Per trascorrere un brandello di tempo all'insegna della sana ironia ti aspetto all'Alter Ego di Caltavuturo lunedì 29 dicembre ore 18,30 in compagnia di Pippo, Gandolfo, Giuditta, Maria Rita, Luca ed Oreste A cura di CESFA AGORA'
La scuola di ecologia Culturale è un luogo di scambio di esperienze e di costruzione di tecniche democratiche e pacifiche per lo sviluppo sostenibile delle società umane e si muove per realizzare iniziative (prevalentemente in partnership) per l’educazione dei giovani (la scuola del territorio e uno dei partner naturali della scuola) e lo sviluppo di un capitale umano di eccellenza che dovrà essere protagonista dello sviluppo culturale ed economico delle società e dei popoli Euro Mediterranei.
venerdì 26 dicembre 2014
martedì 23 dicembre 2014
Liberté, Égalité, Fraternité e buon Natale 2014
Liberté, Égalité, Fraternité
Questo Natale riporta ai nostri occhi stanchi di violenza gratuita e di iniquità le parole d'ordine di tante generazioni che ci hanno preceduto e di tante che verranno,
Liberté, Égalité, Fraternité
Liberté, Égalité, Fraternité
Liberté, Égalité, Fraternité
Liberté, Égalité, Fraternité
Non saremo mai liberi se non saremo tutti, veramente, uguali e, soprattutto se non fraternizziamo. Lo spirito dell'ECOLOGIA CULTURALE è racchiuso in queste tre bellissime parole che dobbiamo far diventare reali per tutti i popoli del Mondo, questa è GLOBALIZZAZIONE!
Liberté, Égalité, Fraternité
Liberté, Égalité, Fraternité
Buon Natale a tutti noi, Ugo, Daniela, Manila e tutta la redazione della Secem
Liberté, Égalité, Fraternité!
lunedì 22 dicembre 2014
Ciao fratello Joe
Parafrasando il Manzoni che dedica una poesia a Napoleone morto a Sant'Elena, potrei dire di Joè, del fratello che tutti quelli della mia generazione, rockettari o no, hanno portato dentro come un demone o un grillo parlante, "tre volte nella polvere tre volte sull'altar". Una vita spericolata senza mettere mai il piede sul freno. Un grande musicista che ha trascritto in musica il pensiero e le angoscie di una generazione. Sciorineranno le biografie per dar peso alle parole, ma noi, fratello Joe, vogliamo ricordarti come uno di noi e continuare a vivere quel tuo Rok rauco, duro, vero. Ciao Joe.
Ugo Arioti
sabato 20 dicembre 2014
La Storia al femminile - Elisabetta Gonzaga duchessa di Urbino di Ugo Arioti
Bellezza e carattere - Elisabetta
Gonzaga duchessa d’Urbino (1471-1526)
La storia al femminile mi ha sempre attratto. Elisabetta
Gonzaga, pulchra essentiam nobilitate, nel febbraio del 1488, dopo un viaggio
di ben 9 giorni e ricco di peripezie, mancante di confort come noi li possiamo
intendere oggi per Signore di un certo Rango, sposa in Urbino, ahi lei,
Guidubaldo da Montefeltro, affettuosissimo e splendido nei suoi confronti, ma
impotente. Tra vari rinvii e peripezie Elisabetta vive la sua vita di vedova
bianca incompresa e mal sopportata dai nuovi parenti urbinati fino a chè, nel giugno 1489, il fratello le mandò
un certo "Gaspare siciliano cantore", per distrarla: la musica era
tra le arti predilette di Elisabetta, e lei stessa cantava e suonava. Così la
Sicilia prese l’anima della duchessa d’Urbino, ma nulla potè contro la sua fede
di sposa! Stette sempre accanto, anche nei momenti più disperati, al suo Guidubaldo, pur mantenendo la sua fiera
indipendenza! Poeti e musicisti l’amaron,o come lei desiderava e si compiaceva. Le
malattie la fiaccarono, ma non la piegarono, mai. Il 16 genn. 1502 Elisabetta
accolse a Gubbio il corteo nuziale di Lucrezia Borgia, la donna dei
veleni! Con il Borgia Papa era andata a Roma per intercedere per la liberazione
di Guidubaldo, prigioniero degli Orsini. Elisabetta,
soffriva tremendamente il caldo, così nel 1502 con l’amica Isabella cercarono
sollievo nel palazzo di Porto Mantovano e fu là che le raggiunse, pochi giorni
dopo, Guidubaldo, sorpreso a tradimento dal Valentino e costretto a fuggire da
Urbino. Il papa e lo stesso Valentino avanzarono allora l'idea di sciogliere il
matrimonio, che si sapeva non consumato, tra Elisabetta e Guidubaldo, di far
prete il duca e di far risposare la duchessa.
Ma Elisabetta, con forza, oppose un netto rifiuto e nel
settembre, i duchi d'Urbino, scapparono da Mantova e ripararono a Venezia. Elisabetta aveva deciso
di seguire la sorte del marito anche "se
dovessino morire a uno hospitale". I duchi d’Urbino, adottarono un
figlio e nel febbraio 1505 venne stipulato il
contratto matrimoniale tra il figlio adottivo, Francesco Maria Della Rovere, ed
Eleonora Gonzaga. Guidubaldo, capitano d’arme per lo Stato Pontificio
post Borgia è spesso fuori Urbino ed Elisabetta tiene il governo della città
dimostrando grandi doti di saggezza e polso. Nella primavera del 1508
Guidubaldo si ammalò. I medici decisero di portarlo a Fossombrone, ma, appena
in cammino, le sue condizioni si aggravarono. Elisabetta avrebbe voluto riportarlo
indietro, ma il duca insistette per proseguire. Il papa, informato dalla
duchessa, inviò il suo medico Arcangelo da Siena e Federico Fregoso, ma
arrivarono tardi: l'11 aprile Guidubaldo morì. Pietro Bembo descrive Elisabetta provatissima e prostrata e il Capilupi, a Urbino con Giovanni Gonzaga per i
funerali che si svolsero il 2 maggio, riferì del contegno esemplare nel dolore
di Elisabetta e della sua consolazione nel vedere il nuovo duca starle accanto
"cum reverentia da figliolo et da servitore". Nell'ottobre
1525 Elisabetta si ammalò e il 31 gennaio del 1526, mentre Francesco Maria ed
Eleonora si trovavano nel Veronese, Elisabetta morì a Urbino.
I
contemporanei la dissero unanimemente bella: il ritratto di lei conservato agli
Uffizi mostra una donna dai tratti regolari, dalla fronte altissima su
cui risaltava quella "esse" motivo di discussione nel Cortegiano e con un'impronta di gravità e mitezza insieme.
Ugo Arioti
di Sant’Ermete
giovedì 18 dicembre 2014
Virna ci mancherai
Ore 12 e 30 del 18 dicembre del 2014 il figlio Corrado dell’attrice da la
notizia della morte di Virna Lisi. Ha annunciato
che la morte è avvenuta nel sonno e che la nota attrice aveva scoperto di avere
un male incurabile solo un mese fa.
