Pablo Neruda (poeta del mese)
Qui ti
amo...
Qui ti amo.
Negli oscuri pini si districa il vento.
Brilla la luna sulle acque erranti.
Trascorrono giorni uguali che s'inseguono.
La nebbia si scioglie in figure danzanti.
Un gabbiano d'argento si stacca dal tramonto.
A volte una vela. Alte, alte, stelle.
O la croce nera di una nave.
Solo.
A volte albeggio, ed è umida persino la mia anima.
Suona, risuona il mare lontano.
Questo è un porto.
Qui ti amo.
Qui ti amo e invano l'orizzonte ti nasconde.
Ti sto amando anche tra queste fredde cose.
A volte i miei baci vanno su quelle navi gravi,
che corrono per il mare verso dove non giungono.
Mi vedo già dimenticato come queste vecchie àncore.
I moli sono più tristi quando attracca la sera.
La mia vita s'affatica invano affamata.
Amo ciò che non ho. Tu sei così distante.
La mia noia combatte coni lenti crepuscoli.
Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.
La luna fa girare la sua pellicola di sogno.
Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.
E poiché io ti amo, i pini nel vento
vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di filo metallico.
La scuola di ecologia Culturale è un luogo di scambio di esperienze e di costruzione di tecniche democratiche e pacifiche per lo sviluppo sostenibile delle società umane e si muove per realizzare iniziative (prevalentemente in partnership) per l’educazione dei giovani (la scuola del territorio e uno dei partner naturali della scuola) e lo sviluppo di un capitale umano di eccellenza che dovrà essere protagonista dello sviluppo culturale ed economico delle società e dei popoli Euro Mediterranei.
giovedì 29 giugno 2017
martedì 27 giugno 2017
Mosul, ultimo atto
Lo strazio delle donne
soccorse dai soldati di Bagdad, la fuga disperata degli anziani
dall’oppressione dello Stato islamico, lo sgomento dei bambini davanti
alle bombe. E sullo sfondo i colori. Pochi, ma forti: il grigio degli
scheletri della case, il verde oliva delle mimetiche dei militari, il
buio dei vicoli in quella che una volta era la seconda città irachena e
che, caduta nelle mani del Califfato, si ritrova ora ridotta a labirinto
di macerie. Tutto questo (e altro) nel racconto di un coraggioso
fotografo italiano
di Giampaolo Cadalanu e Emanuele Satolli*, Fotografie di Emanuele Satolli, illustrazioni di Marta Signori
La tragedia di Mosul si sta compiendo: la
distruzione della moschea di Al Nuri è il punto di non ritorno nella
sciagurata storia dello Stato islamico. Gli ultimi dispacci d’agenzia
dicono che l’epilogo sarà quello previsto, con combattimenti selvaggi,
con massacro di civili, con fanatici votati al martirio. Queste ore
saranno le più difficili per i centomila civili ancora intrappolati
nelle zone controllate dall’Isis. Ma la fine del radicamento
territoriale dell’organizzazione è cominciata. La prossima tappa sarà
Raqqa, all’interno dei confini siriani, ma dopo la caduta del minareto
pendente sotto il quale Al Baghdadi aveva proclamato il Califfato, il
cammino della sua organizzazione è segnato. Sarà un cammino se possibile
più sanguinoso, con il ritorno alla vocazione terroristica e
l’abbandono – almeno per ora – delle velleità “statuali” a cui pochi
avevano creduto fino in fondo.
Lo dicono le scelte compiute dall’Isis nei
tre anni scarsi di controllo della capitale di Ninive. Secondo le
testimonianze che abbiamo raccolto, i lavori pubblici erano solo opere
di difesa: sbarramenti, tunnel, ponti interrotti, con l’unica eccezione
dell’impegno a rinnovare i locali del suq e l’arrivo di brutti
lampioncini leziosi sul viale di ingresso alla città. Non volevano un
futuro a Mosul, nessuno di loro: i foreign fighters che in queste ore
stanno sparando gli ultimi colpi, con in mente solo il miraggio del
paradiso islamico, o i fondamentalisti locali, capaci di rivolgere le
armi contro i compatrioti piuttosto che lasciarli andar via. Altro che
progettazione dello stato, altro che educazione dei cittadini, altro che
rimpianto della purezza di un Medioevo inventato: servivano
prigionieri, ostaggi, scudi umani. I sopravvissuti, quelli che da Mosul
sono fuggiti in tempo, torneranno a pianificare attentati, pronti a
usare ogni strumento per spargere il terrore anche in Occidente. Ma il
calvario della città irachena resterà nella Storia come monito, accanto
ad altri nomi evocativi di tragedie: Dresda, Coventry, Vukovar,
Sarajevo, e così via.
A sostenere la memoria saranno preziose le immagini come quelle di Emanuele Satolli che vedete in queste pagine. La sublimazione del dolore, raccontato con asciuttezza e partecipazione, anche a costo di rischi personali gravissimi. Non c’è solo Mosul in queste foto, c’è la sofferenza degli esseri umani di ogni tempo, destinata a restare nei nostri ricordi perché possiamo sperare che non ritorni mai.
A sostenere la memoria saranno preziose le immagini come quelle di Emanuele Satolli che vedete in queste pagine. La sublimazione del dolore, raccontato con asciuttezza e partecipazione, anche a costo di rischi personali gravissimi. Non c’è solo Mosul in queste foto, c’è la sofferenza degli esseri umani di ogni tempo, destinata a restare nei nostri ricordi perché possiamo sperare che non ritorni mai.
Nella mia ultima trasferta a Mosul sono
stato “embedded” con i soldati iracheni. E ho visto combattere casa per
casa. I militari avanzano lentamente, in squadre da 12-15 persone,
entrano nei cortili, affrontano un isolato alla volta. Ma le case sono
collegate l’una all’altra. E i miliziani dell’Isis hanno aperto dei
buchi nelle pareti per poter passare da una abitazione all’altra senza
essere visti. E, naturalmente, non si può sapere che cosa c’è oltre il
muro. Ho visto militari sparare contro una porta, prima di passare,
senza sapere chi ci fosse al di là. Ci siamo trovati a pochi metri dai
jihadisti, separati solo da una parete. Un’altra volta dal buco di un
muro è sbucata una famiglia intera che cercava di allontanarsi dagli
uomini dell’Isis. Ci hanno raccontato che il giorno prima un gruppo di
civili aveva provato a fuggire e i miliziani avevano aperto il fuoco,
uccidendo quattro persone.
Negli ultimi giorni a Mosul, per fare
fotografie dovevo avvicinarmi molto all’azione, e anche i soldati si
muovevano a distanze più ravvicinate. Si correvano rischi soprattutto
per vedere il minareto pendente, io l’ho ripreso qualche volta da
lontano, ma adesso hanno fatto saltare in aria l’intera moschea di Al
Nuri. Il minareto è distrutto. C’era un caldo feroce, una luce
fortissima che rendeva complicate le riprese, ma soprattutto sono
cambiate le condizioni dello scontro. Credo che anche questo sia fra le
ragioni della morte del reporter francese Stephan Villeneuve e del suo
fixer curdo Bakhtiyar Haddad, nei giorni scorsi. Sono finiti su una
mina, anche altri due giornalisti sono rimasti feriti. Credo che sia
successo perché ci si muove in spazi molto ristretti. Pensare che pochi
giorni prima eravamo andati avanti assieme, proprio con questi francesi,
nel quartiere di Zanjili, che ancora non è del tutto liberato.
