il fondamento comune. In altri termini il rifiuto individuale e di gruppo del lutto e della colpa  porta alla rinuncia dell’etica e  lascia al gruppo organizzato, o allo stato, il monopolio della violenza. Se d’altra parte la guerra serve ad un gruppo (grande o piccolo)  ad attenuare le angosce persecutorie spostando all’esterno la distruttività,  insieme consente la conservazione dell’oggetto d’amore  “percepito come minacciato dai nemici”  attraverso il sacrificio di una parte del gruppo a questo deputata, quali sono gli eroi, o i soldati.  (p. 72) La guerra si nutre dunque   anche della capacità di soffrire per amore. Vi è dunque anche un’angoscia depressiva  in guerra, che viene elusa, negata, deflessa o agita. Ma non vi è riparazione, perché questa implicherebbe il riconoscimento della distruttività, sia individuale, sia di gruppo. E quindi la fine della guerra. Anche qui si vede la differenza tra negare o accettare la distruttività. La illumina una distinzione proposta da Luis Grinberg che  nello stesso periodo, alla fine degli anni Sessanta,  in cui Fornari riflette sulla guerra, descrive il duplice carattere della colpa e del lutto, distinguendo la  colpa persecutoria dalla colpa depressiva. La prima si mescola alle angosce schizoparanoidee, e  produce il sentimento di un danno occorso all’Io  o all’oggetto e provoca paura e  dolore. La colpa depressiva  invece, che è al servizio delle pulsioni di vita, implica la capacità di avvertire la propria responsabilità nei rapporti con gli altri, di riconoscere la propria aggressività  e di volerla riparare.  Rappresenta perciò “l’espressione di un’evoluzione sana dell’Io” (Grinberg, Colpa e depressione,  Loescher, 1971, p.115)
Fornari aveva chiarito la portata dell’assunzione di colpa sul piano etico dichiarandosi  contrario all’idea secondo la quale chi parla di responsabilità e  tendenze riparative maschererebbe sentimenti di colpa non risolti:  “un discorso del genere (…) tende semplicemente a negare l’originaria necessità  di colpa (…) può essere considerato come difesa maniacale ed esprime di fatto una posizione cinica” (p.190). Per fare un esempio di colpa depressiva e responsabilità si può considerare il caso di Socrate quale compare nel Gorgia di Platone.
Tra Socrate che accetta di soffrire per il suo oggetto d’amore, perché accetta di morire per rispetto delle leggi della polis, e i kamikaze giapponesi che si lanciavano in missioni suicide per salvare l’onore dell’Imperatore, c’è una differenza, dice Fornari: mentre il kamikaze rimane nell’area della negazione e della paranoia, Socrate incarna l’ideale etico della posizione depressiva.
L’etica dei moventi e l’etica dei fini
Il fondamento etico continua dunque a riaffacciarsi prepotentemente. Non si riesce a pensare e a giudicare l’impensabile come la guerra, le guerre, la distruttività senza muovere da un principio etico, o meglio senza muovere da un sentire etico. Formulazioni etiche  vere e proprie  si trovano in Freud, e in Melanie Klein  a partire  dalla distinzione classica tra l’etica dei motivi o dei moventi   e l’etica dei fini, di derivazione classica, che ha trovato la sua massima espressione nella teoria   kantiana. Con la prima teoria delle  pulsioni  Freud sembra  riferirsi a un’etica dei moventi, vale a dire a un’etica di tipo edonistico vicina all’utilitarismo  di Bentham (cfr  Philip Rieff,  Freud moralista, Il Mulino, 1968, pp.474-75) per cui il bene è rappresentato dalla ricerca del piacere. Ma con  l’istituzione della pulsione di morte la  posizione  di Freud non può più dirsi  edonistica, o solo edonistica. Infatti  Freud pone un riferimento esterno alla descrizione del comportamento umano e del rapporto conscio-inconscio. Lo fa in tre modi:  con il richiamo all’Ananche, con  il pessimismo sulla civiltà  e con la teoria della pulsione di morte. Con quest’ultima  contraddice l’ utilitarismo e  apre la strada ad un recupero del concetto di valore. La descrizione delle due potenze celesti, Eros che conduce all’unione, mentre la pulsione di morte porta alla distruzione e allo stato inorganico, non è “neutrale”, nel senso che le due forze non sono eticamente neutre o intercambiabili. Si può dire che Freud, in modo indiretto, abbandoni in tal modo  l’idea della neutralità del valore.
Ma c’è di più. Nell’Uomo Mosé e l’origine della religione monoteistica (1934-38)  all’origine dell’etica viene posta  la colpa per l’uccisione del padre. I fratelli dell’Orda primitiva (Totem e tabu, 1912-14)  che si sono  uniti  per uccidere il padre tiranno riconoscono la loro colpa,  con rimorso e nostalgia, ed  elevano il padre a guida spirituale o a divinità. Il racconto  avanzato  in Totem e tabù come mito fondativo dell’umanità civilizzata,  ritorna  nel grande testamento spirituale di Freud come fatto ricorrente di generazione in generazione. Dunque per Freud  l’assunzione della capacità di violenza e di distruttività individuale e di gruppo, fonda, attraverso l’assunzione della colpa, la possibilità di sviluppo etico. Quanto a Melanie Klein, il filosofo C. Fred Alford (Melanie Klein and critical social theory, Yale U.P., 1989)  insiste sul carattere pessimistico, addirittura “tragico” della teoria kleiniana della società, perché imperniata  sul carattere precario della riparatività a tutti i livelli (pp.10-11) La riparazione, sia sul piano conoscitivo, come tendenza alla simbolizzazione, sia su quello delle tendenze aggressive verso l’oggetto, si manifesta come capacità di responsabilità e di cura verso l’oggetto. Ma non è la descrizione meccanica di un processo, segnala Alford, piuttosto possiamo ritenere la riparazione   un fine in senso kantiano. In questo senso la riparazione diventa un percorso e un processo che tende all’infinito, e  l’acquisizione della posizione depressiva un valore e un fine.
Nel pensiero di Freud, e di Klein si può trovare il sottofondo per un’etica della riparazione. Tutto il tema della riparazione è pensabile come assunzione di una posizione depressiva e anche come assunzione di responsabilità.
Riparazione,  riconciliazione, inconciliabilità.
Ma come andare oltre la depressione vera e propria, quella condizione, segnalava Fornari,  in cui  si pensa che la distruttività umana  si spenga solo con la morte di tutte le parti in guerra, con la pace del cimitero, la pace in cui tutti sono morti, gli oppressi e gli oppressori? La riconciliazione è possibile? E’ possibile attraverso il riconoscimento della colpa, la scusa, il pentimento, l’espiazione?  Una prospettiva di riconciliazione dopo una guerra ha senso senza che   si  riconoscano le responsabilità e quindi vi sia assunzione di colpa? Certamente no. La riconciliazione pretesa, obbligata, è il massimo atto di arroganza possibile degli aggressori verso le vittime, gli offesi. E  considerare la riconciliazione un obbiettivo comune rischia di responsabilizzare ancora una volta gli oppressi e le vittime, e di decolpevolizzare  gli aggressori, i distruttori.
La riflessione etica e direi anche psicoanalitica sulla guerra  non può che oscillare costantemente tra la polarità di ritenere possibile la riconciliazione e quella  dell’irreconciliabilità. Derrida (Perdonare, Cortina, 2004)  lo riconosce, quando indica tutta la nobilità e la sofferenza insita nella posizione dell’irreconciliabile e dell’imperdonabile, quale quella mostrata da Jankélévitch che vede la storia come una ferita infinita, aperta, non suturabile.  Derrida esprime  un’etica che non compone e non concilia a forza ma è basata  sulla responsabilità di farsi carico dell’altro da sé, dell’altro più debole, con un’immagine potente che  descrive la relazione tra il soggetto e l’altro.
Si tratta di portare l’altro nel senso di introiettarlo, e tenerlo con sé come essere vivente, non come si porta un fardello materiale o un corpo morto. Derrida ha a lungo riflettuto nei suoi ultimi anni su un verso di Celan che parla dell’altro che si “deve portare” quando  il mondo è scomparso.