È morta Virna Lisi, l’attrice italiana
lascia un vuoto incolmabile nel cinema italiano. Aveva 78 anni ed era
attivissima ancora oggi, amata dal grande pubblico, Virna Lisi è l’unica
attrice che condivide con Margherita Buy il record di premi vinti ai “Nastri
d’Argento”, sei in tutto. In carriera ha anche vinto un “Prix d’interprétation
féminine” a Cannes, due David di Donatello per le interpretazione e due per la
carriera, di cui uno ricevuto nel 2009. Una
notizia che ha sconvolto tutti, dato che l’attrice era ancora nel
pieno delle sue attività. Nell’aprile 2014, dopo 12 anni di assenza, è tornata
sul set per “Latin lover” ultimo film della Comencini. Era impegnata in nuovi
progetti televisivi per Mediaset, come “È la mia famiglia”, le cui riprese
erano iniziate in autunno, mentre le riprese della quarta stagione della
serie “Il bello delle donne” si sarebbero dovute girare nei primi mesi del
2015.
Vorrei aggiungere tante cose e dire di lei, di ogni suo film che ho visto anche più volte, ma la cosa che ricordo di lei, principalmente, è la sua serietà professionale, è come si calava nei personaggi che interpretava e come li faceva vivere dlla sua luce, una luce naturale come la vita.
Mancherai a tutti noi, Virna, tua affezionata spettatrice e ammiratrice Daniela La Brocca
domenica 14 dicembre 2014
ESTETICA COME FILOSOFIA DEL BELLO (argomento 2014)
ESTETICA COME FILOSOFIA DEL BELLO
Fin dalla Antica Grecia “il bello” era considerato come punto focale della
riflessione; l’arduo non era stabilire ciò che era bello e ciò che non lo era,
ma, come diceva Platone stesso, era definire “cosa è il bello”.
Per Platone la bellezza doveva essere atemporale, perfetta e per questo era
parte costitutiva delle Idee: l’origine di tutte le cose.
Però anche la bellezza platonica aveva delle limitazioni: “Nulla è bello
senza proporzione”. Per comprendere questa affermazione è necessario
analizzare il contesto storico e culturale nel quale il nostro filosofo era
immerso: la perfezione, l’armonicità delle forme erano lo stereotipo umano.
Nessuna manifestazione appartenente alla Grecia Antica mancava di
proporzione, tutto era sviluppato per mostrare un ideale di bellezza che
imperò per molti altri secoli in Europa, un canone di simmetria ed
estensione, di ordine e limite. Ciò che non rientrava in questa categoria non
era considerato bello.
Questo pensiero fu ereditato e ripreso dal Cristianesimo (con Sant’Agostino
e Tommaso d’Aquino) nel quale la bellezza doveva essere conformata alla
misura e alla forma, all’ordine e alla proporzione. Successivamente con il
Rinascimento questa ideologia si è fatta presente negli aspetti classici
caratterizzati dalla mutua integrazione delle parti.
Questo modello di bellezza perdurò tuttavia fino al XVIII secolo: si
continuava a considerare il bello come qualità della cosa. In tempi moderni,
invece, si parla “della bellezza” in maniera più soggettiva; Hume afferma
che la bellezza esiste solo nella mente di chi la osserva, e finalmente, l’arte
visiva viene considera come prodotto della coscienza umana o nel senso
dell’Idealismo Trascendentale Kantiano o nella psicologia dell’Einfuhlung.
Questo pensiero razionalista non è più tanto centrato sull’oggetto ma
dipende dal soggetto, saremo noi quindi a decidere ciò che è bello e giusto:
grazie a questo la mentalità occidentale, negli ultimi due secoli, si è aperta
a nuove forme di bellezza, di Arte.
E’ evidente che nel racconto storico espresso poco sopra, non sono state
presentate culture che non appartengono all’Europa, come le Asiatiche, le
Africane e le Americane che, invece, realizzarono manifestazioni artistiche
importanti. In questa influenza classicista non rientrano quelle opere
grottesche, tragiche, comiche, senza proporzione e innocenza. Per tanto
l’arte classica chiude il mondo solo a quelle cose prive di errori.
E con questo mi preparo a formulare la domanda: l’arte preispanica
realizzata in forma asimmetrica non può essere considerata una forma
artistica e per questo bella? Per caso le maschere Africane non hanno
dignità di essere americane perché fanno parte di una bellezza mistica e
poco comune? E’ curioso come la storia dell’arte consideri sempre
l’Europa e lasci invece a margine il resto del mondo!
Sono sicura che nessuno al giorno d’oggi negherebbe che il cubismo è
bello ed estetico, però, se seguiamo alla lettera l’ideologia di Platone, il
nostro affermato cubismo sarebbe poco serio e bello in quanto non è
proporzionato.
E’ per questo che, in conclusione, posso dire che non solo dobbiamo
consideriamo un singolo tipo di bellezza, in quanto ci sono mille modi in
cui possiamo intenderla, tutti diversi fra loro, ma dobbiamo aprire il nostro
pensiero ad altre manifestazioni, il che ci permetterà di vedere il mondo in
nuove prospettive e forse ci aiuterà ad intendere che l’essere umano è una
gamma diversa di pensiero e che non tutti siamo uguali, per tanto il bello
non è unico, ma è quanto di più soggettivo possa esistere.
Pamela Zúñiga
pamsona@hotmail.com
Con Pamela Zuniga cominciamo un percorso sull'estetica come filosofia del bello. Questo, forse in contrappunto oppure in connessione diretta mi fa tornare in mente le madonne peccatrici di Vargas, si perché l'estetica nasce dal difetto e dall'errore che va aggiustato, ergo il bello esteticamente parlando, viaggia insieme al peccato, se non c'è peccato non c'è bellezza!
Ugo Arioti
Fin dalla Antica Grecia “il bello” era considerato come punto focale della
riflessione; l’arduo non era stabilire ciò che era bello e ciò che non lo era,
ma, come diceva Platone stesso, era definire “cosa è il bello”.
Per Platone la bellezza doveva essere atemporale, perfetta e per questo era
parte costitutiva delle Idee: l’origine di tutte le cose.
Però anche la bellezza platonica aveva delle limitazioni: “Nulla è bello
senza proporzione”. Per comprendere questa affermazione è necessario
analizzare il contesto storico e culturale nel quale il nostro filosofo era
immerso: la perfezione, l’armonicità delle forme erano lo stereotipo umano.
Nessuna manifestazione appartenente alla Grecia Antica mancava di
proporzione, tutto era sviluppato per mostrare un ideale di bellezza che
imperò per molti altri secoli in Europa, un canone di simmetria ed
estensione, di ordine e limite. Ciò che non rientrava in questa categoria non
era considerato bello.
Questo pensiero fu ereditato e ripreso dal Cristianesimo (con Sant’Agostino
e Tommaso d’Aquino) nel quale la bellezza doveva essere conformata alla
misura e alla forma, all’ordine e alla proporzione. Successivamente con il
Rinascimento questa ideologia si è fatta presente negli aspetti classici
caratterizzati dalla mutua integrazione delle parti.
Questo modello di bellezza perdurò tuttavia fino al XVIII secolo: si
continuava a considerare il bello come qualità della cosa. In tempi moderni,
invece, si parla “della bellezza” in maniera più soggettiva; Hume afferma
che la bellezza esiste solo nella mente di chi la osserva, e finalmente, l’arte
visiva viene considera come prodotto della coscienza umana o nel senso
dell’Idealismo Trascendentale Kantiano o nella psicologia dell’Einfuhlung.
