Pierre Lamaitre: Poca Ispirazione, molta
sudorazione
(intervista con lo scrittore tratta dal
Corriere.it)
C’è una cosa che il mio lavoro di
scrittore mi ha insegnato: parlare di tutto, ma non del mio mestiere di
scrittore. Alcuni dei miei colleghi sono così appassionanti quando spiegano il
loro modo di lavorare, quando descrivono il loro processo creativo. Riescono
persino ad affascinarci evocando il luogo preferito, le proprie abitudini. A
sentire loro, il nostro è un mestiere circonfuso da una sorta di grazia, ma
quando ne parlo io l’interesse sembra scemare. Questo perché molti dei miei
colleghi parlano come degli artisti, mentre io parlo come un artigiano. Tra
loro e me, c’è la distanza che separa Michelangelo da un orologiaio. Hanno
ragione loro. Se si privano gli scrittori dei miti che ruotano intorno alla
loro attività, diventano persone perfettamente comuni. Machiavelli spiega che
in politica le apparenze sono molto più produttive della realtà. Per gli
scrittori è la stessa cosa: per far sognare, il nostro lavoro deve avere
qualcosa di assolutamente speciale.
Per i francesi,
ad esempio, uno scrittore è un individuo che soffre – strenuo retaggio del
secolo romantico. Quando dico che la mattina mi metto volentieri al lavoro
perché scrivere, per me, è innanzi tutto un esercizio di immenso piacere… sento
che deludo. Durante una conferenza, una lettrice mi ha chiesto se fossi
soddisfatto delle pagine del mio ultimo romanzo che mi avevano più impegnato.
Senza riflettere, ho risposto di sì, pensando al ritratto di Labourdin (un
imbecille che adotta strategie estremamente intelligenti per infilare la mano
sotto la gonna della sua segretaria). Non era la risposta giusta. La mia
lettrice ha capito benissimo che avevo adorato scrivere quella scena, che mi
ero divertito. E invece uno scrittore non è uno che si diverte. È uno che
soffre! Niente a che vedere con un tipo che gongola immaginando la tattica di
un personaggio sprovvisto della minima dote, se non per… be’, l’avete capito.
Un altro esempio:
l’ispirazione. Accidenti a lei! Quanto mi hanno ossessionato con questa storia!
Lasciate che vi spieghi: uno scrittore è un essere «ispirato». Nessuno sa
esattamente di cosa si tratti, una sorta di onda (immagino), qualcosa che cade
sullo scrittore come il soffio di Dio, o come il soffitto, non lo so, in ogni
caso è qualcosa di molto speciale, quasi indicibile, uno stato di grazia che
appartiene soltanto alla razza eccelsa degli scrittori. Quando vengo
interpellato in proposito, da buon discepolo di Machiavelli, dovrei assumere
un’aria assorta, la fronte tra il pollice e l’indice… Al contrario,
l’orologiaio che sono risponde che non crede assolutamente all’ispirazione, ma
molto alla sudorazione. Passo un sacco di tempo a correggere, riscrivere,
rifare, riprendere, è un’attività parecchio laboriosa. La prima stesura
dell’articolo che state leggendo mi ha richiesto meno di venti minuti, orologio
alla mano. Intanto sono già quattro ore che ci sto su e ancora non vedo la
fine. Ditemi voi come si fa a far sognare un lettore (soprattutto una lettrice)
con argomenti simili!
Altra cosa: il luogo
di lavoro. Uno scrittore può lavorare soltanto se tutte le condizioni
sussistono in pieno: il posto, la qualità del silenzio, il tavolo (in realtà
non ne so nulla, sto provando a immaginare…), la penna, la carta, la luce,
quello che vede, quello che non vede… Lo scrittore è un artista. In quanto
orologiaio, devo confessare che potrei lavorare in qualsiasi posto. Preferisco
quando non c’è troppo rumore (per la concentrazione) ma, in tutta onestà, se
sono preso da una situazione, posso scrivere in treno, in hotel, in un bistrot,
a casa vostra, a casa mia, non ha alcuna importanza. (È evidente che nel mio
studio è diverso: sono circondato da amuleti, portafortuna, talismani, dalle
foto della donna che amo, Pascaline, da una serie di cose senza le quali tutto
diventa difficile, sono terribilmente superstizioso, ma non lo confesserò mai,
soprattutto in un articolo per «la Lettura»).
Veniamo
ora al mio lavoro vero e proprio, che consiste nel raccontare delle storie.
Anche qui, non dico quello che dovrei: uno scrittore non «racconta delle
storie»! È qualcuno che, toccato dall’ispirazione, perviene, in condizioni molto speciali,
a vincere l’angoscia della pagina bianca, eccetera eccetera. Raymond Chandler
diceva che esistono due tipi di scrittori: quelli che scrivono storie e quelli
che scrivono testi. Io faccio parte della prima categoria.