(PER VEDERE E LEGGERE IL SERVIZIO INTERO SI RIMANDA ALLE PAGINE DI REPUBBLICA)
sabato 24 giugno 2017
E' morto il giurista Stefano Rodotà
E' morto il giurista Stefano Rodotà, una vita nelle battaglie per i diritti
di CONCETTO VECCHIO
Era nato a Cosenza il 30 maggio del 1933, negli anni del fascismo. Il padre, insegnante di matematica di origine albanese poi iscritto al Partito d'azione insegnava alle medie, dava ripetizioni a Giacomo Mancini, il futuro leader socialista; uno zio divenne segretario locale della Dc. La politica, insieme allo studio, è sin da subito una passione divorante. Nel 1953 approda a Roma per laurearsi in legge. Dice no a un'offerta di Adriano Olivetti, che lo vorrebbe con sé ad Ivrea, e che gli accrediterà comunque, come sostegno per i suoi studi, 300 mila lire sul conto corrente. Prima dei quarant'anni è già ordinario, insegna diritto civile alla Sapienza, ma l'impegno accademico è sempre intrecciato con quello politico; milita nei Radicali, scrive sul "Mondo" di Pannunzio - a 22 anni il primo articolo finisce in prima pagina - dopo che da ragazzo aspettava ogni settimana impaziente l'uscita del numero in edicola. E' Elena Croce, la figlia di Benedetto, nel cui salotto conosce Klaus Mann e Adorno, a introdurlo. "Non c'è un giorno nel quale non abbia preso un libro in mano", dirà. E' tra i primi professori a scrivere regolarmente sui giornali, sin dai primi anni Settanta, quando le tribune dei giornali erano scansate dagli accademici. Con la nascita di Repubblica inizia un'importante collaborazione con il nostro giornale.
ROMA - "C'è un impoverimento culturale che si fa sentire, la cattiva politica è figlia della cattiva cultura", così Stefano Rodotà, morto oggi all'età di 84 anni, ammoniva già nel 2000. Una frase che sintetizza l'impegno di una vita di un protagonista della nostra vita pubblica che con passione inesausta ha sempre cercato di far valere un punto di vista laico nei grandi temi del nostro Paese. Difficile inquadrarlo con un'etichetta - giurista, politico, riserva della Repubblica - ma anche complicato incasellarlo dentro uno schieramento: è stato radicale, poi indipendente di sinistra, infine movimentista senza casacca. Comunque sempre a sinistra. E' stato un intellettuale di valore, uno degli ultimi in questo Paese sempre più avaro di idee. Soprattutto, fino alla fine, è stato un uomo libero.
Era nato a Cosenza il 30 maggio del 1933, negli anni del fascismo. Il padre, insegnante di matematica di origine albanese poi iscritto al Partito d'azione insegnava alle medie, dava ripetizioni a Giacomo Mancini, il futuro leader socialista; uno zio divenne segretario locale della Dc. La politica, insieme allo studio, è sin da subito una passione divorante. Nel 1953 approda a Roma per laurearsi in legge. Dice no a un'offerta di Adriano Olivetti, che lo vorrebbe con sé ad Ivrea, e che gli accrediterà comunque, come sostegno per i suoi studi, 300 mila lire sul conto corrente. Prima dei quarant'anni è già ordinario, insegna diritto civile alla Sapienza, ma l'impegno accademico è sempre intrecciato con quello politico; milita nei Radicali, scrive sul "Mondo" di Pannunzio - a 22 anni il primo articolo finisce in prima pagina - dopo che da ragazzo aspettava ogni settimana impaziente l'uscita del numero in edicola. E' Elena Croce, la figlia di Benedetto, nel cui salotto conosce Klaus Mann e Adorno, a introdurlo. "Non c'è un giorno nel quale non abbia preso un libro in mano", dirà. E' tra i primi professori a scrivere regolarmente sui giornali, sin dai primi anni Settanta, quando le tribune dei giornali erano scansate dagli accademici. Con la nascita di Repubblica inizia un'importante collaborazione con il nostro giornale.
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Nel '79 entra in Parlamento, ma a sorpresa rifiuta l'offerta dei radicali ("l'unico partito al quale sono mai stato iscritto"), e si candida come indipendente di sinistra nelle liste del Pci. A Pannella, che quell'anno aveva convinto Sciascia a candidarsi, preferisce Berlinguer. Sono anni difficili, il terrorismo mette a dura prova la tenuta delle istituzioni. Quando il Pci voterà a favore delle leggi emergenziali di Cossiga, Rodotà si smarcherà. Vi rimarrà fino al 1993 quando si dimetterà, a sorpresa, dopo essere stato eletto vicepresidente della Camera. Scrive: "La mia non è una ritirata, né un rifiuto sull'aria "ingrata politica non avrai le mie ossa". I tempi sono così pieni di politica che nessuno può tirarsene fuori con un gesto o una parola". La Seconda Repubblica lo vede quindi fuori dal Palazzo, e con più forza, con meno vincoli. Nel 1997, durante il primo governo Prodi, diventa Garante della Privacy, "il signor Riservatezza", ruolo che regge con equilibrio fino al 2005, in un momento storico in cui, grazie all'esplosione della rete, ogni certezza sui dati personali sembra saltata. Riceve 80 ricorsi al giorno. Interviene, guida, spiega con mano ferma temi che aveva iniziato a studiare sin dai primi anni Settanta.
I temi di una vita sono i diritti, quelli individuali e sociali, perché "è da quelli che si misura la qualità di una società". E poi la laicità dello Stato, i valori della Costituzione, da far conoscere e da preservare, il rapporto tra Stato e Chiesa, quello tra democrazia e religione, la bioetica, la libertà di stampa. Su questi argomenti scrive incessantemente, per anni, con prosa scabra, puntuale, "perché il linguaggio è sempre rivelatore". Pungola la sinistra ogni volta che può, "sui diritti è debole, quasi che la chiesa cattolica abbia il monopolio delle questioni etiche". Il Paese oscilla tra grandi slanci riformatori e repentini ripiegamenti, Rodotà si ritrova spesso in minoranza. "Viviamo in uno stato di diritto, ma nessuno ci crede", commenterà un giorno, amaro.
Con la sinistra dei partiti il suo rapporto è complesso. Nell'89, dopo la Svolta di Occhetto, aderisce al Pds. Ne diventa presidente, ma senza sentirsi mai pienamente a casa. E' un irregolare. Sono gli anni di Tangentopoli, la sinistra sconta le sue debolezze, avanza il berlusconismo, il paesaggio del Novecento, con le sue certezze, frana di colpo. Il conflitto d'interessi di Berlusconi diventa così il nuovo campo di battaglia dove misurare la forza della democrazia repubblicana. Rodotà è in prima fila. Ne denuncia le storture su questo giornale, ripetutamente. "Siamo alla rottura dei fondamenti di un moderno Stato democratico", dirà dopo che Berlusconi avrà incassato la sua prima fiducia, nell'aprile del 1994, intervistato da Rina Gagliardi.
Rodotà in qualche modo è sempre stato moderno. A 80 anni si scopre star del web. Parla ai giovani. Nel 2013 i Cinquestelle lo candidano alla successione di Napolitano. Il tifo per lui "Ro-do-tà -Ro-do-tà", risuona a Montecitorio, lo votano anche Sel e alcuni del Pd; poi Grillo, con un atto volgare dei suoi, lo definirà "un ottuagenario miracolato della rete". Viene rieletto Napolitano. Sposato da più di mezzo secolo con Carla, collaboratrice di Repubblica, due figli, Carlo e Maria Laura, una delle firme del giornalismo italiano, ha quindi attraversato questo nostro tempo con una profonda curiosità e spirito civile. "Il mio narcisismo l'ho consumato in tutte le cose che ho fatto. Ora mi sento pacificato", disse tempo fa ad Antonio Gnoli. La sua voce, mai accomodante, mancherà.
La camera ardente per Stefano Rodotà verrà allestita a Montecitorio e sarà aperta al pubblico domani dalle 16 alle 20 e domenica dalle 10 alle 19.
venerdì 23 giugno 2017
giovedì 22 giugno 2017
Metastasi mafiose nel corpo dello Stato
'Ndrangheta: Dna, presente in tutti settori nevralgici della politica, dell'amministrazione pubblica e dell'economia
"Mafie come autorià in grado
di indirizzare gli investimenti pubblici". È quanto si legge nella
Relazione annuale 2016 della Direzione distrettuale Antimafia e
Antiterrorismo, presentata oggi dal procuratore nazionale Franco Roberti
e dalla presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi
di ALESSIA CANDITONonostante arresti e condanne, le mafie (purtroppo) stanno benissimo. La 'ndrangheta soprattutto. È questo il quadro - amaro - tracciato dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) presentata oggi al Senato dal Procuratore nazionale Franco Roberti e dalla presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi nella relazione con cui annualmente fa il punto sulle attività svolte dalle diverse Dda durante l'anno. Il 2016 - emerge dal documento - è stato un anno di successi, investigativi e processuali, ma le mafie storiche non sono in crisi. Al massimo, stanno cambiando pelle e strategia per meglio adattarsi ai vuoti provocati da arresti e condanne e alle modificazioni del mercato. Fatta eccezione per Napoli città, dove il periodo di fibrillazione dovuto ad arresti e condanne di capi storici ha dato la stura a un aumento della violenza sanguinaria dei clan, oggi guidati da giovanissimi e incontrollabili leader, le mafie sembrano aver optato per una strategia di controllo del territorio diversa ma altrettanto efficace.