Questo pensiero razionalista non è più tanto centrato sull’oggetto ma
dipende dal soggetto, saremo noi quindi a decidere ciò che è bello e giusto:
grazie a questo la mentalità occidentale, negli ultimi due secoli, si è aperta
a nuove forme di bellezza, di Arte.
E’ evidente che nel racconto storico espresso poco sopra, non sono state
presentate culture che non appartengono all’Europa, come le Asiatiche, le
Africane e le Americane che, invece, realizzarono manifestazioni artistiche
importanti. In questa influenza classicista non rientrano quelle opere
grottesche, tragiche, comiche, senza proporzione e innocenza. Per tanto
l’arte classica chiude il mondo solo a quelle cose prive di errori.
E con questo mi preparo a formulare la domanda: l’arte preispanica
realizzata in forma asimmetrica non può essere considerata una forma
artistica e per questo bella? Per caso le maschere Africane non hanno
dignità di essere americane perché fanno parte di una bellezza mistica e
poco comune? E’ curioso come la storia dell’arte consideri sempre
l’Europa e lasci invece a margine il resto del mondo!
Sono sicura che nessuno al giorno d’oggi negherebbe che il cubismo è
bello ed estetico, però, se seguiamo alla lettera l’ideologia di Platone, il
nostro affermato cubismo sarebbe poco serio e bello in quanto non è
proporzionato.
E’ per questo che, in conclusione, posso dire che non solo dobbiamo
consideriamo un singolo tipo di bellezza, in quanto ci sono mille modi in
cui possiamo intenderla, tutti diversi fra loro, ma dobbiamo aprire il nostro
pensiero ad altre manifestazioni, il che ci permetterà di vedere il mondo in
nuove prospettive e forse ci aiuterà ad intendere che l’essere umano è una
gamma diversa di pensiero e che non tutti siamo uguali, per tanto il bello
non è unico, ma è quanto di più soggettivo possa esistere.
Pamela Zúñiga
pamsona@hotmail.com
giovedì 11 dicembre 2014
San Benedetto il Moro - fede e tradizione
San Benedetto il Moro, l'eremita dalla pelle scura: una storia di fede lunga quasi 500 anni
di Rosaria Baiamonte
Fede mista a tradizione. Una storia lunga dal 1526 ma attuale fino ad oggi. E' quella di San Benedetto il Moro nato nella provincia di Messina ma riconosciuto copatrono di Palermo nel 1713, insieme a Santa Rosalia. San Benedetto il Moro arriva da San Fratello, ed è figlio di Diana Larcari e Cristoforo Manassari. Entrambi sono cristiani e discendenti da schiavi negri portati dall'Africa. Per le sue virtù, Benedetto fu da sempre chiamato il "santo moro". Impegnato nella custodia del gregge del suo padrone, ben presto scopre la sua vocazione e a 21 anni entra nella comunità degli Eremiti fondata nei pressi del suo paese natale da Girolamo Lanza, che viveva sotto la regola di san Francesco.
Fu quando gli eremiti si trasferirono su Monte Pellegrino a Palermo, che Benedetto fece il suo ingresso in città diventandone appunto copatrono. Aggregatosi ai Frati Minori, entra nel convento di Santa Maria di Gesù, fondato dal beato Matteo di Agrigento dopo aver trascorso tre anni nel convento di Sant'Anna di Giuliana. Tornato a Palermo, presta servizio come cuoco. Famoso per la sua umiltà, dotato di tanto spirito di sacrificio e di soprannaturale carità gli furono attribuiti anche dei miracoli. Una vita di fede assoluta quella di Benedetto che nel 1578 fu nominato superiore del convento. Benedetto diventa dunque maestro dei novizi tanto da far ritenere che avesse il dono della scrutazione dei cuori. Gli sono state riconosciute anche delle guarigioni, fino al giorno della sua morte il 4 aprile 1589. Ancora oggi, San Benedetto il Moro è conosciuto non solo in Italia ma anche in Spagna, nel resto dell'Europa e anche nell'America del Sud.
lunedì 8 dicembre 2014
Alla sorgente dei modi di dire del popolo palermitano
Alla sorgente dei modi di dire del
popolo palermitano di Ugo Arioti
In questi giorni di festa, dedicati alla novena della Madonna Immacolata (la
Sicilia e terra Mariana), il popolo siciliano tira fuori il suo animo ospitale
e fatalista, accogliente con gli amici e i più deboli e indifesi, aspro e duro
con i vigliacchi e l’arroganza dei potenti! La festa fa riemergere l’antica
fierezza della mia Gente che non ha mai avuto timore al cospetto con chi tiene
lo scettro del Comando. Questo mi fa tornare in mente i sonetti e i versi
scanzonati di un poeta palermitano del seicento entrato nell’immaginario del
popolo siciliano col nome di Petru Fudduni. Petru, che di mestiere era un “taglia
pietre”, mestiere piuttosto duro e povero, aveva un cuore e un anima sensibile,
soprattutto per la miseria umana, le sue
poesie sono perle di ritmo e sentimenti. Petru, però, è più noto come
improvvisatore di rime fulminanti, ragion per cui molti lo ricordano per le sfide
che lanciava, ad ogni piè sospinto, a chi lo interrogava o a chi voleva
elergirgli una elemosina, a tal proposito notissima è la risposta che diede al
servo della Principessa di Trabia, sua fans segreta, che vedendolo passare
sotto il suo balcone con una nuvola di capelli, spettinato e in disordine, gli
volle mandare dei quattrini perché potesse andare da un barbiere e rimettersi
in ordine, era un uomo rude ma fascinoso il nostro Fudduni, ma sentite che
rispose ripassando sotto il balcone della Principessa: “ Curriti tutti mastri
pittinari/ curriti tutti pi pittinari a mia/ e s’un aviti corna di sirrari/
sirraticcilli o Principi i Trabia!” (Correte maestri pettinatori, correte tutti
per pettinare a me/ e se non trovate corna (i pettini allora erano fatti di
corna) da segare/ segate quelle del Principe di Trabia (consorte anziano e
decrepito della Principessa). Certo questo suo modo di essere gli procurò molti
guai, diciamo così, con la giustizia del tempo e queste risposte a tamburo
battente che lasciano di ghiaccio l'ascoltatore sono scolpite nella memoria
tramandata del popolo siciliano, sono come una password che da accesso al
database Panormus! Ma, il nostro, che le cantava ai Nobili e ai Potenti dell’epoca
era anche, ante litteram, un studioso dei mali sociali e nei suoi componimenti
trattava spesso temi come la miseria e le difficoltà del popolino, dei
lavoratori e dei poveri. Secondo me avrebbe accolto con rime gioiose l’attuale
nostro papa! Le sue poesie e dispute a suon di versi sono talmente radicati
nell’animo palermitano da poterli chiamare “proverbi popolari”, modi di dire!
Quindi, parlando di domande e risposte letali, eccovi una piccola vetrina
di “delizie”!
