venerdì 27 ottobre 2017

Bertirotti: l’ecologia culturale per sopravvivere alla globalizzazione

Docente di Psicologia Generale presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Genova e Visiting Professor di Antropologia della mente presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, il prof. Alessandro Bertirotti è impegnato da anni sul tema della costruzione dell’etica nell’umanità. Intervistato da “Il Nodo di Gordio” ha illustrato i limiti e le prospettive della globalizzazione attraverso il concetto dell’ “ecologia culturale”.
Sono anni che il termine ecologia è entrato a far parte del lessico comune, almeno per quello che riguarda l’Occidente, ma vi sono diverse ottiche da cui affrontare la questione ambientale. A questo proposito, cos’è esattamente l’Ecologia Culturale?
L’Ecologia Culturale, ha in Julian Steward il suo teorizzatore che ci consente di capire la differenza di contenuti della disciplina rispetto all’ecologia umana e sociale. La differenza consiste nel fatto che Steward utilizza l’apparato epistemologico della disciplina per spiegare l’origine di tratti e modelli culturali particolari, che caratterizzano aree differenti, più che di dedurre principi generali applicabili a qualsiasi situazione culturale e ambientale. Ecco perché, nello stesso tempo, la disciplina si differenzia altresì dalle concezioni relativistiche e neoevoluzionistiche della storia della cultura, introducendol’importanza del ruolo dell’ambiente, inteso come variabile posta in relazione alla cultura.
Dunque, si può sostenere che questa disciplina introduce la cultura come elemento fondante il rapporto duale che si crea fra l’individuo e l’ambiente?
Sì, in effetti è proprio così, perché la disciplina cerca di accertare se gli adattamenti delle società umane ai loro ambienti richiedano modalità di comportamento particolari o se essi permettano una certa libertà per una gamma di possibili modelli comportamentali. Formulato in questo modo il problema,la teoria di questo approccio scientifico si differenzia anche dal “determinismo ambientale” e dalla teoria ad essa imparentata, ossia il “determinismo economico”. L’ecologia culturale focalizza la sua attenzione principalmente su quei tratti che l’analisi empirica mostra essere intimamente connessi con l’utilizzazione dell’ambiente secondo modalità culturalmente prescritte.
Ma da questo punto di vista, dovremmo avere allora anche un certa differenza di comportamenti umano nel caso si parli di cultura semplice oppure complessa?
E’ proprio così. I tratti ambientali rilevanti dipendono dalla cultura, e le culture più semplici hanno un rapporto più diretto con l’ambiente rispetto a quelle avanzate.In generale, il clima, la topografia, il suolo, l’idrografia, il manto vegetale e la fauna sono tratti decisivi, ma alcuni possono essere più importanti di altri.Per esempio, il distanziamento delle polle acquifere nel deserto può essere di importanza vitale per un popolo nomade di raccoglitori di semi, come il passaggio del pesce determineranno le abitudini delle tribù rivierasche e costiere. Ma il concetto cui occorre fare riferimento in un discorso riferito al rapporto Uomo-territorio è quello di regolarità, in questo caso dei ritmi ecologici. Da questa regolarità dipende la certezza del futuro che potrà caratterizzare un dato gruppo culturale.
Anche lo sfruttamento delle risorse prime diventa così un elemento culturalmente determinato?
Infatti, non è possibile, secondo la posizione teorica di Julian Steward, eliminare dall’analisi i modelli di comportamento per lo sfruttamento di un’area particolare, e per mezzo di una tecnologia particolare.
Alcuni modelli di sussistenza impongono limiti strettissimi al modo generale di vita della gente, mentre altri permettono una notevole libertà. Per esempio, la raccolta di prodotti vegetali selvatici viene svolta di solito dalle donne che lavorano da sole o in piccoli gruppi. Con la cooperazione non ci si guadagna nulla, anzi, in realtà le donne entrano in competizione l’una con l’altra. Le raccoglitrici di bacche, pertanto, tendono a suddividersi in piccoli gruppi a meno che le risorselocali siano molto abbondanti.
D’altro canto la caccia può essere un’impresa sia individuale che collettiva, e il carattere delle società di cacciatori è determinato tanto dai mezzi prescritti culturalmente per la caccia collettiva quanto dalla specie.Quando si impiegano accerchiamenti, incendio della sterpaglia, recinzioni, passaggi obbligati e altri metodi cooperativi, la preda, per singolo cacciatore, può essere molto maggiore di quella che un cacciatore isolato riuscirebbe ad accaparrarsi. Analogamente, se le circostanze lo permettono, la pesca può essere svolta da gruppi di uomini che si servono di sbarramenti, di chiuse, di trappole e di reti, ma anche da individui isolati. L’uso di queste tecniche più complesse e spesso di natura cooperativa dipende tuttavia non soltanto dalla storia culturale, cioè dalle invenzioni e dalla diffusione, che mette a disposizione questi metodi, bensì anche dall’ambiente, dalla sua flora e dalla sua fauna.
Dunque, secondo una prospettiva più vicina ai nostri giorni, anche la situazione economicasia macroscopica che (quelle) microscopica potrebbero essere meglio comprese alla luce di una Antropologia ecologicamente più orientata?
Direi di sì, senza ombra di dubbio, specialmente nell’era che stiamo vivendo, della mondializzazione, in cui il particolare, ossia il territorio all’interno del quale si vive la propria quotidianità, è sempre più in relazione costante, anche grazie alla tecnologia, al generale. Se, ad esempio, prestiamo attenzione a quello che sta accadendo in Europa, sia a livello economico che a livello di relazioni fra Stati membri, ci rendiamo conto che quello che manca è proprio la non considerazione del fattore umano, così come lo definiva il mio prof.re Gavino Musio. Considerare il concetto di appartenenza identico a quello di unione, così come è accaduto nel passaggio dalle monete nazionali ad una moneta unica, significa non aver compreso assolutamente che la percezione di una appartenenza non si fonda su scambi economici ma sulla presa di coscienza che i popoli sono culturalmente diversi tra di loro.
Per quanto riguarda l’Unione Europea non possiamo illuderci di poter realizzare, come è accaduto negli Stati Uniti d’America, gli Stati Uniti d’Europa.
Le circostanze sono del tutto diverse, antropologicamente parlando. Quando ben anche riuscissimo a realizzare una unione politica, economica e monetaria avremmo costruito una casa senza fondamenta e avremmo trascurato appunto l’importanza del fattore umano. Credere che una leadership possa costruirsi sulla forza economica, come accadeva in passato, prima della mondializzazione, significa in sostanza non capire che l’aspetto antropo-culturale supera di gran lunga ogni aspetto economico, specialmente nella costituzione di una unione di persone e non di monete.

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