MAFIE COME AUTORITA' PUBBLICHE
Le mafie stesse rischiano di diventare 'autorità pubblica' in grado di governare processi e sorti dell'economia. "L'uso stabile e continuo del metodo corruttivo-collusivo da parte delle associazioni mafiose determina di fatto l'acquisizione (ma forse sarebbe meglio dire, l'acquisto) in capo alle mafie stesse, dei poteri dell'autorità pubblica che governa il settore amministrativo ed economico che viene infiltrato", si legge nella relazione.
"Acquistato, dal sodalizio mafioso, con il metodo corruttivo collusivo, il potere pubblico - si legge nel testo - che viene in rilievo e sovraintende al settore economico di cui si è intenso acquisire il controllo, questo viene, poi, illegalmente, meglio, criminalmente, utilizzato al fine esclusivo di avvantaggiare alcuni (le imprese mafiose e quelle a loro consociate) e danneggiare gli altri (le imprese e i soggetti non allineati)".
MAFIE IN GRADO DI INDIRIZZARE INVESTIMENTI PUBBLICI
"Assai spesso, è la stessa organizzazione mafiosa che, avendo acquisito le necessarie capacità tecniche e le indispensabili relazioni politiche, individua essa stessa il settore nel quale vi è possibilità di ottenere finanziamenti e, quindi, conseguenzialmente, indirizza ed impegna la spesa pubblica. Si tratta del vulnus più grave alla stessa idea, allo stesso concetto di autonomia locale". E' questa la novità introdotta dalla criminalità che vuole aggiudicarsi gare e appalti pubblici, utilizzando la corruzione. Non più soltanto tangenti per entrare nella partita, ma intervento diretto nella elaborazione della stessa attività di ideazione, gestione e realizzazione dei bandi di gara.
"Individuati i fondi necessari, pagato o promesso il corrispettivo al politico che ha dato il via libera e attribuito il finanziamento all'ente locale, chiude il primo passaggio, il primo step, e l'opera può essere messa a gara", scrive Roberti, sottolineando come "l'impresa del cartello o un professionista incaricato, redige integralmente il bando di gara e lo consegna agli uffici amministrativi pubblici spesso neppure attrezzati tecnicamente a redigerlo".
"Bandita la gara, si innesta l'attività corruttiva-collusiva tesa a fare coincidere il nome del vincitore con quello della ditta del cartello che aveva prima fatto finanziare l'opera e, poi, aveva impostato il bando di gara (al fine di aggiudicarsela)", conclude la Direzione nazionale antimafia.
NIENTE (O POCO) SANGUE, MEGLIO LA CORRUZIONE
Il metodo "collusivo-corruttivo" ha progressivamente sostituito omicidi, azioni di fuoco e violenza, sempre più relegate al rango di estrema ratio, ma tanto presenti nella memoria collettiva da avere tuttora valenza intimidatoria. Traduzione, ai clan non serve sparare, anzi non lo ritengono conveniente perché attira attenzione e sottrae consenso sociale, dunque corrompono, comprano, coinvolgono professionisti, pubblici ufficiali e politici anche grazie alla forza di intimidazione che deriva dalla memoria del sangue versato. "Le mafie - si legge infatti nella relazione della Dna - anche senza l'uso di quelle che si riteneva fossero le loro armi principali, continuavano e continuano, non solo, a raggiungere i loro scopi di governo del territorio, di acquisizione di pubblici servizi, appalti, interi comparti economici, ma continuano a farlo avvalendosi dell'assoggettamento del prossimo (sia esso un imprenditore concorrente o un qualsiasi altro cittadino) riuscendo a porre costui, senza fare ricorso all'uso della tipica violenza mafiosa, in uno stato di paralizzata rassegnazione, nella quale, in sostanza, è in balia del volere mafioso". Obiettivo? Quello di sempre, il profitto. Che negli anni della crisi sono soprattutto gli appalti pubblici ad assicurare. E le mafie, la 'ndrangheta in particolare, sono capaci di accaparrarsi su tutto il territorio nazionale, anche grazie al coordinamento della "direzione strategica", individuata quest'anno grazie alle indagini della Dda di Reggio Calabria.
PROPOSTA DI MODIFICA DEL 416 BIS
Ecco perché la Dna torna a sollecitare - per il secondo anno consecutivo - una modifica del 416 bis, l'articolo del codice penale che disciplina il reato di associazione mafiosa, che permetta agli inquirenti di colpire i clan in questa loro nuova veste, aggravando di un terzo la pena "se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo (..) sono acquisite, anche non esclusivamente, con il ricorso alla corruzione o alla collusione con pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio, ovvero ancora, con analoghe condotte tese al condizionamento delle loro nomine". Al netto dei differenti stadi evolutivi che mafia siciliana, 'ndrangheta e camorra stanno attraversando, emerge infatti un tratto comune che la Dna non esita ad identificare in "un inarrestabile processo di trasformazione delle organizzazioni mafiose, da associazioni eminentemente militari e violente, ad entità affaristiche fondate su di un sostrato miliare". Per questo "gli omicidi ascrivibili alle dinamiche delle organizzazioni mafiose sono complessivamente in calo, mentre il panorama delle indagini mostra un forte dinamismo dei sodalizi in tutti gli ambiti imprenditoriali nei quali viene in rilievo un rapporto con la pubblica amministrazione".
L'ECCEZIONE NAPOLI E LA FEROCIA DEI BABY CAMORRISTI
A Napoli si spara ancora, ma è un'eccezione rispetto al generale trend della camorra e delle mafie storiche tutte. A differenza di tutti gli altri territori, nel capoluogo napoletano si registra un aumento degli omicidi di chiara matrice camorristica, che nel corso del 2016 passano da 45 a 65. A firmarli - spiega la Dna - sono "killer giovanissimi che si caratterizzano per la particolare ferocia che esprimono ed agiscono al di fuori di ogni regola" ed agiscono in esecuzione delle direttive di "quadri dirigenti che fino a pochi anni fa non erano in prima linea". Arresti e condanne dei capi storici hanno aperto vuoti di potere che "nuove leve criminali che scontano inevitabilmente una non ancora compiuta formazione strategica" pretendono di colmare. Il risultato è "un quadro d'insieme caratterizzato dall'esistenza di molteplici focolai di violenza". E in questo contesto - evidenzia con preoccupazione la Dna- "i quartieri del centro storico che da sempre hanno suscitato i voraci appetiti della criminalità organizzata, in ragione dell'esistenza di fiorenti mercati della droga, delle estorsioni e della contraffazione, hanno rappresentato e rappresentano tuttora la vera emergenza criminale per il distretto di Napoli".
CAMORRA
Radicalmente diversa e assolutamente in linea con il trend nazionale è invece la situazione nelle aree storicamente controllate dai casalesi e dagli altri clan attivi nel casertano, a nord di Napoli e nel beneventano. In queste zone non si spara più. Ma - si legge nella relazione - "il fatto che in Provincia di Caserta il numero di omicidi commessi al fine di agevolare organizzazioni mafiose, sia pari a quello che si registra, ad esempio, in provincia di Cuneo o Bolzano, cioè zero, non significa affatto che sia riscontrabile un livello ed una presenza della criminalità di tipo mafioso comparabile a quella riscontrabile nelle due province citate a titolo di mero esempio". Piuttosto, è la manifestazione di una nuova strategia di lungo respiro, basata sull'infiltrazione negli appalti e nei pubblici servizi, "sempre più agevolata da collegamenti stretti con la politica e l'imprenditoria", piuttosto che sul ricorso alla violenza.