DUMANNA
(Domanda
del figlio “studiato”!):
Tu si' lu Petru di tutti li petri,
ca fai li petri longhi, tunni e quatri;
chi nni fai di li grana di sti petri,
ca si' arriduttu comu spinna-quatri (spinna-quatri=morto di fame)?
RISPOSTA DI PETRU:
Eu su ' lu Petru di tutti li petri,
e fazzu petri longhi, tunni e quatri;
li dinari chi vuscu di li petri
mi li manciù cu dda troia di to matri.
Tu si' lu Petru di tutti li petri,
ca fai li petri longhi, tunni e quatri;
chi nni fai di li grana di sti petri,
ca si' arriduttu comu spinna-quatri (spinna-quatri=morto di fame)?
RISPOSTA DI PETRU:
Eu su ' lu Petru di tutti li petri,
e fazzu petri longhi, tunni e quatri;
li dinari chi vuscu di li petri
mi li manciù cu dda troia di to matri.
DUMANNA (di uno che si sentiva
scaltro e invece era un fannullone (passuluni)!):
La sapienza di Petru Fudduni
canusci un porcu mezzu li 'addini (‘addini=galline)?
RISPOSTA:
La sapienza di Petru Fudduni
canusci un porcu mezzu li 'addini;
puru canusci a tia, gran passaluni,
ca nun ti sai dari un pezzu di pani.
La sapienza di Petru Fudduni
canusci un porcu mezzu li 'addini (‘addini=galline)?
RISPOSTA:
La sapienza di Petru Fudduni
canusci un porcu mezzu li 'addini;
puru canusci a tia, gran passaluni,
ca nun ti sai dari un pezzu di pani.
Quindi, parlando di domande e risposte,mi piace infilare
quella che Petru diede al sommo dotto dell’epoca: il Dotto Tripi, che per sua
disgrazia, firma anche la domanda!
NNIMINO ( Indovinello)
Rispunni: cui filau la prima stuppa?
Cui fu ca maniau la prima zappa?
Cui fu ca sprimintau la prima suppa?
E chi cos'è ca cu lu tempu arrappa?
Cui fici la galea senza puppa?
Lu pisci ch'intra di la riti 'ncappa?
Quannu, pueta, mi sciogghi sti gruppa,
Ti poi chiamari pueta di cappa.
Lu dottu di Tripi
Rispunni: cui filau la prima stuppa?
Cui fu ca maniau la prima zappa?
Cui fu ca sprimintau la prima suppa?
E chi cos'è ca cu lu tempu arrappa?
Cui fici la galea senza puppa?
Lu pisci ch'intra di la riti 'ncappa?
Quannu, pueta, mi sciogghi sti gruppa,
Ti poi chiamari pueta di cappa.
Lu dottu di Tripi
Èva fu ca filau la prima
stuppa,
Adamu maniau la prima zappa,
Noè la sprimintau la prima suppa,
E l'omu è chiddu ca 'nvicchiannu arrappa;
La donna è la galea senza puppa,
L'omu è lu pisci chi 'ntra riti 'ncappa;
Su' pueta, e su' scioti li to' gruppa,
lu già sugnu pueta, e tu sì rappa.
Petru Fudduni
Adamu maniau la prima zappa,
Noè la sprimintau la prima suppa,
E l'omu è chiddu ca 'nvicchiannu arrappa;
La donna è la galea senza puppa,
L'omu è lu pisci chi 'ntra riti 'ncappa;
Su' pueta, e su' scioti li to' gruppa,
lu già sugnu pueta, e tu sì rappa.
Petru Fudduni
Questo indovinello, trabocchetto, lo traduco per
miglior comprensione!
INDOVINELLO
Rispondi: chi filò la prima
lana?
chi maneggiò la prima zappa?
chi fu che sperimentò la prima zuppa?
e qual'è la cosa che il tempo raggrinza?
Chi fece una galea senza poppa?
qual'è il pesce che dentro la rete incappa?
Quando poeta, mi sciogli questi nodi,
ti puoi chiamare poeta di cappa.
(firmato) Il dotto di Tripi
chi maneggiò la prima zappa?
chi fu che sperimentò la prima zuppa?
e qual'è la cosa che il tempo raggrinza?
Chi fece una galea senza poppa?
qual'è il pesce che dentro la rete incappa?
Quando poeta, mi sciogli questi nodi,
ti puoi chiamare poeta di cappa.
(firmato) Il dotto di Tripi
RISPOSTA
DI PETRU FUDDUNI al Dotto di Tripi:
Eva fu che filò la prima
lana,
Adamo maneggiò la prima zappa,
Noè sperimento la prima zuppa,
e l'uomo è colui che invecchiando raggrinzisce:
La donna è la galea senza poppa,
l'uomo è il pesce che nella rete incappa;
Io già sono poeta e tu uomo di nessun conto,
firmato:Petru Fudduni
Adamo maneggiò la prima zappa,
Noè sperimento la prima zuppa,
e l'uomo è colui che invecchiando raggrinzisce:
La donna è la galea senza poppa,
l'uomo è il pesce che nella rete incappa;
Io già sono poeta e tu uomo di nessun conto,
firmato:Petru Fudduni
La novena dell'immacolata
Dedichiamo questa preghiera e benedizione della Madre di Gesù a tutti gli uomini di buona volontà della Terra, nessuno escluso, e la dedichiamo al nostro amato papa Francesco che, come il santo di Assisi, ama la Gente, il suo immenso gregge e non discrimina, ma cerca di aiutare chi è più in difficoltà. Che Dio sia con lui e con tutti noi oggi alla partenza della novena dell'immacolata ...
Buona madonna a tutti
da Ugo e Daniela
CHISTA E' A NUTTATA R'AMMACULATEDDA
CA OGNI ANNU VA FURRIANNU VANEDDA PI VANEDDA
TUTTA LA GENTI RU PAISI
L'ASPETTANU R'AVANTI LA PORTA CU GRANNI ATTISI
PI MANTENIRI LI PRUMISI
C'HANNO FATTU NTA STU MISI....
RA MEZZANOTTI ALLI SETTI RU MATINU
AMMACULATA E' SEMPRI N'CAMMINU.
LA BEDDA MATRI ASSICURA A TUTTI LI SO FIGGHI
CU LU SANTU RU NOMI RU PATRI, RU FIGGHIU
E RU SPIRITU SANTU.
CA OGNI ANNU VA FURRIANNU VANEDDA PI VANEDDA
TUTTA LA GENTI RU PAISI
L'ASPETTANU R'AVANTI LA PORTA CU GRANNI ATTISI
PI MANTENIRI LI PRUMISI
C'HANNO FATTU NTA STU MISI....
RA MEZZANOTTI ALLI SETTI RU MATINU
AMMACULATA E' SEMPRI N'CAMMINU.
LA BEDDA MATRI ASSICURA A TUTTI LI SO FIGGHI
CU LU SANTU RU NOMI RU PATRI, RU FIGGHIU
E RU SPIRITU SANTU.
sabato 6 dicembre 2014
Mafia is a pile of shit
LA MAFIA E' UNA MONTAGNA DI MERDA HANNO SCRITTO GLI STUDENTI PALERMITANI NELLE LAVAGNE
Noi, che amiamo la Libertà e la Giustizia e vogliamo un Mondo in cui ognuno è quello che dice di essere e fa quello in cui crede con dignità, nella legalità, seriamente e alla luce del sole; troppo spesso, purtroppo, nella nostra bellissima Sicilia, la parola imprenditore in si deve leggere "copertura, fiancheggiamento, pizzo, malaffare, mafioso".
