Lo strazio delle donne
soccorse dai soldati di Bagdad, la fuga disperata degli anziani
dall’oppressione dello Stato islamico, lo sgomento dei bambini davanti
alle bombe. E sullo sfondo i colori. Pochi, ma forti: il grigio degli
scheletri della case, il verde oliva delle mimetiche dei militari, il
buio dei vicoli in quella che una volta era la seconda città irachena e
che, caduta nelle mani del Califfato, si ritrova ora ridotta a labirinto
di macerie. Tutto questo (e altro) nel racconto di un coraggioso
fotografo italiano
di Giampaolo Cadalanu e Emanuele Satolli*, Fotografie di Emanuele Satolli, illustrazioni di Marta Signori
La tragedia di Mosul si sta compiendo: la
distruzione della moschea di Al Nuri è il punto di non ritorno nella
sciagurata storia dello Stato islamico. Gli ultimi dispacci d’agenzia
dicono che l’epilogo sarà quello previsto, con combattimenti selvaggi,
con massacro di civili, con fanatici votati al martirio. Queste ore
saranno le più difficili per i centomila civili ancora intrappolati
nelle zone controllate dall’Isis. Ma la fine del radicamento
territoriale dell’organizzazione è cominciata. La prossima tappa sarà
Raqqa, all’interno dei confini siriani, ma dopo la caduta del minareto
pendente sotto il quale Al Baghdadi aveva proclamato il Califfato, il
cammino della sua organizzazione è segnato. Sarà un cammino se possibile
più sanguinoso, con il ritorno alla vocazione terroristica e
l’abbandono – almeno per ora – delle velleità “statuali” a cui pochi
avevano creduto fino in fondo.
Lo dicono le scelte compiute dall’Isis nei
tre anni scarsi di controllo della capitale di Ninive. Secondo le
testimonianze che abbiamo raccolto, i lavori pubblici erano solo opere
di difesa: sbarramenti, tunnel, ponti interrotti, con l’unica eccezione
dell’impegno a rinnovare i locali del suq e l’arrivo di brutti
lampioncini leziosi sul viale di ingresso alla città. Non volevano un
futuro a Mosul, nessuno di loro: i foreign fighters che in queste ore
stanno sparando gli ultimi colpi, con in mente solo il miraggio del
paradiso islamico, o i fondamentalisti locali, capaci di rivolgere le
armi contro i compatrioti piuttosto che lasciarli andar via. Altro che
progettazione dello stato, altro che educazione dei cittadini, altro che
rimpianto della purezza di un Medioevo inventato: servivano
prigionieri, ostaggi, scudi umani. I sopravvissuti, quelli che da Mosul
sono fuggiti in tempo, torneranno a pianificare attentati, pronti a
usare ogni strumento per spargere il terrore anche in Occidente. Ma il
calvario della città irachena resterà nella Storia come monito, accanto
ad altri nomi evocativi di tragedie: Dresda, Coventry, Vukovar,
Sarajevo, e così via.
A sostenere la memoria saranno preziose le immagini come quelle di Emanuele Satolli che vedete in queste pagine. La sublimazione del dolore, raccontato con asciuttezza e partecipazione, anche a costo di rischi personali gravissimi. Non c’è solo Mosul in queste foto, c’è la sofferenza degli esseri umani di ogni tempo, destinata a restare nei nostri ricordi perché possiamo sperare che non ritorni mai.
A sostenere la memoria saranno preziose le immagini come quelle di Emanuele Satolli che vedete in queste pagine. La sublimazione del dolore, raccontato con asciuttezza e partecipazione, anche a costo di rischi personali gravissimi. Non c’è solo Mosul in queste foto, c’è la sofferenza degli esseri umani di ogni tempo, destinata a restare nei nostri ricordi perché possiamo sperare che non ritorni mai.
Nella mia ultima trasferta a Mosul sono
stato “embedded” con i soldati iracheni. E ho visto combattere casa per
casa. I militari avanzano lentamente, in squadre da 12-15 persone,
entrano nei cortili, affrontano un isolato alla volta. Ma le case sono
collegate l’una all’altra. E i miliziani dell’Isis hanno aperto dei
buchi nelle pareti per poter passare da una abitazione all’altra senza
essere visti. E, naturalmente, non si può sapere che cosa c’è oltre il
muro. Ho visto militari sparare contro una porta, prima di passare,
senza sapere chi ci fosse al di là. Ci siamo trovati a pochi metri dai
jihadisti, separati solo da una parete. Un’altra volta dal buco di un
muro è sbucata una famiglia intera che cercava di allontanarsi dagli
uomini dell’Isis. Ci hanno raccontato che il giorno prima un gruppo di
civili aveva provato a fuggire e i miliziani avevano aperto il fuoco,
uccidendo quattro persone.
Negli ultimi giorni a Mosul, per fare
fotografie dovevo avvicinarmi molto all’azione, e anche i soldati si
muovevano a distanze più ravvicinate. Si correvano rischi soprattutto
per vedere il minareto pendente, io l’ho ripreso qualche volta da
lontano, ma adesso hanno fatto saltare in aria l’intera moschea di Al
Nuri. Il minareto è distrutto. C’era un caldo feroce, una luce
fortissima che rendeva complicate le riprese, ma soprattutto sono
cambiate le condizioni dello scontro. Credo che anche questo sia fra le
ragioni della morte del reporter francese Stephan Villeneuve e del suo
fixer curdo Bakhtiyar Haddad, nei giorni scorsi. Sono finiti su una
mina, anche altri due giornalisti sono rimasti feriti. Credo che sia
successo perché ci si muove in spazi molto ristretti. Pensare che pochi
giorni prima eravamo andati avanti assieme, proprio con questi francesi,
nel quartiere di Zanjili, che ancora non è del tutto liberato.
(PER VEDERE E LEGGERE IL SERVIZIO INTERO SI RIMANDA ALLE PAGINE DI REPUBBLICA)
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