Accadde una mattina
Accadde una mattina. Gino
Cannato, detto “Minimo”, era libero da impegni di lavoro e aveva in testa di
andare a contare i diavoli della Zisa! Si intruppò su un autobus che lo
trasportava verso Piazza Principe di Camporeale e scese alla fermata più vicina
alla nuova villa. L'Amministrazione comunale l'aveva voluto costruire
proprio davanti al “Sollazzo normanno” per evocare le antiche e preziose
impronte del parco che, un tempo, circondava il castello.
Camminava e rideva Ginuzzu!
La sua mente incespicava su ogni
cosa di vivo o di morto che catturava la sua attenzione. Il topo di fogna
agonizzante sotto il marciapiede, la gente che entrava in un negozio, quelli
che correvano per recuperare il tempo della gioventù, quelli che lo facevano
per mantenere un buon rapporto con il loro corpo, devastato da inedia e
mangiate da sballo, le signore che tenevano per mano i bambini, incarcerandoli
con il loro amore, le due giovani ragazze, una bionda e una bruna, che con una
tuta aderentissima e fascia reggi-capelli correvano per i viali della villa
lungo percorsi d'acqua che sembravano scheletri di cemento dopo lo scirocco che
aveva essiccato tutte le fonti di approvvigionamento di H2O.
Camminava e rideva Ginuzzu!
L'ombra sul suo cammino era
fresca. Sembrava gorgogliare, mossa da un gentil venticello, come provenisse
dal cuore della terra e nel suo cuore si diramasse verso orizzonti nuovi,
ancora senza segnali distintivi. Lento, passo pigro e strusciante, accompagnava
il movimento dei piedi con un oscillazione della testa e con il pendolo delle
braccia. No, non era ubriaco. Luigino Cannata, chiamato dai ragazzacci del
quartiere “Gino Minimo”, a quel tempo aveva i suoi quarantatré anni e mezzo,
stampati sulla fronte col marchio di “solitario”. Non frequentava nessuno, non
parlava con nessuno e se gli rivolgevano la parola, lui si metteva a ridere e
poi se ne andava. Per molti, infatti, era matto, per altri sordo muto, per
altri, ancora, scemo. Ma era sempre lui, un uomo cresciuto troppo poco dal
punto di vista della vita che scorre e moltissimo in rapporto ai programmi
dell'architetto dell'Universo. Doveva andare così. Il suo mestiere, manco a
dirlo, era quello di puliziere al cimitero comunale. Scopava i viali del
tramonto che accompagnano i viaggiatori stanchi al molo di Caronte! Badate
bene, un uomo tutto d'un pezzo, dalla testa ai piedi, capelli nero corvino a
spazzola, sopracciglio folto e unico sopra due buchi d'occhi più neri della
pece; sempre in abito nero gessato (modello Borsalino) e scarpe di vitellina
nere lucide come canne di fucile uscite dalla fabbrica! Ora, mi sembra normale,
che chi lo incontra metta le mani nel posto dove in genere si mettono per far
uscire dalla patta dei pantaloni … diciamo che se la tira!
È evidente che un siffatto
individuo non può passare inosservato. I ragazzacci, che giocavano tirandosi
pietre da una parte all'altra delle vasche piene di bottiglie di plastica e
scatole di cartone di ogni genere e qualità, lo avevano già segnalato ai loro
amici e ogni tanto qualcuno lo avvicinava gridandogli in faccia: “Minimo
picchi un tu iouchi e dadi ca ci fai chu fiura”? Parlavano del suo arnese
sessuale e ne scimmiottavano le dimensioni, poi, nondimeno degli sberleffi e
degli scherzi se ne tornavano ai loro giochi da bambini tranquilli (lancio di
pietre e oggetti vari a squadre contrapposte), restavano sconfitti dal suo
sorriso e dalla sua indifferenza. Come se non li sentisse. Lui continuava il
suo tour!
Camminava e rideva Ginuzzu!
Le fabbriche del Signore sono
piene di giocattoli guasti, eppure, anche questi sono utili al grande disegno!
Ma chi l'ha detta sta “fissaria”,
pensava Gino Cannata, mentre, intorno a lui, si era fatto un silenzio disumano.
I palazzi nuovi erano scoloriti, le vasche della villa cominciarono, al
contrario, (va sempre così in questa città in contro-tempo) a godere
dell'abbraccio fruttato e frizzante del ruscello che partiva dalla vasca numero
1, il castello sullo sfondo era diventato di un senape scuro ossessivo e dai
torrini uscivano piccole nuvole di grigio vestite, i lampioni sui vialetti
erano neri, i fiori, le palme e le erbacce erano ferme come soldati che
aspettano l'ordine per l'assalto, il topo, mezzo morto, si era appena appena
rizzato sulle quattro zampine ed era tornato per lo scarico di una vecchia
caditoia guasta nel suo regno di fognature e vecchi merletti di immondizia. Ma,
la cosa più seccante era che il tempo si era interrotto. Zac, pausa! Una
persona una che passasse correndo o saltellando o camminando o volando non
c'era. Ma a Gino?
Camminava e rideva Ginuzzu!
E dove erano andati a finire i
ragazzacci e le comari con i figli al seguito? Possibile che tutti erano
scomparsi. Allora sono morto, pensò Gino. È più facile che la morte si
rappresenti al singolare che al plurale! Pensieri da filosofia casereccia,
genuina e imperfetta, forse, ma sempre filosofia!
Ora, mentre continuava il suo
corso il nostro puliziere cimiteriale, sentì due cose che si prendevano a pugni
tra loro. La prima era come un brutto suono, un colpo di bastone e l'altro un
fruscio di vento come di gente che scappa, ma tutto troppo in fretta per Gino.
Non capiva, ma sorrideva.
Sorrise ancora una volta e poi
inciampò....
(segue)
mi piace, intrigante. Ma ha un seguito?
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