Non temiamo i criminali, ma il silenzio degli onesti. ( MLK)
mafia est un tas de merde,
mafia es un montón de mierda
المافيا هو كومة من القرف
redazione secem
martedì 2 dicembre 2014
EDITORIALE di DICEMBRE, con gli auguri di un Mondo nuovo di Pace e Giustizia per tutti
Dicembre 2014, già sento dire a
molti che questo è stato un anno di transizione. Passaggio? Da chi e da che
cosa? Tutti gli anni, tutto il tempo che trascorriamo è un tempo di
cambiamento. Lo è, principalmente, perchè noi diventiamo adulti e poi invecchiamo,
mentre, il caleidoscopio del Mondo ci catapulta ogni giorno in grandi e piccoli
eventi che forgiano le nostre idee. Anche le idee invecchiano. E in questo
continuo divenire siamo testimoni del nostro tempo. Un tempo di cultura debole
e di comunicazione velocissima. Lo chiamavamo il futuro, da ragazzi pieni di
speranze, mentre oggi lo osserviamo con sospetto e, talvolta, sgomento e paura.
Si chiama: l’insostenibile leggerezza dell’essere! Si, proprio quella che ci ha
raccontato il filosofo Milan Kundera. Sarà perché dicembre è l’ultimo mese dell’anno
e si presta alle osservazioni e ai consuntivi, ma non vedo, intorno, la solita
gioia che coinvolge tutta la gente nel Natale e nel San Silvestro. Guerre assurde
e ingiuste, violenza, corruzione, arroganza, diseguaglianza, perdita di valori,
povertà, paura, disorientamento, sfiducia, delinquenza, hanno sostituito la
pace e la felicità delle feste di Natale, l’albero, il presepe. Il nostro Paese
è entrato in un tunnel di malcostume e declino democratico e sociale pesante. Le istituzioni non sono più elette, ma
autoproclamate e autodeterminate. Abbiamo un Presidente e un Governo che non
sono ne legittimi, ne, tantomeno, eletti dal popolo sovrano. Ergo, non parliamo
di Democrazia, perché non si capisce più cosa sia. La Politica, la nobile missione
sociale di promozione di una società, come lo vedeva Pericle nell’Atene del
Mondo Classico, oggi è un mestiere redditizio, un industria di privilegi. L’istituto
del referendum popolare che ha abrogato molte leggi inique, mortificato da
nuove leggi che cambiano nome ma, nella sostanza, ripropongono aggravandole e appesantendole
le Leggi abrogate dal popolo. L’Italia, con tutti i suoi difetti di crescita,
era una democrazia oggi è una oligarchia dittatoriale, nella più ottimistica
delle visioni. La gente che partecipava e che dava il suo voto, sempre e
comunque, oggi non va più al seggio perché non ha fiducia in questa classe
politica di “cialtroni” e “millantatori”. Unica luce in questo periodo buio,
per noi credenti e anche per chi non lo è, papa Francesco, che Dio lo protegga
dai Corvi del Vaticano e dagli sciacalli dello IOR. Mi voglio augurare e voglio
augurare a tutti noi che la novena dell’Immacolata ci porti dentro il Presepio
vivente un po’ di gioia e di serenità. Nonostante tutto, sono e sarò sempre un
inguaribile ottimista e penso che la trasformazione è sempre in atto e speriamo
verso un Mondo eco culturale e di Pace: Buon Natale dalla scuola di ecologia
culturale euromediterranea!
Ugo Arioti e Daniela La Brocca
lunedì 1 dicembre 2014
Beccaria, Cesare - Dei delitti e delle pene
Vogliamo prepararci e prepararvi all'argomento del 2015 che , parafrasando il testo del filosofo Cesare Beccaria, potremmo chiamare l'etica della pena. Redazione Secem
La pena di morte è considerata inutile, perché non è l’intensità della pena che fa effetto maggiormente sull’animo della gente , ma piuttosto la sua estensione.
Infatti secondo Beccaria è più terribile l’esempio di un uomo privato della libertà e sottoposto ad una eterna schiavitù, piuttosto che la privazione della vita; e pensa che questa condizione di schiavitù perpetua possa sostituire sufficientemente la pena di morte, anzi, addirittura che la superi.
Dice poi che la pena di morte non è utile per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Inoltre sembra assurdo che siano proprio le leggi, che puniscono l’omicidio, a commetterne uno, ordinando un assassinio pubblico.
E’ in questo periodo storico infatti che la civiltà europea matura una definitiva presa di coscienza di fronte alla questione della giurisdizione penale.
Fino all’Illuminismo lo Stato era preminente e la sua azione assolutamente e sempre legittima, per cui gli uomini abitanti sul territorio di quello Stato erano semplicemente sudditi senza "volontà politica" e senza "capacità decisionale" perché privi di diritto. Questo permetteva al sovrano di poter dire: "lo Stato sono io" o "la legge sono io", e di fronte a lui null’altro poteva esistere se non la sottomissione cieca e passiva di tutte le altre persone.
La prospettiva si sposta dal sovrano alla sovranità che è l’insieme di tutte le piccole porzioni di libertà cedute dagli individui, che non sono più sudditi passivi, ma cittadini protagonisti del vita della collettività e che hanno nelle mani "un diritto" che proviene proprio dalla cessione di una porzione della propria libertà.
In questo senso il libretto di Beccaria rappresentava una novità assoluta e una pericolosità elevata per il potere costituito sia religioso che politico .Ponendosi infatti al di sopra "dei pregiudizi e dei tradizionali rispetti" l'opera metteva in discussione il principio stesso della legittimità del potere assoluto dei sovrani) tanto che il padre vallombrosano Ferdinando Facchinei scrisse un violento opuscolo contro il Beccaria e la sua opera proprio per incarico del governo della Repubblica della Serenissima.
Con questo libro Beccaria, proponendo il suo punto di vista interprete delle idee illuministiche, ha potuto diffondere un nuovo pensiero nell’Italia del Settecento, riuscendo di conseguenza ad influenzare le mentalità del suo periodo oltre che a riscuotere un notevole successo tra il pubblico, non solo in Italia, ma in tutta Europa.
Beccaria, Cesare - Dei delitti e delle
pene
Cesare Beccaria (1738-1794) fu un filosofo, o meglio , come egli stesso si
autodefinì, un “filosofo della morale e della politica”. Quest’opera è innanzi
tutto un libro di riflessione politica, che presenta il pensiero dell’autore
circa la situazione della struttura legislativa del suo tempo. L’opera si
colloca in un complesso periodo storico (600-700) in cui la civiltà europea
matura una definitiva presa di coscienza di fronte al problema della
giurisdizione penale. Il libro scaturisce non tanto da uno studio tecnico
quanto da un impulso morale generato dall’evoluzione storica, sociale e culturale di quell’epoca. Nell’opera Beccaria affronta
il problema della legittimità dei governi di punire coloro che in qualsiasi
modo contravvengono a quanto stabilito dalle leggi, in quanto, come affermavano
gli illuministi, tra il cittadino e lo Stato si stabiliva un "patto
sociale" in base al quale ogni cittadino rinunciava a una piccola parte
della propria libertà per il raggiungimento della maggior felicità possibile,
garantita a ciascuno dall'azione dello Stato.