Die Welt ist fort, ich muss dich tragen  (Op cit., p.14)
“Ti porto dentro di me come si porta l’altro morto nel lutto”, dove  l’altro viene portato nel senso che viene introiettato. Derrida coglie la pregnanza che è l’esito di  questo movimento, come  una vera e propria “gravidanza” che apre  al futuro:
“Ti porto  dentro di me anche come un altro a venire, senza annullare la tua alterità, come si porta un bambino che deve ancora nascere”

martedì 1 settembre 2015

Editoriale di settembre 2015

Il crollo  del muro di Berlino ha portato con se la catena degli ideali che arginava la macchia capitalistica. Il Sistema, doveva creare il caos per rompere gli equilibri e farsi parte traente di una controriforma conservatrice che serviva ad eliminare tutti gli ostacoli ad un dominio delle Banche e delle Multinazionali. Questo trasformando i partiti popolari, dei lavoratori, in club delle lobby affaristiche. Niente ideali, tanti soldi e tanta speculazione per spazzare via l'ECONOMIA REALE. Il paradosso si è fatto talmente cancerogeno da arrivare con le sue metastasi fin dentro il cuore delle DEMOCRAZIE SOCIALDEMOCRATICHE EUROPEE. Restavano così in piedi solo i grossi agglomerati speculativi che divorano e distruggono il Mondo che dovremmo un giorno lasciare ai nostri figli. Hanno imposto la CULTURA DEBOLE e il PENSIERO DEBOLE, le crisi sono state spedite alle periferie del sistema dove diventano semplici baruffe e schermaglie settarie senza legami con il movimento generale per la DEMOCRAZIA, la LIBERTA' e L'AUITODETERMINAZIONE dei Popoli. I capi di Governo sono asserviti a questo SITEMA di sfruttamento della vita della gente, sempre a favore di BANCHE e POTENTATI. In questo momento, quindi, quello che deve essere messo in campo per contrastare questa deriva è un MOVIMENTO CHE SPAZZI VIA TUTTI I PARTITI MORTI DI CANCRO e ripristini la DEMOCRAZIA POPOLARE.
Ugo Arioti

  La solitudine di Israele e la sua maledizione (Ugo Arioti @2024 ) Gli ebrei furono scelti da Dio per essere "la proprietà...