La guerra e la pulsione di morte, principio
psicoanalitico e monito etico
Valeria
Egidi Morpurgo
Eros e pulsione di morte: un monito etico?
Gerda TaroChe cosa può dire la psicoanalisi di fronte a eventi
quali le guerre, i genocidi, le violenze collettive del secolo
Ventesimo: eventi eccedenti la pensabilità che appaiono
talmente traumatici da traumatizzare la capacità stessa di
pensiero? Credo che il richiamo di Freud nel Disagio della
civiltà alle “potenze celesti”, gli “immortali antagonisti”:
Eros e la pulsione di morte, sia ancora fecondo per il pensiero
psicoanalitico che si confronta con la distruttività umana e la
guerra. Il dualismo pulsionale proiettato su scala
sovraindividuale e metastorica introduce un orizzonte
inquietante. Non si tratta infatti della descrizione
naturalistica di forze di carattere biologico (come
adombrato da Freud in Al di là del principio del
piacere) ma di un orizzonte post-illuministico dove è perduta
la fiducia nell’idea del progresso dell’umanità.
Dove ogni acquisizione umana nel campo delle relazioni tra individui
e tra gruppi appare fragile e soggetta a revoca. Con quel
richiamo Freud segnalava la minaccia di una catastrofe per
l’umanità, di una rovina delle conquiste sociali ed etiche
faticosamente acquisite dalla civiltà. Un monito anche per
noi? Se consideriamo il dualismo pulsionale espresso nella
metafora delle “potenze celesti” come un richiamo di
carattere etico, come se si trattasse dell’embrione di quella che
sarà definita alcuni decenni dopo come “etica della riparazione”
potremo trovare una base per confrontarci con le tragedie
storiche collettive.
Frattura nella storia e postmodernità
René Diatkine in La nuit du chasseur
(relazione al CMP marzo 2009) riferendosi alla celebre definizione di
cultura della postmodernità (F.Lyotard, La condizione postmoderna,
Feltrinelli 1981) definisce Freud un pensatore della
modernità che, dopo la Grande Guerra, diventa un
pensatore della post-modernità in quanto ha perduto la fiducia
nel progresso civile dell’umanità, pur restando in bilico tra le
due posizioni. Anche noi oscilliamo tra questi due
aspetti. Infatti siamo non solo inorriditi ma anche
stupiti nell’apprendere di qualche nuova “barbarie” dei
nostri giorni. Questo non accadrà perché continuiamo ad
attenderci che lo sviluppo etico segua secondo un percorso in
crescendo, non revocabile, alla stessa maniera di come ci
raffiguriamo lo sviluppo scientifico e tecnico?
Se il pensiero postmoderno, non tanto in Lyotard
quanto in certi epigoni tardi di Nietzsche, sembra comportare
la neutralità del valore, con il rischio di svalutare ogni presa di
posizione etica, il ricorso ai grandi maestri della psicoanalisi, in
particolare a Freud e alla Klein, mostra come
l’interpretazione-spiegazione psicoanalitica dei fenomeni,
non escluda un’etica dei valori. (cfr V.Egidi
Morpurgo, Etica e psicoanalisi: l’utile del più debole, in Realtà
psichica e regole sociali, 2012, pp.104-5). Nel pensiero
postmoderno è sospesa e nullificata l’idea stessa di progresso
storico ed è coerente con questa ottica segnalare soprattutto gli
arresti e le fratture nel cosiddetto sviluppo storico. La
frattura per antonomasia è stata identificata dai più negli
eventi del Ventesimo secolo che hanno minacciato la stessa specie
umana: Auschwitz, luogo culmine della Shoah, e volto della crudeltà
e distruttività collettiva contro gli inermi e Hiroshima,
simbolo dei “disastri della guerra”.
Molti autori hanno riflettuto sulla Shoah.
Moses Kijak esemplarmente segnala come la realizzazione di una
così totale capacità distruttiva quale si è manifestata nello
sterminio degli Ebrei “svelasse un aspetto dell’essere
umano che mutò completamente l’immagine etica che l’umanità ha
di se stessa” (Moses Kijak, 2005, in Egidi
Morpurgo, cit) segnando un punto di svolta che richiede nuovi
parametri e nuovi concetti etici. Molti anni prima, Franco
Fornari scriveva il suo Psicoanalisi della situazione atomica
(Rizzoli, 1970), in cui (in sintonia con il gruppo internazionale
degli psicoanalisti contro la guerra nucleare) indicava nella
minaccia di guerra nucleare globale una prospettiva pantoclastica
che richiedeva una nuova riflessione etica e politica.