Le leggi, che regolano i rapporti sia fra cittadini che con lo
Stato, partono proprio da questo presupposto. Criterio costante e fondamentale
dell’azione dei governi e del legislatore deve essere quello dell’utilità
pratica generale per tutta la comunità, non solo rispetto al singolo individuo,
per cui la costituzione e l’irrogazione delle pene, deve portare ad impedire al
cittadino di arrecare danni alla collettività e di evitare che altri possano
seguire l’esempio del reo. In questa ottica non possono essere più seguiti i vecchi criteri del
passato, perché dannosi e inumani. Uno dei freni al delitto non deve essere la
crudeltà della pena, ma la certezza della pena. La moderazione e dolcezza della
pena è la dimostrazione più chiara del principio dell’utilità generale. Il
diritto deve tener conto insomma dell’utilità sociale. Questa concezione
utilitaristica del diritto contiene anche un aspetto umanitario nel senso che
al colpevole di un reato non va aggiudicata una punizione “biblica” o
vendicativa. Il Sovrano, nello stato moderno, deve badare solo a che non
vengano lesi gli interessi della società, cioè l’ordine pubblico e i meccanismi
economici. Egli ha un ruolo fondamentale nella difesa della struttura dello
Stato moderno che ha come fondamento un concetto utilitaristico della vita
sociale. Beccaria non intende quindi sminuire l’autorità del Sovrano che è a
capo della società, ma piuttosto quella di aumentarla, al fine di raggiungere
il bene comune.
Origine delle pene
La società è vista come il risultato di un patto fra uomini liberi che
cedono parte della loro libertà per assicurarsene poi una maggiore . Queste
libertà unite assieme formano la Sovranità, nelle cui mani è il potere legale. La
società , e per essa il Monarca, ha quindi il diritto di punire coloro che in
qualsiasi modo vengono meno al patto statuito. Il diritto di punire, ovvero
l'origine della pena, deriva dunque dalla necessità di difendere la sicurezza
comune e il bene universale dalle usurpazioni particolari.
Leggi
Le leggi rappresentano le condizioni alle quali uomini liberi decisero di
subordinarsi per unirsi in società, stanchi di vivere in un continuo stato di
guerra e di non poter avere una libertà costante. Così il compito del sovrano è
quello di amministrare queste norme e fare in modo di salvaguardarle, in modo
da impedire ad ogni uomo di tentare di appropriarsi e quindi di violare la
libertà altrui.
Strettamente legata alla legge c’è la pena, argomento largamente discusso in questa opera: essa è il danno fisico o morale stabilito dalla legge come conseguenza di un reato, ovvero ogni qual volta un uomo vada contro a quanto la legge aveva prefissato. Quindi le pene hanno lo scopo principale di difendere le leggi e di impedire al colpevole di fare nuovi danni, oltre che di impedire che altri ne compiano a loro volta. Solamente la legge emanata dal sovrano ha il diritto di punire gli uomini.
Strettamente legata alla legge c’è la pena, argomento largamente discusso in questa opera: essa è il danno fisico o morale stabilito dalla legge come conseguenza di un reato, ovvero ogni qual volta un uomo vada contro a quanto la legge aveva prefissato. Quindi le pene hanno lo scopo principale di difendere le leggi e di impedire al colpevole di fare nuovi danni, oltre che di impedire che altri ne compiano a loro volta. Solamente la legge emanata dal sovrano ha il diritto di punire gli uomini.
Interpretazione delle leggi
Le leggi non devono essere interpretate, ma devono
essere chiare sufficientemente, in modo che il compito del magistrato sia solo
quello di applicarle. Deve esserci inoltre, secondo Beccaria, una giusta
proporzione fra i delitti e le pene, ovvero le pene devono essere proporzionate
alla misura del danno che i delitti arrecano alla società.
Tanto più un’azione è lesiva, tanto più la pena
corrispondente sarà pesante. L’autore distingue tre tipi di delitti:
• I delitti che danneggiano direttamente la società o
chi la rappresenta, detti anche “delitti di lesa maestà”, i quali vanno puniti
con la pena più alta.
• I delitti che ostacolano la sicurezza della vita,
dei beni e dell’onore di un cittadino, che saranno puniti con le pene ritenute
più adeguate alle leggi.
• I delitti che molestano la tranquillità pubblica e
privata.
A questo punto Beccaria si chiede quali siano le pene
più conformi a questi ultimi delitti, e di conseguenza esprime la propria
opinione circa il ricorso alla tortura e alla pena di morte, gli argomenti
caratterizzanti dell’opera.
Tortura
Durante il processo la tortura, in molte nazioni già in uso, doveva
costringere il presunto colpevole a confessare il delitto. Ma questo metodo era
agli occhi dell’autore nient’altro che una crudeltà, un modo di pretendere la
verità attraverso il dolore fisico. Inoltre la tortura poteva incorrere
nell’errore più temibile, cioè quello di assolvere il colpevole e di condannare
l’innocente. Spesso infatti il colpevole, se dotato di coraggio e di grande
resistenza fisica, riusciva a resistere alle torture ; viceversa l’innocente,
se fiacco e debole, sotto tortura era portato a pronunciarsi colpevole pur di
porre fine al dolore, ma sotto giuramento ritornava a difendere la sua
posizione di innocenza.
Prontezza della pena.
“ Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella
sarà tanto più giusta e tanto più utile”. E’ importante quindi che la distanza
di tempo tra il delitto e la pena sia il minore possibile.
La prontezza della pena sarà percepita come giusta perché risparmia al colpevole i tormenti dell’incertezza associati alla consapevolezza della propria debolezza.
La prontezza della pena sarà percepita come giusta perché risparmia al colpevole i tormenti dell’incertezza associati alla consapevolezza della propria debolezza.
La privazione della libertà , essendo una pena, non dovrebbe precedere la
sentenza ( se non per gravi necessità) e dovrebbe durare il minor tempo
possibile prima della celebrazione del processo. Il carcere deve servire
unicamente ad impedire la fuga del presunto colpevole o l’occultamento delle
prove. La prontezza della pena è più utile perché in questo modo l’associazione
delle due idee (delitto e pena) è più forte nell’animo umano, in quanto può
comprendere più direttamente la relazione di causa ed effetto dei due concetti.
Il lungo ritardo fra delitto e somministrazione della pena non produce altro effetto che di disgiungere sempre più questa relazione di causa-effetto. Nell’immaginario collettivo l’immediatezza della pena serve a rinforzare il senso del giusto castigo , mentre il ritardare la pena farebbe percepire il castigo come una forma di spettacolo.
Il lungo ritardo fra delitto e somministrazione della pena non produce altro effetto che di disgiungere sempre più questa relazione di causa-effetto. Nell’immaginario collettivo l’immediatezza della pena serve a rinforzare il senso del giusto castigo , mentre il ritardare la pena farebbe percepire il castigo come una forma di spettacolo.