I NUOVI CAPI SONO IMPRENDITORI-MAFIOSI
Una trasformazione in linea con il profondo cambiamento della composizione dei vertici delle diverse organizzazioni camorriste, oggi guidate da quegli "imprenditori-camorristi" che in passato erano uomini di fiducia dei capi militari ed oggi si ritrovano al vertice delle varie organizzazioni. Sono uomini d'affari, non generali. Per questo, "pur mantenendo sullo sfondo la possibilità del ricorso alla violenza, che rimane il sostrato su cui si fonda una intimidazione immanente e perdurante", la loro strategia è "la via negoziale (quasi sempre illecita), che, altro non è che estrinsecazione del metodo collusivo-corruttivo ad ogni livello".
COSA NOSTRA SICILIANA
Non sfugge al medesimo trend la mafia siciliana, che al pari se non più della camorra, si è dimostrata in grado non solo di rimanere presente su tutto il territorio regionale, ma è stata soprattutto capace di mettere in atto una "permanente e molto attiva opera di infiltrazione, in ogni settore dell'attività economica e finanziaria, che consenta il fruttuoso reinvestimento dei proventi illeciti, oltre che nei meccanismi di funzionamento della Pubblica Amministrazione, in particolare nell'ambito degli Enti Locali". Insomma, i clan siciliani non sparano ma ci sono e sanno infettare la "Cosa pubblica". Dopo gli anni della strategia di "sommersione" seguita alla cattura di Bernardo Provenzano, Cosa nostra sta attraversando una nuova fase - di transizione - tesa all'individuazione di una nuova leadership, ma questo non ha dato la stura ad un conflitto violento fra famiglie. Il tessuto di regole consolidato nei decenni passati - la cosiddetta "costituzione formale" - ha permesso all'organizzazione di "risollevarsi dalle ceneri". "Cosa Nostra - spiega infatti la Dna - si presenta tuttora come un'organizzazione solida, fortemente strutturata nel territorio, riconosciuta per autorevolezza da vasti strati della popolazione, dotata ancora di risorse economiche sconfinate ed intatte e dunque più che mai in grado di esercitare un forte controllo sociale ed una presenza diffusa e pervasiva".
MODIFICA NORMATIVA PER COLPIRE I RECIDIVI
A guidare i clan - segnala con allarme la Dna - ci sono spesso storici esponenti dell'organizzazione, che finita di scontare la pena tornano alle vecchie attività. Per questo dal gruppo di magistrati che in Dna si occupa di Sicilia arriva un'ulteriore proposta di modifica del 416 bis che preveda "un meccanismo sanzionatorio particolarmente rigoroso per escludere per un non breve periodo di tempo dal circuito criminale quegli appartenenti all'organizzazione mafiosa che dopo una prima condanna, tornino a delinquere reiterando in tal modo la capacità criminale propria e dell'organizzazione".
RISVEGLIO DELLA SOCIETA' CIVILE
Dalla Sicilia arrivano però anche segnali positivi. Soprattutto a Palermo, sottolineano dalla Dna, l'efficace azione di contrasto, unita "all'obbiettiva minore autorevolezza ed al minore prestigio degli esponenti mafiosi, determina condizioni favorevoli affinché il consenso, l'acquiescenza o quanto meno la sudditanza di cui l'organizzazione ha goduto in passato e che già ha perso in parte degli ambienti sociali, in particolare del capoluogo, vengano definitivamente a mancare". E forse non a caso, a fronte di un numero delle estorsioni sostanzialmente costante, sono aumentate esponenzialmente le denunce.
'NDRANGHETA
Nessun segnale di questo genere si registra invece nelle terre dominate dalla 'ndrangheta, tra le mafie storiche di certo quella più in salute. "Si è di fronte ad un complesso di emergenze significative, ancora di più che in passato, di una ndrangheta presente in tutti i settori nevralgici della politica, dell'amministrazione pubblica e dell'economia, creando - constata la Dna - in tal modo, le condizioni per un arricchimento, non più solo attraverso le tradizionali attività illecite del traffico internazionale di stupefacenti e delle estorsioni, ma anche intercettando, attraverso prestanome o, comunque, imprenditori di riferimento, importanti flussi economici pubblici ad ogni livello, comunale, regionale, statale ed europeo". E non solo in Calabria.
LA COLONIZZAZIONE DEL NORD
I clan non solo si confermano capillarmente presenti su tutto il territorio calabrese, ma giorno dopo giorno si dimostrano in grado di infettare sempre più territori diversi. Traduzione, il contrasto alla 'ndrangheta non è un problema della Calabria, ma nazionale se non internazionale. Nelle diverse regioni del Nord Italia i clan hanno messo radici solide. Se il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e la Toscana sono per la Dna territori di reinvestimento grazie a operatori economici compiacenti, Piemonte e Valle d'Aosta, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna ed Umbria, sono invece regioni in cui "vari sodalizi di ndrangheta hanno ormai realizzato una presenza stabile e preponderante". Un'infezione che ha contaminato i territori non grazie al sangue versato, ma utilizzando "il "capitale sociale", fatto di relazioni con il mondo politico, imprenditoriale ed economico".
ALLARME GRANDI OPERE
E soprattutto al Nord c'è un dato che a detta della Dna desta "particolare preoccupazione": l'attivismo dei vari sodalizi di ndrangheta "nel tentativo di inserirsi - attraverso imprese proprie o, comunque, di riferimento - nei procedimenti aventi ad oggetto la realizzazione delle "grandi opere", tra cui, in passato, i lavori legati ad Expo 2015, ed oggi la Tav, nella tratta Torino-Lione, nonché la capacità dagli stessi dimostrata, di fare dei più importanti scali portuali del nord - Genova, Savona, Venezia, Trieste, Livorno - degli stabili punti di sbarco dei grossi quantitativi di sostanza stupefacente importata dal sud-America, in aggiunta a quello di Gioia Tauro". E se un tempo i "camalli" e le loro organizzazioni sindacali erano argine naturale all'infiltrazione della criminalità organizzata, oggi - si legge nella relazione - sono in tanti ad essere al servizio dei clan e questo - constata la Dna - è "espressione e misura del grado di infiltrazione delle organizzazioni mafiose nei gangli vitali della società".
MINACCIA EVERSIVA
In ragione della sua capacità di contaminazione, la 'ndrangheta - emerge dalla relazione - è dunque una minaccia per la stessa democrazia. Un dato che diventa ancor più preoccupante ed attuale alla luce del nuovo organismo scoperto dai magistrati di Reggio Calabria. Le indagini del 2016 hanno infatti permesso di individuare la direzione strategica della 'ndrangheta e alcuni dei suoi componenti. Non si tratta di capi militari ma di professionisti, pubblici funzionari, deputati e senatori. Per i magistrati di Reggio Calabria nella cabina di comando della 'ndrangheta hanno funzione apicale un ex deputato della Repubblica, Paolo Romeo, massone e vincolato da legami storici e consolidati alla destra eversiva e un avvocato ed ex consigliere comunale, Giorgio De Stefano, legato per sangue e ruolo ad uno dei clan più potenti della 'ndrangheta tutta. Attorno a loro gravitano un importante dirigente della Regione Calabria, Franco Chirico, un ex sottosegretario regionale, Alberto Sarra, e persino un senatore della Repubblica, Antonio Caridi, arrestato quando ancora sedeva in Parlamento.