La guerra come elaborazione paranoica del
lutto: Franco Fornari
La riflessione di Fornari sulla guerra ruota attorno
a una tesi centrale: la guerra è un’elaborazione
paranoica del lutto fatta dal gruppo. Riprendendo Freud e Klein,
Fornari sottolineava la difficoltà per ogni essere umano di
fronteggiare le angosce depressive in quanto gli esseri umani
negano il proprio istinto di morte e il sadismo primario tramite una
deflessione all’esterno della pulsione di morte. E lo stesso
avviene con il gruppo che trova un nemico esterno o interno per
esportare le sue angosce paranoidee e depressive. Si può così
ritenere la guerra espressione dell’odio dei padri verso i
figli, una forma di figlicidio, secondo l’idea di
Rascovsky, o come infanticidio differito che era la
tesi del sociologo Gaston Bouthoul (Op cit, p. 40). O come
fratricidio se teniamo conto del pensiero di chi, come Kaes, ha
articolato i conflitti dell’Edipo “verticale” (tra genitori e
figli) con quello fraterno, cioè “orizzontale”. Questi sono i
lutti negati ed esportati. Una domanda sorge immediatamente,
quando si parla di guerra: si possono considerare allo stesso modo le
guerre offensive da quelle di difesa? Non ripugna all’etica
avvicinare aggressori e aggrediti?
Fornari distingueva tra guerra e guerra e
descriveva la diversa dinamica di rifiuto ed esportazione della colpa
o di decolpevolizzazione della violenza vigente tra gli
aggressori e gli aggrediti. Ma segnalava comunque il
fondamento comune. In altri termini il rifiuto individuale e di
gruppo del lutto e della colpa porta alla rinuncia dell’etica
e lascia al gruppo organizzato, o allo stato, il monopolio
della violenza. Se d’altra parte la guerra serve ad un gruppo
(grande o piccolo) ad attenuare le angosce persecutorie
spostando all’esterno la distruttività, insieme consente la
conservazione dell’oggetto d’amore “percepito come
minacciato dai nemici” attraverso il sacrificio di una parte
del gruppo a questo deputata, quali sono gli eroi, o i soldati.
(p. 72) La guerra si nutre dunque anche della capacità
di soffrire per amore. Vi è dunque anche un’angoscia depressiva
in guerra, che viene elusa, negata, deflessa o agita. Ma non vi è
riparazione, perché questa implicherebbe il riconoscimento della
distruttività, sia individuale, sia di gruppo. E quindi la fine
della guerra. Anche qui si vede la differenza tra negare o accettare
la distruttività. La illumina una distinzione proposta da Luis
Grinberg che nello stesso periodo, alla fine degli anni
Sessanta, in cui Fornari riflette sulla guerra, descrive il
duplice carattere della colpa e del lutto, distinguendo la
colpa persecutoria dalla colpa depressiva. La prima si mescola alle
angosce schizoparanoidee, e produce il sentimento di un danno
occorso all’Io o all’oggetto e provoca paura e
dolore. La colpa depressiva invece, che è al servizio delle
pulsioni di vita, implica la capacità di avvertire la propria
responsabilità nei rapporti con gli altri, di riconoscere la propria
aggressività e di volerla riparare. Rappresenta perciò
“l’espressione di un’evoluzione sana dell’Io” (Grinberg,
Colpa e depressione, Loescher, 1971, p.115)
Fornari aveva chiarito la portata dell’assunzione
di colpa sul piano etico dichiarandosi contrario all’idea
secondo la quale chi parla di responsabilità e tendenze
riparative maschererebbe sentimenti di colpa non risolti: “un
discorso del genere (…) tende semplicemente a negare l’originaria
necessità di colpa (…) può essere considerato come difesa
maniacale ed esprime di fatto una posizione cinica” (p.190). Per
fare un esempio di colpa depressiva e responsabilità si può
considerare il caso di Socrate quale compare nel Gorgia di Platone.
Tra Socrate che accetta di soffrire per il suo
oggetto d’amore, perché accetta di morire per rispetto delle leggi
della polis, e i kamikaze giapponesi che si lanciavano in missioni
suicide per salvare l’onore dell’Imperatore, c’è una
differenza, dice Fornari: mentre il kamikaze rimane nell’area della
negazione e della paranoia, Socrate incarna l’ideale etico della
posizione depressiva.
L’etica dei moventi e l’etica dei fini
Il fondamento etico continua dunque a riaffacciarsi
prepotentemente. Non si riesce a pensare e a giudicare l’impensabile
come la guerra, le guerre, la distruttività senza muovere da un
principio etico, o meglio senza muovere da un sentire
etico. Formulazioni etiche vere e proprie si trovano
in Freud, e in Melanie Klein a partire dalla distinzione
classica tra l’etica dei motivi o dei moventi e l’etica
dei fini, di derivazione classica, che ha trovato la sua massima
espressione nella teoria kantiana. Con la prima
teoria delle pulsioni Freud sembra riferirsi a
un’etica dei moventi, vale a dire a un’etica di tipo edonistico
vicina all’utilitarismo di Bentham (cfr Philip Rieff,
Freud moralista, Il Mulino, 1968, pp.474-75) per cui il bene è
rappresentato dalla ricerca del piacere. Ma con l’istituzione
della pulsione di morte la posizione di Freud non può
più dirsi edonistica, o solo edonistica. Infatti Freud
pone un riferimento esterno alla descrizione del comportamento umano
e del rapporto conscio-inconscio. Lo fa in tre modi: con il
richiamo all’Ananche, con il pessimismo sulla civiltà
e con la teoria della pulsione di morte. Con quest’ultima
contraddice l’ utilitarismo e apre la strada ad un recupero
del concetto di valore. La descrizione delle due potenze celesti,
Eros che conduce all’unione, mentre la pulsione di morte porta alla
distruzione e allo stato inorganico, non è “neutrale”, nel senso
che le due forze non sono eticamente neutre o intercambiabili. Si può
dire che Freud, in modo indiretto, abbandoni in tal modo l’idea
della neutralità del valore.