Misfatto e pena devono essere strettamente connesse anche sotto l’aspetto
della conformità della pena alla natura del delitto. L’analogia fra delitto e
pena facilita il contrasto che ci deve essere tra la spinta al delitto e la
ripercussione della pena. Cioè la pena deve allontanare l’animo dalla
suggestione di infrangere impunemente la legge.
Pena di morte
Viene trattato ampiamente il tema della pena di morte , che è molto
criticata da Beccaria. La pena di morte è ritenuta una “guerra della nazione
contro il cittadino”, in quanto lo Stato pensa di poter giudicare utile o necessaria
la morte di un uomo. Per questo anche la tortura e la pena di morte diventano
ingiuste, perché entrambe sono basate non sul diritto, ma sulla forza dello
Stato. Non esiste una condizione di necessità da parte di uno Stato, proprio
perché la "necessità" è una condizione che appartiene agli individui,
e la necessità di uno Stato diventa la necessità di un gruppo di individui di
mantenere il proprio potere di governo a scapito della collettività Premesso
che in un governo ben organizzato è discutibilissimo pensare che la pena di
morte sia utile e giusta, questa potrebbe essere ritenuta necessaria solamente
in due casi:
1. Nel caso in cui un cittadino pur privo della libertà avesse ancora tale
seguito, relazioni e potenza da mettere in pericolo le sorti di una nazione,
minacciando la libertà dello Stato.
2. quando la sua morte rappresentasse l’unico modo per distogliere altri cittadini dal commettere delitti.
2. quando la sua morte rappresentasse l’unico modo per distogliere altri cittadini dal commettere delitti.
La pena di morte è considerata inutile, perché non è l’intensità della pena che fa effetto maggiormente sull’animo della gente , ma piuttosto la sua estensione.
La pratica della pena capitale non è mai servita
neanche come utile esempio a far sì che gli uomini non commettano più reati.
Come esempio serve di più l’ergastolo che è un monito permanente per coloro che
intendono delinquere.
Infatti secondo Beccaria è più terribile l’esempio di un uomo privato della libertà e sottoposto ad una eterna schiavitù, piuttosto che la privazione della vita; e pensa che questa condizione di schiavitù perpetua possa sostituire sufficientemente la pena di morte, anzi, addirittura che la superi.
Dice poi che la pena di morte non è utile per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Inoltre sembra assurdo che siano proprio le leggi, che puniscono l’omicidio, a commetterne uno, ordinando un assassinio pubblico.
In generale , non si può chiamare giusta e quindi
necessaria la pena di un delitto finché la nazione non ha utilizzato il miglior
mezzo per prevenirlo.
Prevenzione dei delitti
Beccaria insiste su un altro argomento importante, ovvero il problema di
come si possano prevenire i delitti, che è anche il vero scopo di quest’opera. I
delitti, più che puniti, devono essere prevenuti, e per ottenere ciò , la
legislazione dovrebbe portare gli uomini al massimo di felicità, al fine di
evitare che essi desiderino danneggiare la vita di altri cittadini.
I legislatori dovrebbero dunque fare in modo che le leggi siano chiare,
semplici, e che tutta la nazione intenda difenderle. Un altro modo importante
per prevenire questi delitti sono le scienze: l’uomo colto rappresenta il dono
più grande che il sovrano possa fare a sé ed alla nazione; costui ha l’onore di
diventare custode delle leggi. Un ruolo importante, nella prevenzione dei
delitti, riveste l’educazione, che deve interessare in modo particolare i
giovani per deviarli da ciò che è male e guidarli alla virtù.
Conclusioni
Con quest’opera C.
Beccaria più che proporre uno schema tecnico per una nuova legislazione penale
raccoglie riflessioni generate dall’ imporsi della cultura illuministica in un
contesto storico-filosofico ricco di tensioni e contrasti.
E’ in questo periodo storico infatti che la civiltà europea matura una definitiva presa di coscienza di fronte alla questione della giurisdizione penale.
La grande novità
dell’opera di Beccaria sta nell’aver rovesciato la prospettiva dell’indagine
sulla legittimità dell’azione di uno Stato.
Fino all’Illuminismo lo Stato era preminente e la sua azione assolutamente e sempre legittima, per cui gli uomini abitanti sul territorio di quello Stato erano semplicemente sudditi senza "volontà politica" e senza "capacità decisionale" perché privi di diritto. Questo permetteva al sovrano di poter dire: "lo Stato sono io" o "la legge sono io", e di fronte a lui null’altro poteva esistere se non la sottomissione cieca e passiva di tutte le altre persone.
La prospettiva si sposta dal sovrano alla sovranità che è l’insieme di tutte le piccole porzioni di libertà cedute dagli individui, che non sono più sudditi passivi, ma cittadini protagonisti del vita della collettività e che hanno nelle mani "un diritto" che proviene proprio dalla cessione di una porzione della propria libertà.
In questo senso il libretto di Beccaria rappresentava una novità assoluta e una pericolosità elevata per il potere costituito sia religioso che politico .Ponendosi infatti al di sopra "dei pregiudizi e dei tradizionali rispetti" l'opera metteva in discussione il principio stesso della legittimità del potere assoluto dei sovrani) tanto che il padre vallombrosano Ferdinando Facchinei scrisse un violento opuscolo contro il Beccaria e la sua opera proprio per incarico del governo della Repubblica della Serenissima.
Con questo libro Beccaria, proponendo il suo punto di vista interprete delle idee illuministiche, ha potuto diffondere un nuovo pensiero nell’Italia del Settecento, riuscendo di conseguenza ad influenzare le mentalità del suo periodo oltre che a riscuotere un notevole successo tra il pubblico, non solo in Italia, ma in tutta Europa.
giovedì 27 novembre 2014
Il culto della sincerità non ci libera dall'errore
C'è differenza tra dire quello che ci passa per la
testa e la vera onestà intellettuale. Che sa cosa (e quando) è giusto tacere...
C'è una virtù che oggi sarebbe trionfante. Dico la sincerità.
Da quando furono abbattute le barriere architettoniche che la ostacolavano -
vale a dire il timore reverenziale, il rispetto, l'autorità, il decoro, il
galateo, la paura della punizione - la sincerità si presenta nuda, sfacciata, a
briglia sciolta, nei mille rivoli dei media.
Via i tabù,
vai con l'outing. Viviamo dunque nell'età della sincerità?
Per cominciare, la sincerità è una
virtù socialmente pericolosa e difficilmente compatibile con l'amicizia,
l'affetto e la simpatia, anche se poco sinceramente si sostiene il contrario.