DEMOCRAZIA SCIPPATA
È questo nucleo ad aver deciso tutte le elezioni che si siano svolte in Calabria dal 2001 a - quanto meno - il 2012. Non si tratta - ed è questo il dato nuovo - dell'ormai canonica raccolta di voti per questo o quel candidato, ma di una pianificazione previa degli uomini e degli schieramenti migliori per garantire all'organizzazione appalti, lavori, commesse, scelte politiche e strategiche. Al momento, secondo quanto emerso dalle indagini, la Santa - questo il nome del nuovo organismo - è in grado di determinare le macropolitiche criminali di tutto il mandamento reggino. Ma più di un elemento, proveniente da vari territori, sembra far emergere una tendenza al coordinamento al vertice di organizzazioni criminali diverse ma unite da un comune obiettivo, il profitto.
mercoledì 21 giugno 2017
Governo Crocetta finito, apparato amministrativo distrutto, i ladri restano al loro posto, finchè resta il Presiniente
Regione, Orlando annuncia la lista dei territori: "Basta potere politico di Confindustria, governo Crocetta finito"
Il sindaco di Palermo fissa
alcuni paletti del programma che dovrà avere la futura coalizione del
centrosinistra. Intanto i dem attendono una risposta dal presidente del
Senato Grasso
di ANTONIO FRASCHILLAAnnuncia la presentazione della "lista dei territori" alle prossime regionali e fissa alcuni paletti del programma che dovrà avere la coalizione del centrosinistra sul "modello Palermo": in primis lo stop al "potere politico di Confindustria" e un cambio radicale rispetto a "un governo Crocetta che considero da due anni concluso". Mentre il Pd attende una risposta a candidarsi governatore da parte del presidente del Senato Pietro Grasso, il sindaco Leoluca Orlando da oggi è ufficialmente in campo in vista delle prossime regionali: "La dignità e la fatica dell'amministrare a servizio delle comunità locali non possono e non devono più essere mortificate ulteriormente da atteggiamenti e pratiche "annacatorie", che hanno fatto parlare in Sicilia di uno "stato di calamità istituzionale" - dice in una lunga nota - è dai territori, a partire anche da Palermo, che occorre prendere le mosse con quello che viene definito "civismo politico", del tutto alternativo a movimenti tanto ribelli quanto inconcludenti e incapaci di amministrare e del tutto alternativo a logiche di apparato che simulano protagonismo con litigi continui ed inconcludenti. Chi da oltre due anni considera conclusa la esperienza del governo Crocetta ha il diritto e il dovere di immaginare un futuro diverso e migliore per i siciliani e per la Sicilia, a partire non da alchimie politichesi ma a partire dai problemi reali, come ogni giorno sono chiamati nei territori a fare amministratori locali e sindaci. Un programma regionale chiaro deve prevedere pregiudizialmente la fine del soffocante ed improprio ruolo politico di governo da parte di un mondo cosiddetto confindustriale siciliano che si ostina a voler comandare, certamente impropriamente e troppo spesso illegalmente, e che nelle ultime elezioni comunali a Palermo è stato direttamente impegnato con un suo vertice candidato in una delle coalizioni sconfitte dagli elettori".
Orlando annuncia già alcuni punti del programma: "Un programma regionale chiaro di governo deve prevedere la mitigazione della speciale autonomia siciliana, non essendo più tollerabili - in nome della specialità - arbitrii gestionali, inconcludenze amministrative e confusioni legislative, ossessivamente presenti e penalizzanti con riferimento al sistema delle autonomie locali e nei settori di acqua, rifiuti, precariato e formazione professionale. In sintesi, milioni di siciliani non possono essere esclusi, e sono stati sin qui esclusi, dalla comunità nazionale ed europea e dai loro processi di riforma e flussi finanziari, a causa di uno Statuto speciale divenuto alibi per inattività ed inadeguatezze, oltre che privilegio e fonte di rendita parassitaria per pochi ed isolamento e mortificazione per tutti gli altri. Un futuro diverso e migliore si costruisce con un programma chiaro che non può essere rinviato prestando prioritaria attenzione a "chi non ha" e a "chi produce". Attenzione a chi non ha lavoro, a chi non ha salute, a chi non ha casa. Attenzione a chi produce lavoro, cultura, arte per se e per gli altri. Un programma regionale chiaro deve prevedere la pubblicità della gestione dell'acqua considerato diritto inalienabile e non mercificabile da parte di intrallazzisti, a volte mascherati da gruppi finanziari anche multinazionali. Un programma regionale chiaro deve prevedere la realizzazione di un ciclo dei rifiuti basato su un Piano regionale con impiantistica pubblica adeguata, che sottragga l'intero sistema a logiche ricattatorie/parassitarie di alcune realtà private oligopolistiche e a volte, per vasti territori, anche monopoliste. Un programma regionale chiaro deve essere fortemente caratterizzato da cultura e pratica dell'innovazione, cultura e pratica di rispetto ambientale e cultura e pratica della accoglienza, in una prospettiva di mobilità internazionale come diritto umano e pertanto una prospettiva capace di accogliere senza isterie e paure i flussi migratori e di attrarre al tempo stesso enormi potenzialità turistiche. Su queste preliminari scelte programmatiche appare necessaria la presentazione alle prossime elezioni regionali di una "lista dei territori", che nasca a partire dai territori mortificati in questi anni e nasca attorno ad un programma chiaro, che costituisca la premessa e indichi i contenuti di un auspicabile campo tanto largo quanto privo di ambiguità e pretestuosi rinvii di approfondimento"
venerdì 16 giugno 2017
'Caro Giuseppe Graviano ti scrivo'
PALERMO
'Caro Giuseppe Graviano ti scrivo'
PALERMO - “Ti presento i miei figli e ti mando le foto”,
così scriveva una donna a Giuseppe Graviano. E il capomafia di
Brancaccio raccontava della missiva, compiaciuto e commosso com'era, al
suo compagno di passeggiata, il camorrista Umberto Adinolfi.
'Caro Giuseppe Graviano ti scrivo'
La donna e il rispetto per il boss
di Riccardo Lo Verso da livesicilia.it
PALERMO - “Ti presento i miei figli e ti mando le foto”,
così scriveva una donna a Giuseppe Graviano. E il capomafia di
Brancaccio raccontava della missiva, compiaciuto e commosso com'era, al
suo compagno di passeggiata, il camorrista Umberto Adinolfi.
Nei nastri magnetici delle intercettazioni nel carcere di Ascoli
Piceno, eseguite dalla Direzione investigativa antimafia di Palermo, è rimasta impressa una storia di mafia, tradimenti e rispetto. Il rispetto che una giovane donna nutriva per il capomafia.
Uno dei protagonisti della vicenda è un carissimo amico di Graviano,
"più buono del pane", condannato all'ergastolo. Lo hanno arrestato nel
1995, pochi mesi dopo che analoga sorte era toccata al boss. Qualche
anno fa la moglie ha lasciato l'amico di Graviano. È andata via da
Palermo con un pentito, a sua volta abbandonato dalla compagna che non
lo ha seguito nella scelta di cambiare città, imposta dal programma di
protezione.
Il pentito e l'ex moglie dell'ergastolano si sono rifatti una vita.
Per un periodo la donna che ha scritto a Graviano ha seguito la madre.
Alla fine, però, ha deciso di tornare a Palermo per vivere con i parenti
del padre.
L'ultimo capitolo della storia è di un anno fa, quando Graviano ha ricevuto una cartolina in carcere:
“Caro Giuseppe, ciao. Come stai? Tu non mi conosci ed io non conosco te
- Graviano ha riferito ad Adinolfi il contenuto della missiva - quando
si tratta di carcerati che a me stanno nel cuore... in particolare tu...
ti volevo informare che sono diventata mamma... ti mando la foto... te
li presento”.
“Ho preso carta e penna e gli rispondo - ha spiegato Graviano al suo compagno di socialità - gli ho detto... ti ringrazio, ti auguro il bene...".
Poche righe per mostrare rispetto al capomafia detenuto. Poche righe
per marcare la distanza dalla scelta della madre di troncare il
matrimonio con il padre per scappare con un pentito lontano da Palermo.
mercoledì 14 giugno 2017
Il poeta del mese: Pablo Neruda
Ho voluto inserire in questo mese di giugno del 2017, come poeta del mese, Pablo Neruda. La motivazione è che Pablo è un uomo latino con una cultura cosmopolita che guarda alla bellezza piuttosto che alla conquista ed è contro ogni guerra. Credo che non si conosca a fondo tutto quello che ha scritto, perchè questa è un epoca generalista e massimalista che tende a schiacciare il pensiero. Ho scelto una poesia che, senza ombra di dubbio, potrebbe facilmente trovare una musica di completamento e divenire una bellissima canzone. Dedicata a tutti noi che non vorremmo mai vedere un bambino soffrire o essere sfruttato, violentato, ucciso per guerre ipocrite che servono solo ad alimentare e gonfiare le tasche, già gonfie, dei venditori di MORTE (ARMI).
Ugo Arioti
"Explico algunas cosas"Traduzione italiana di Riccardo Venturi (2003)
Da "Spagna nel cuore" (1938)
Da "Spagna nel cuore" (1938)
SPIEGO ALCUNE COSE
Chiederete: ma dove sono i lillà?
E la metafisica coperta di papaveri?
E la pioggia che fitta colpiva
Le sue parole, riempiendole
Di buchi e uccelli?
Vi racconterò tutto quel che m'accade.