Quando mi
chiedono qual è la mia professione, raramente rispondo «scrittore », tranne
alla dogana, alla polizia e alle belle donne. Di solito, dico che sono un
romanziere, perché il mio lavoro è cercare di interessare il lettore alla
storia che gli racconto. In cosa consiste? Ci vuole prima di tutto una buona
idea. Secondo me, uno scrittore è qualcuno che ha una buona idea all’anno. Sì,
lo so, non è cosa da poco, è un lavoro arduo. E poi richiede molta tecnica. Una
storia è un meccanismo di orologeria che comprende ingranaggi, molle, spirali,
cilindri (è così che si chiamano i dialoghi, le scene, le sorprese, i colpi di
scena, una progressione narrativa, e via dicendo) e tutto deve essere
perfettamente al suo posto affinché l’insieme «giri» con una fluidità tale da
fermare il tempo nella mente del lettore. Tutto ciò ci allontana dalla
questione dello «stile». Perché ho dimenticato di dirvi che uno scrittore deve
anche avere uno «stile». La migliore definizione che conosco in proposito è di
Simenon. Dice pressappoco così: «Quando voglio che Jean apra una porta, scrivo:
Jean aprì la porta». Credo che un buon romanziere sia qualcuno che fa molto
bene cose molto semplici. E non è per niente facile come si crede. Le frasi di
Simenon, per esempio, comprendono in media 13 parole. Per darvi un’idea, un lettore
può ricordare spontaneamente da 9 a 27 parole. Simenon rientra esattamente in
questo intervallo. Non ho certo la pretesa di indicizzare il talento sulla
semplicità. Una frase di Proust conta in media 43 parole, lui è uno scrittore
geniale, e un libro interamente composto da frasi elementari sarebbe
illeggibile. Ma penso che la questione dello stile sia spesso mal posta. Ciò
che fa la qualità di un romanzo è lo spessore dei personaggi, la profondità del
tema, la congruità delle situazioni. Lo stile esiste, naturalmente. Bastano
meno di due pagine per entrare, senza ombra di dubbio, in un romanzo di
Kawabata, di Baricco, di Zweig, di Duras. Si può non amarne lo stile, ma è
innegabile che ne esista uno. Ma a cosa servirebbe se non riuscisse a far
vivere la situazione dei personaggi? Sarebbe solo un elemento decorativo. A
volte dico che un romanziere è un «fabbricante di emozioni». Il mio lavoro è
fare in modo che il lettore sia inondato di emozioni, poco importa se positive
(l’amore, l’entusiasmo, il desiderio…) o negative (l’odio, l’angoscia…),
dipende da ciò che voglio dire, ma l’essenziale è non lasciare mai il lettore
indifferente.
Ed
eccoci ai personaggi. Il mio chiodo fisso. Dopo tutto il tempo e l’attenzione
che dedico ai miei personaggi, ho fama di essere molto cattivo con loro. Un po’
è vero. Un giorno sono stato invitato in una biblioteca per parlare del romanzo
poliziesco. Abbiamo cercato un argomento suscettibile di interessare il
pubblico, ho provato ad attirare l’attenzione proponendo: «Scrivere un giallo.
Trucchi e accortezze». Avevo quattro libri pubblicati e cinque premi: appena
hai un minimo di successo in quello che fai, ti credi subito più acuto degli
altri. Ecco il mio primo consiglio (lo so, i consigli ridicolizzano sempre chi
li dà, ma mi ero stupidamente impegnato a darne): non risparmiate i vostri
personaggi. Perché, vedete, quando uno costruisce un personaggio,
lo cura, lo coccola, finisce che poi ci si affeziona e non vuole che gli
succedano troppe disgrazie. È una trappola terribile. Nel mio ultimo romanzo,
se non faccio cadere una granata su Quota 113, Albert non viene sepolto vivo,
Édouard non diventa uno sfregiato in seguito a una scheggia grossa quanto un
piatto fondo… e io mi ritrovo senza una storia. Mi direte che avrei potuto ferirlo
più leggermente. Ma in tal caso anche la mia storia sarebbe diventata più
leggera. Fin troppo.
Come
ha osservato Jean Cocteau, «affinché gli dèi si divertano, è necessario che gli
eroi cadano dall’alto». Perché, alla fine, il più crudele è sempre il lettore.
Altrimenti, come spiegare le vendite di tanti romanzi polizieschi? In Francia
un romanzo su quattro è un giallo. E cosa chiede il lettore di gialli? Un
delitto (meglio se più di uno), spargimento di sangue, dolore, morte… In fondo,
nessuno me lo toglie dalla testa: la cosa più importante, nel lavoro del
romanziere, è il lettore.
(traduzione di Stefania Ricciardi)
(traduzione di Stefania Ricciardi)
Pierre Lemaitre
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