Ma c’è di più. Nell’Uomo Mosé e l’origine
della religione monoteistica (1934-38) all’origine dell’etica
viene posta la colpa per l’uccisione del padre. I fratelli
dell’Orda primitiva (Totem e tabu, 1912-14) che si sono
uniti per uccidere il padre tiranno riconoscono la loro colpa,
con rimorso e nostalgia, ed elevano il padre a guida spirituale
o a divinità. Il racconto avanzato in Totem e tabù come
mito fondativo dell’umanità civilizzata, ritorna nel
grande testamento spirituale di Freud come fatto ricorrente di
generazione in generazione. Dunque per Freud l’assunzione
della capacità di violenza e di distruttività individuale e di
gruppo, fonda, attraverso l’assunzione della colpa, la possibilità
di sviluppo etico. Quanto a Melanie Klein, il filosofo C. Fred
Alford (Melanie Klein and critical social theory, Yale U.P., 1989)
insiste sul carattere pessimistico, addirittura “tragico” della
teoria kleiniana della società, perché imperniata sul
carattere precario della riparatività a tutti i livelli (pp.10-11)
La riparazione, sia sul piano conoscitivo, come tendenza alla
simbolizzazione, sia su quello delle tendenze aggressive verso
l’oggetto, si manifesta come capacità di responsabilità e di cura
verso l’oggetto. Ma non è la descrizione meccanica di un processo,
segnala Alford, piuttosto possiamo ritenere la riparazione
un fine in senso kantiano. In questo senso la riparazione diventa un
percorso e un processo che tende all’infinito, e
l’acquisizione della posizione depressiva un valore e un fine.
Nel pensiero di Freud, e di Klein si può trovare il
sottofondo per un’etica della riparazione. Tutto il tema della
riparazione è pensabile come assunzione di una posizione depressiva
e anche come assunzione di responsabilità.
Riparazione, riconciliazione,
inconciliabilità.
Ma come andare oltre la depressione vera e propria,
quella condizione, segnalava Fornari, in cui si pensa che
la distruttività umana si spenga solo con la morte di tutte le
parti in guerra, con la pace del cimitero, la pace in cui tutti sono
morti, gli oppressi e gli oppressori? La riconciliazione è
possibile? E’ possibile attraverso il riconoscimento della colpa,
la scusa, il pentimento, l’espiazione? Una prospettiva di
riconciliazione dopo una guerra ha senso senza che si
riconoscano le responsabilità e quindi vi sia assunzione di colpa?
Certamente no. La riconciliazione pretesa, obbligata, è il massimo
atto di arroganza possibile degli aggressori verso le vittime, gli
offesi. E considerare la riconciliazione un obbiettivo comune
rischia di responsabilizzare ancora una volta gli oppressi e le
vittime, e di decolpevolizzare gli aggressori, i distruttori.
La riflessione etica e direi anche psicoanalitica
sulla guerra non può che oscillare costantemente tra la
polarità di ritenere possibile la riconciliazione e quella
dell’irreconciliabilità. Derrida (Perdonare, Cortina, 2004)
lo riconosce, quando indica tutta la nobilità e la sofferenza insita
nella posizione dell’irreconciliabile e dell’imperdonabile, quale
quella mostrata da Jankélévitch che vede la storia come una ferita
infinita, aperta, non suturabile. Derrida esprime
un’etica che non compone e non concilia a forza ma è basata
sulla responsabilità di farsi carico dell’altro da sé, dell’altro
più debole, con un’immagine potente che descrive la
relazione tra il soggetto e l’altro.
Si tratta di portare l’altro nel senso di
introiettarlo, e tenerlo con sé come essere vivente, non come si
porta un fardello materiale o un corpo morto. Derrida ha a lungo
riflettuto nei suoi ultimi anni su un verso di Celan che parla
dell’altro che si “deve portare” quando il mondo è
scomparso.
Die Welt ist fort, ich muss dich tragen
(Op cit., p.14)
“Ti porto dentro di me come si porta l’altro
morto nel lutto”, dove l’altro viene portato nel senso che
viene introiettato. Derrida coglie la pregnanza che è l’esito di
questo movimento, come una vera e propria “gravidanza” che
apre al futuro:
“Ti porto dentro di me anche come un altro a
venire, senza annullare la tua alterità, come si porta un bambino
che deve ancora nascere”