Vivevo in un quartiere
Di Madrid, con campane,
Orologi, alberi.
Da lì si vedeva
Il volto secco della Castiglia,
Come un oceano di cuoio.
La mia casa la chiamavano
"La casa dei fiori", ché da ogni parte
Conflagravan gerani: era
Una bella casa,
Con cani e scugnizzi.
Ti ricordi, Raúl?
Ti ricordi, Rafael?
Federico, ti ricordi,
Ora che sei sottoterra,
Ti ricordi della mia casa balconata, dove
La luce di giugno ti soffocava la bocca di fiori?
Fratello, fratello!
Tutto
Era gran voci, sale di mercanzie,
Mucchi di pane palpitante,
Mercati del mio rione di Argüelles, con la sua statua
Come una seppia pallida tra i merluzzi:
L'olio era versato nel cucchiaio,
Un profondo brusìo
Di mani e piedi riempiva le strade,
Metri, litri, acuta
Essenza della vita,
Pesci accatastati,
Intreccio di tetti nel freddo sole, dove
La freccia s'affatica,
Fino avorio delirante delle patate,
Pomodori in fila, in fila fino al mare.
E una mattina tutto era in fiamme,
E una mattina i roghi
Uscivan dalla terra,
Divorando esseri,
E da allora fuoco,
Da allora polvere da sparo,
Da allora sangue.
Banditi con aerei e con mori,
Banditi con anelli e duchesse,
Banditi con neri frati benedicenti
Arrivavan dal cielo a uccidere bambini,
E per le strade il sangue dei bambini
Correva semplicemente, come sangue di bambini.
Sciacalli che lo sciacallo schiferebbe,
Sassi che il cardo secco sputerebbe dopo morsi,
Vipere che le vipere odierebbero!
Davanti a voi ho visto
Sollevarsi il sangue della Spagna
Per annegarvi in una sola onda
Di orgoglio e di coltelli!
Generali
Traditori:
Guardate la mia casa morta,
Guardata la Spagna spezzata:
Però da ogni casa morta esce metallo ardente
Invece di fiori,
Da ogni foro della Spagna
La Spagna viene fuori,
Da ogni bambino morto vien fuori un fucile con occhi,
Da ogni crimine nascono proiettili
Che un giorno troveranno il bersaglio
Del vostro cuore.
Chiederete: perché la tua poesia
Non ci parla del sogno, delle foglie,
Dei grandi vulcani del paese dove sei nato?
Venite a vedere il sangue per le strade,
Venite a vedere
Il sangue per le strade,
Venite a vedere il sangue
Per le strade!
Chiederete: ma dove sono i lillà?
E la metafisica coperta di papaveri?
E la pioggia che fitta colpiva
Le sue parole, riempiendole
Di buchi e uccelli?
Vi racconterò tutto quel che m'accade.
Vivevo in un quartiere
Di Madrid, con campane,
Orologi, alberi.
Da lì si vedeva
Il volto secco della Castiglia,
Come un oceano di cuoio.
La mia casa la chiamavano
"La casa dei fiori", ché da ogni parte
Conflagravan gerani: era
Una bella casa,
Con cani e scugnizzi.
Ti ricordi, Raúl?
Ti ricordi, Rafael?
Federico, ti ricordi,
Ora che sei sottoterra,
Ti ricordi della mia casa balconata, dove
La luce di giugno ti soffocava la bocca di fiori?
Fratello, fratello!
Tutto
Era gran voci, sale di mercanzie,
Mucchi di pane palpitante,
Mercati del mio rione di Argüelles, con la sua statua
Come una seppia pallida tra i merluzzi:
L'olio era versato nel cucchiaio,
Un profondo brusìo
Di mani e piedi riempiva le strade,
Metri, litri, acuta
Essenza della vita,
Pesci accatastati,
Intreccio di tetti nel freddo sole, dove
La freccia s'affatica,
Fino avorio delirante delle patate,
Pomodori in fila, in fila fino al mare.
E una mattina tutto era in fiamme,
E una mattina i roghi
Uscivan dalla terra,
Divorando esseri,
E da allora fuoco,
Da allora polvere da sparo,
Da allora sangue.
Banditi con aerei e con mori,
Banditi con anelli e duchesse,
Banditi con neri frati benedicenti
Arrivavan dal cielo a uccidere bambini,
E per le strade il sangue dei bambini
Correva semplicemente, come sangue di bambini.
Sciacalli che lo sciacallo schiferebbe,
Sassi che il cardo secco sputerebbe dopo morsi,
Vipere che le vipere odierebbero!
Davanti a voi ho visto
Sollevarsi il sangue della Spagna
Per annegarvi in una sola onda
Di orgoglio e di coltelli!
Generali
Traditori:
Guardate la mia casa morta,
Guardata la Spagna spezzata:
Però da ogni casa morta esce metallo ardente
Invece di fiori,
Da ogni foro della Spagna
La Spagna viene fuori,
Da ogni bambino morto vien fuori un fucile con occhi,
Da ogni crimine nascono proiettili
Che un giorno troveranno il bersaglio
Del vostro cuore.
Chiederete: perché la tua poesia
Non ci parla del sogno, delle foglie,
Dei grandi vulcani del paese dove sei nato?
Venite a vedere il sangue per le strade,
Venite a vedere
Il sangue per le strade,
Venite a vedere il sangue
Per le strade!
INDIETRO VERSO IL FUTURO a cura di Francesco Silvestri
Venerdì 23 Giugno 2017 alle ore 20 presso il “Giardino degli Aranci” (via C. Pisacane, 104) a Massafra l’associazione di Volontariato Culturale “Il Corifeo Massafra” presenta "INDIETRO VERSO IL FUTURO" di FRANCESCO SILVESTRI.
Il nuovo libro di Francesco Silvestri è di fatto una raccolta di “reperti” di vita culturale svolta all’interno del territorio negli ultimi quarant’anni.
Il significato dell’opera, o meglio il messaggio dell’autore, è… mediato.
Una serie di eventi sviluppati (“in proprio”) secondo la logica dell’educazione civica, dello stimolo al perseguimento del bello; una passeggiata tra le arti con gli intellettuali di maggior spicco.
Il filo conduttore è invitare, pubblico e privato, a preparare una classe dirigente degna e attrezzata allo scopo, nonché formare cittadini consapevoli.
All’incontro interverranno: il dott. Giovanni Argentina, il prof. Roberto Caprara, il prof. Francesco Laterza, il prof. Pasquale Lucio Losavio, il prof. Piero Massafra, il dott. Giovanni Matichecchia.
La serata si concluderà con un momento musicale a cura di Marino Ceci.
Ingresso per invito (contattare 347.6413496)
martedì 13 giugno 2017
Sollima di padre in figlio con l'oboe dei Berliner
"Viva Pasculli", è proprio il caso di dirlo, come la voce che si è
levata dal pubblico al concerto della Filarmonica Sollima al Santissimo
Salvatore venerdì con GliArchiEnsemble e l’oboe di Christoph Hartmann.
Eppure non c’era bisogno del virtuosismo ironico di Le api del
compositore palermitano, un fuori programma scelto per omaggiare il
bibliotecario del conservatorio Dario Lo Cicero che ha il merito di
avere trovato tanti inediti, perché la levatura dell’oboe dei Berliner
si sente con pochissime note, nelle chiusure di frase, la messa di voce
in diminuendo e la naturale fluidità del suono. Delizioso anche accanto
al figlio appena dodicenne eppure professionista nel Concerto di
Albinoni.
Con GliArchiEnsemble c’è una buona intesa e un guizzo di verve e
sobria giocosità, già insita in alcuni brani come quello del brasiliano
Deddos in prima palermitana che gioca nei finali di movimento con
sorpresa.
L’occasione di questa serata è nata tuttavia intorno a una prima assoluta, Ansia di luce,
la pagina manoscritta per oboe di Eliodoro Sollima orchestrata dal
figlio Giovanni. Negli archi si sente la firma di Giovanni Sollima
sebbene sia in linea col tratto del padre, come uno spiraglio di sole
che diventa uno squarcio.
ALESSANDRA SCIORTINO
lunedì 12 giugno 2017
Riflessioni post "trauma" elezioni comunali
Passata è l'elezione vedo "augelli" far festa! Si poteva dare questo titolo ad una riflessione sulle appena trascorse elezioni amministrative dell'11 giugno.
"La destra, unita, giammai sara battuta", gridano i reduci del PDL ex e nuova FI...avviandosi ai ballottaggi.
Il PD, Renzi docet, esulta per la mancata partecipazione del MOV 5 Stelle ai ballottaggi...."Una sconfitta!" brindano!
Se guardiamo ai numeri, tuttavia, il MOV 5 Stelle è il primo partito, quello più votato dagli italiani, ma ha nel suo DNA la corsa solitaria, niente inciuci e coalizione, che all'indomani del voto si spaccano e ricominciano a litigare.
Allora?
Allora vedremo!, sì, vedremo chi riderà alla fine della giostra, quando si andrà a votare per il Governo Nazionale!
Per ora, attendiamo nuovi inciuciamenti per i "SBALLOTTAGGI"!
Meditate gente, meditate!
Ugo Arioti
mercoledì 7 giugno 2017
IL TRISTE CASO DEL POVERO “ZZU TOTÒ”
IL TRISTE CASO DEL POVERO “ZZU TOTÒ”, HA RIEMPITO OGGI GIORNALI, INTERNET, FACEBOOK E TUTTI I MEZZI D’INFORMAZIONE, AL PUNTO CHE SIAMO PERPLESSI SE OCCUPARCI ANCHE NOI DI QUESTO ARGOMENTO O SE FARE FINTA CHE NON ESISTE. TUTTA L’ITALIA SI È SCHIERATA IN FAVOREVOLI E CONTRARI A CHE U ZZU TOTÒ ABBIA DIRITTO A UNA MORTE DIGNITOSA. LA COSA NON È COSÌ SEMPLICE.
U zzu Totò è malatu. La Cazzazione parla di “complessivo stato morboso del detenuto e di condizioni generali di decadimento fisico”. La difesa dice e documenta che il boss è “affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa”, che non riesce a stare seduto ed è esposto “in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili”.
E se non riesce a stare seduto vuol dire che c’è qualcosa che non funziona in quella parte delicata da cui fuoriesce tutto l’essere di quello che fu il capo dei capi e che ora, si dice, è ridotto a una larva umana. Oddio, qualche dubbio viene sempre: gli avvocati difensori, è il loro lavoro, e i medici di parte sono portati ad amplificare le condizioni di partenza, per documentare le loro richieste, ma ammettiamo che u zzu Totò stia davvero male: è giusto lasciarlo morire in carcere come un cornuto, oppure va accolta la richiesta di differimento della pena, o in subordine della detenzione domiciliare? Cioè lo portiamo a morire in qualche clinica o direttamente a casa sua a Corleone, vicino alla sua amata Ninetta e ai suoi figli? La richiesta (si legge nella sentenza 27.766, relativa all’udienza del 22 marzo scorso) era stata respinta dal tribunale di sorveglianza di Bologna che non aveva ritenuto che vi fosse incompatibilità tra l’infermità fisica di Riina e la detenzione in carcere, visto che le sue patologie venivano monitorate e quando necessario si era ricorso al ricovero in ospedale a Parma. Gli avvocati hanno fatto ricorso e adesso la prima sezione penale della Cazzazione ha accolto questo ricorso. Tuttavia, leggiamo in una notizia ANSA, ferma restando “l’altissima pericolosità” e l’indiscusso spessore criminale “il tribunale non ha chiarito” come tale pericolosità “possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico”. La parola passa ora nuovamente al tribunale di sorveglianza che non ha ancora fissato l’udienza per discutere il ricorso.
In una sua nota il Partito Radicale, che come sempre è garantista, sostiene che “la forza di uno Stato non risiede nella sua ‘terribilità’, come diceva Leonardo Sciascia, ma nel diritto, cioè nel limite insuperabile che lo Stato pone a se stesso proprio nel momento in cui deve affrontare il male assoluto. Se quel limite viene superato a morire non è solo Totò Riina, così come è stato lasciato morire Bernardo Provenzano, come rischiano di morire alcuni ultra novantenni ancora in 41 bis nel carcere di Parma o come Vincenzo Stranieri ancora in misura di sicurezza in regime di 41 bis nonostante abbia scontato la sua pena e sia gravemente malato. A morire è lo Stato di diritto”.
Più duro è Beppe Lumia, secondo cui “Il sistema carcerario italiano è in grado di garantire le cure necessarie ai detenuti. Riina è un carnefice spietato e ancora pericoloso. Per cui è necessario non dare segni di debolezza che potremmo pagare amaramente”. “Non scordiamoci quanto fino a poco tempo fa egli sosteneva nei dialoghi intercettati in carcere dalla Procura antimafia. Dialoghi agghiaccianti nei quali il capo dei capi parlava di piani mafiosi e omicidi da compiere”.
E quindi si ripropone il quesito: è giusto lasciar morire in carcere, sia pure assistendolo nelle sue cure un boss che ha sulle spalle un numero impressionante di delitti e di ergastoli, oppure è più umano farlo morire con l’assistenza e il conforto dei familiari? Per chi lo avesse scordato, u zzu Binnu, cioè Bernardo Provenzano, malgrado le richieste di umanità, oltre che di cure specializzate, avanzate dal figlio, è stato lasciato morire in carcere quando ormai era ridotto a una larva, incapace anche di muoversi o di riconoscere qualcuno. Si può dire che in quel caso “hanno buttato la chiave della cella”.
Ma signori miei, u zzu Totò è u zzu Totò. Ancora oggi è riconosciuto il capo in assoluto. Dopo di lui il diluvio. È la memoria storica di quarant’anni di mafia, il protagonista in assoluto, l’uomo che sfidò lo stato appartandosi con pezzi dello stato. U zzu Totò, in quanto l’espressione più alta di Cosa nostra, va trattato con rispetto. Se dovesse aprire il rubinetto, chissà cosa verrebbe fuori! Quindi noi siamo favorevoli a che sia portato fuori dal carcere in uno zoo, dove ci sia un gorilla arrapato o in una stalla dove ci sia un asino sbrogliato, affinché, visto che non può stare in piedi, facciano con lui quello che lui ha fatto patire agli altri. Dante la chiamava la pena del “contrappasso”.
Il problema è che in Italia secoli di limitate interpretazioni del Cristianesimo hanno perforato il cervello anche a persone intelligenti. E il Cristianesimo prevede come sua condizione il perdono. Ogni tanto troviamo qualche idiota intervistatore televisivo porre alle vittime si qualsiasi ingiustizia questa idiota domanda: lui lo perdona? La risposta più tagliente è stata data con un NO secco da Felicia Impastato a chi gli chiedeva se avesse perdonato Badalamenti. Nel nostro caso il perdonismo si incrocia con il garantismo e, davanti al diritto di essere curato o incurato, viene aggiunto quello, sinora non previsto da nessuna disposizione, di morire nel proprio letto. E qua è di prassi l’alzata di scudi. Si ha l’impressione che tutto il fumo sollevato da questo caso sia stato fatto deliberatamente per sollevare un’alzata di scudi, una sana boccata d’antimafia, dal momento che è giusto che il nostro povero zzu Totò possa esser lasciato morire in pace nella sua cella, senza che qualcuno lo butti fuori da quella che oggi e da molto tempo è la sua casa.
E del resto c’è un altro problema teologico: Papa Francesco ha scomunicato i mafiosi. Può un mafioso scomunicato andare in Paradiso? No. Papa Woytila ha gridato: “Mafiosi, per voi verrà il giudizio di Dio”. Può Dio giudicare un mafioso perdonandolo? La cosa pare difficile, ma bisogna pure tenere presente che qualsiasi assassino può pentirsi un momento prima di morire, e quindi può finire in paradiso. Quesito: il pentimento estingue il peccato? Per i protestanti sì, per i cattolici no, perché ci vuole la confessione. E mettiamo che Totò Riina si pentisse e si confessasse. Come la mettiamo? Mettiamo che, a seguito di giudizi vari di Cazzazione dovesse finire in paradiso, come la prenderebbero gli i beati e i santi? Secondo noi “i carcagnati nculu un fussiru normali”. (Traduzione per chi non capisce il siciliano: "I calci in culo non sarebbero normali")
(Salvo Vitale) - Trasmesso a Telejato 6.6.2017)
U zzu Totò è malatu. La Cazzazione parla di “complessivo stato morboso del detenuto e di condizioni generali di decadimento fisico”. La difesa dice e documenta che il boss è “affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa”, che non riesce a stare seduto ed è esposto “in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili”.
E se non riesce a stare seduto vuol dire che c’è qualcosa che non funziona in quella parte delicata da cui fuoriesce tutto l’essere di quello che fu il capo dei capi e che ora, si dice, è ridotto a una larva umana. Oddio, qualche dubbio viene sempre: gli avvocati difensori, è il loro lavoro, e i medici di parte sono portati ad amplificare le condizioni di partenza, per documentare le loro richieste, ma ammettiamo che u zzu Totò stia davvero male: è giusto lasciarlo morire in carcere come un cornuto, oppure va accolta la richiesta di differimento della pena, o in subordine della detenzione domiciliare? Cioè lo portiamo a morire in qualche clinica o direttamente a casa sua a Corleone, vicino alla sua amata Ninetta e ai suoi figli? La richiesta (si legge nella sentenza 27.766, relativa all’udienza del 22 marzo scorso) era stata respinta dal tribunale di sorveglianza di Bologna che non aveva ritenuto che vi fosse incompatibilità tra l’infermità fisica di Riina e la detenzione in carcere, visto che le sue patologie venivano monitorate e quando necessario si era ricorso al ricovero in ospedale a Parma. Gli avvocati hanno fatto ricorso e adesso la prima sezione penale della Cazzazione ha accolto questo ricorso. Tuttavia, leggiamo in una notizia ANSA, ferma restando “l’altissima pericolosità” e l’indiscusso spessore criminale “il tribunale non ha chiarito” come tale pericolosità “possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico”. La parola passa ora nuovamente al tribunale di sorveglianza che non ha ancora fissato l’udienza per discutere il ricorso.
In una sua nota il Partito Radicale, che come sempre è garantista, sostiene che “la forza di uno Stato non risiede nella sua ‘terribilità’, come diceva Leonardo Sciascia, ma nel diritto, cioè nel limite insuperabile che lo Stato pone a se stesso proprio nel momento in cui deve affrontare il male assoluto. Se quel limite viene superato a morire non è solo Totò Riina, così come è stato lasciato morire Bernardo Provenzano, come rischiano di morire alcuni ultra novantenni ancora in 41 bis nel carcere di Parma o come Vincenzo Stranieri ancora in misura di sicurezza in regime di 41 bis nonostante abbia scontato la sua pena e sia gravemente malato. A morire è lo Stato di diritto”.
Più duro è Beppe Lumia, secondo cui “Il sistema carcerario italiano è in grado di garantire le cure necessarie ai detenuti. Riina è un carnefice spietato e ancora pericoloso. Per cui è necessario non dare segni di debolezza che potremmo pagare amaramente”. “Non scordiamoci quanto fino a poco tempo fa egli sosteneva nei dialoghi intercettati in carcere dalla Procura antimafia. Dialoghi agghiaccianti nei quali il capo dei capi parlava di piani mafiosi e omicidi da compiere”.
E quindi si ripropone il quesito: è giusto lasciar morire in carcere, sia pure assistendolo nelle sue cure un boss che ha sulle spalle un numero impressionante di delitti e di ergastoli, oppure è più umano farlo morire con l’assistenza e il conforto dei familiari? Per chi lo avesse scordato, u zzu Binnu, cioè Bernardo Provenzano, malgrado le richieste di umanità, oltre che di cure specializzate, avanzate dal figlio, è stato lasciato morire in carcere quando ormai era ridotto a una larva, incapace anche di muoversi o di riconoscere qualcuno. Si può dire che in quel caso “hanno buttato la chiave della cella”.
Ma signori miei, u zzu Totò è u zzu Totò. Ancora oggi è riconosciuto il capo in assoluto. Dopo di lui il diluvio. È la memoria storica di quarant’anni di mafia, il protagonista in assoluto, l’uomo che sfidò lo stato appartandosi con pezzi dello stato. U zzu Totò, in quanto l’espressione più alta di Cosa nostra, va trattato con rispetto. Se dovesse aprire il rubinetto, chissà cosa verrebbe fuori! Quindi noi siamo favorevoli a che sia portato fuori dal carcere in uno zoo, dove ci sia un gorilla arrapato o in una stalla dove ci sia un asino sbrogliato, affinché, visto che non può stare in piedi, facciano con lui quello che lui ha fatto patire agli altri. Dante la chiamava la pena del “contrappasso”.
Il problema è che in Italia secoli di limitate interpretazioni del Cristianesimo hanno perforato il cervello anche a persone intelligenti. E il Cristianesimo prevede come sua condizione il perdono. Ogni tanto troviamo qualche idiota intervistatore televisivo porre alle vittime si qualsiasi ingiustizia questa idiota domanda: lui lo perdona? La risposta più tagliente è stata data con un NO secco da Felicia Impastato a chi gli chiedeva se avesse perdonato Badalamenti. Nel nostro caso il perdonismo si incrocia con il garantismo e, davanti al diritto di essere curato o incurato, viene aggiunto quello, sinora non previsto da nessuna disposizione, di morire nel proprio letto. E qua è di prassi l’alzata di scudi. Si ha l’impressione che tutto il fumo sollevato da questo caso sia stato fatto deliberatamente per sollevare un’alzata di scudi, una sana boccata d’antimafia, dal momento che è giusto che il nostro povero zzu Totò possa esser lasciato morire in pace nella sua cella, senza che qualcuno lo butti fuori da quella che oggi e da molto tempo è la sua casa.
E del resto c’è un altro problema teologico: Papa Francesco ha scomunicato i mafiosi. Può un mafioso scomunicato andare in Paradiso? No. Papa Woytila ha gridato: “Mafiosi, per voi verrà il giudizio di Dio”. Può Dio giudicare un mafioso perdonandolo? La cosa pare difficile, ma bisogna pure tenere presente che qualsiasi assassino può pentirsi un momento prima di morire, e quindi può finire in paradiso. Quesito: il pentimento estingue il peccato? Per i protestanti sì, per i cattolici no, perché ci vuole la confessione. E mettiamo che Totò Riina si pentisse e si confessasse. Come la mettiamo? Mettiamo che, a seguito di giudizi vari di Cazzazione dovesse finire in paradiso, come la prenderebbero gli i beati e i santi? Secondo noi “i carcagnati nculu un fussiru normali”. (Traduzione per chi non capisce il siciliano: "I calci in culo non sarebbero normali")
(Salvo Vitale) - Trasmesso a Telejato 6.6.2017)
martedì 6 giugno 2017
Editoriale di giugno 2017
Il pensiero debole, fatto di modi di dire, pseudomoralisti e finti garantisti, tronisti, amici, figli del grande fratello, vorrebbe prendere per buona la decisione fasulla e ipocrita di un manipolo di massoni travestiti da Giudici che si vanno a preoccupare delle sorti mortali di un povero detenuto al 41bis. Ora, caro Watson, è elementare per chi non segue questo pensiero, ma ha una mente aperta e speculativa (è andato a scuola e ne ha tratto profitto) che per affermare il potere di una classe delinquenziale e stragista, serve che un vecchio come Toto' Riina, muoia nella sua casa riverito e santificato!
"Lei dice che ho esagerato? No, le assicuro che ci sono tanti pretozzi che celebrano matrimoni, funerali e altre funzioni per questi mafiosi. Il simbolo! Caro, Watson, elementare!, il simbolo fa il potere e crea il pregiudizio apostolico. Le assicuro che questi quattro parrucconi lo sanno e sono stati ben imbeccati e pagati con quei 30 sporchi denari di sempre!".
Meditate gente, meditate!
Ugo Arioti
giovedì 1 giugno 2017
È morta cappuccio rosso
È morta
cappuccio rosso, la ragazza curda che
lottava contro Isis
La sua immagine è,
ormai, un icona della lotta dei popoli oppressi contro tutto e tutti.
Lei, eroina e santa, martire e leggenda, sarà sempre viva negli
incubi dei Signori del terrore. Noi vogliamo dedicare a lei questo
primo giorno di giugno del 2017. Gloria e valore ad una vera donna
che nemmeno la guerra ha disumanizzato.
Redazione SECEM
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