La sincerità è una signorina stimata ma poco amata. Nubile, non sopporta mariti
e conviventi. A volte è irritabile, più spesso è irritante. Nell'immaginario
sociale, la sincerità è una virtù puerile come lo è la bugia, il cui metro
vistoso è il naso di Pinocchio che s'allunga. La sincerità più della bugìa ha
le gambe corte, perché non va lontano, tronca molte relazioni. Alla sincerità
come «virtù crudele» dedica da anni i suoi studi Andrea Tagliapietra (l'ultimo
suo saggio è Sincerità , ed. Cortina). La sincerità è un modo di dire ma non
implica un conseguente modo di agire. Il sincero può persistere in tutti i suoi
errori, vizi, bassezze; si limita a dichiararli. Chi è sincero può non essere
onesto, e chi è onesto può non essere sincero. Se confesso di aver rubato sono
sincero ma non smetto di essere ladro. Viceversa posso dire una bugia a fin di
bene, dunque onesta. Ma soprattutto non c'è nessun automatismo tra la sincerità
e la verità. Il sincero non dice la verità ma dice quel che pensa o, peggio,
quel che sente. Il sincero dice tutto ma non sempre pensa quel che dice. La
sincerità è soggettiva mentre la verità implica lo sforzo a uscire dalla
propria soggettività per avvicinarsi alla realtà obiettiva. La sincerità può
autoingannarsi: costruisce castelli d'illusioni e va ad abitarci. Il mio cuore
messo a nudo di Baudelaire indica un sincero aprirsi, esponendo le passioni, i
tormenti, le speranze; ma la verità è un'altra cosa. Senza dire del sofisma
cretese: se dico «sto mentendo» sono sincero o no? Quesito insolubile perché si
autosmentisce in ambo i casi.
La sincerità è spesso confusa con la
spontaneità: niente freni, niente veli, dico tutto quel che mi passa per la
testa. La spontaneità è im-mediata, non tollera la mediazione riflessiva; è
diretta, selvatica, primitiva. La spontaneità non è una virtù, è solo la
liberazione di un impulso, è uno sfogo, quasi un'incontinenza. La brutale
franchezza spesso produce nel nome di un piccolo bene, la sincerità, gravi
danni al prossimo e ai rapporti umani. Ferisce l'altrui sensibilità, non si
cura dei suoi effetti, danneggia i legami sociali. Dal '68 in poi si è
identificata la sincerità con la spontaneità. Come la verità è rivoluzionaria
sul piano politico, così sul piano interpersonale la sincerità è stata
considerata libertaria, liberatrice e dissacrante. In fondo, franco sta sia per
sincero che per libero. Da questa pseudo-sincerità sono nati due frutti, uno
per affinità, l'altro per contrasto. Da una parte è sorto il coming out, detto
in breve outing. Tutto ciò che era coperto dall'inibizione diventa oggetto di
esibizione. Il pudore per l'intimità cede al narcisismo, con sfacciata sincerità.
Dall'altra parte, il risultato paradossale della guerra all'ipocrisia
«borghese» è la nascita d'un nuovo codice dell'ipocrisia, il politically
correct: l'uomo di colore, il rom, il non vedente, il diversamente abile, il
personale ausiliario, l'operatore ecologico; il frasario dell'ipocrisia. La
sincerità delle origini si è capovolta in uno stucchevole rococò della falsità.
Torna in altre vesti la massima: la parola è data all'uomo per nascondere il
pensiero (e la realtà). Una parodia delle ipocrisie rivoluzionarie la fece già
Niccolò Tommaseo nel Vocabolario filosofico-democratico del 1799.
La civiltà è il contrario della
sincerità intesa come spontaneità. Ciò vale sia nell'ambito del costume e dei
comportamenti che sul piano del pensiero e della fede. Nel primo caso, l'etica
si accorda all'estetica e la sincerità non deve ferire lo stile e il buon
gusto; nasce il galateo, la civiltà delle buone maniere, che velano la
sincerità; le tende di pizzo del pudore. Ma anche in ambito teologico e
filosofico la verità si è servita della menzogna quanto e più della sincerità.
La pia fraus cristiana e le sante omissioni, le salutari menzogne di Platone,
la doppia verità di Averroè, il bello mentire di Campanella, la dissimulazione
onesta di Torquato Accetto, praticata anche da rigorosi moralisti come Seneca,
le menzogne necessarie di Nietzsche (il velo d'Apollo che veste di bello
l'orrore della verità e copre la tragedia del divenire). E in letteratura la
menzogna troneggia. Gli uomini, diceva Tristan Bernard, sono sempre sinceri ma
cambiano spesso sincerità. La realtà ha molte facce e noi possiamo essere
sinceri rispetto a una e insinceri rispetto a un'altra. Possiamo dire la
verità, ma non tutta la verità. Qui si tocca una questione cruciale che va
oltre la sincerità e investe la verità, che ama nascondersi, si confonde col
mistero e può essere colta per allusioni, bagliori e frammenti. È la poligonia
del vero, di cui parlava Gioberti nella Teoria del sovrannaturale ; la verità
ha vari lati, non uno solo. Nessuno ha la verità in tasca, semmai noi siamo
dentro la verità, ne cogliamo uno spicchio; ma ciò non impedisce che ci siano
altri spicchi di verità che non vediamo, non vogliamo o non sappiamo vedere.
Non è relativismo, che sottende la riduzione della verità ai punti di vista,
alle interpretazioni soggettive; ma la verità ha più lati, ossia la verità è
più grande di noi, ci trascende, noi possiamo aspirare a essere nella verità,
ma non ad avere la verità in pugno. Questo salva la verità dal monopolio
dispotico e dalla negazione nichilista.
Insomma la sincerità è una virtù interiore ma non
sempre è una virtù pubblica. Spesso ferisce, nuoce, spezza i legami; non
implica coerenza tra il dire e il fare. Non s'identifica con la spontaneità ma
assume valore se è consapevole e riflessiva. La sincerità è poi soggettiva e
dunque non coincide con la verità. È solo un lato del vero. Resta un pregio,
una virtù vera, se indica l'aprirsi agli altri senza secondi fini subdoli. E se
sa fermarsi davanti alla soglia del rispetto altrui, della carità, della
prudenza e della pazienza. Come ogni virtù, la sincerità si fa tiranna se è
unica e assoluta, sciolta da ogni vincolo e da ogni altra virtù. La sincerità
non è la virtù regina, ha valore se non violenta altre virtù. Al poligono della
verità corrisponde il politeismo delle virtù: le virtù si temperano a vicenda.
Senza freni la sincerità è una virtù che sconfina nella malvagità.martedì 25 novembre 2014
Opinioni : La nazione ebraica a uso elettorale
La nazione ebraica a uso elettorale
di MARIO PIRANI
Destinata ad apparire e a riapparire all'improvviso nel corso degli ultimi
decenni la piaga del conflitto arabo-ebraico torna ad avvelenare il Medio
Oriente e a trasmettere i suoi miasmi dalle regioni vicine alle grandi capitali
del mondo intero. Quel che ormai impaurisce le genti sotto ogni latitudine è la
sensazione che non vi siano vie di scampo e che ogni cammino intrapreso, sia
esso diplomatico, politico o persino militare, abbia già iscritto il suo
fallimento nelle ragioni di partenza.
E che questa avversa sorte scaturisca dalle reciproche ragioni, sì che ognuno possa avvalersi di una assurda verità: quella di prevalere in egual misura sui diritti altrui, ognuno sperando di inalberare sull'altro la bandiera del giusto. Questa volta la pietra del contendere sta nella lettura o meglio nella scrittura in fieri della Costituzione israeliana ossia della Dichiarazione d'Indipendenza letta da Ben Gurion nel 1948 che affermava il carattere ebraico e democratico del nuovo Stato nell'atto della sua fondazione. In esso si sanciva l'assoluta eguaglianza di tutti i suoi cittadini, fossero essi ebrei, musulmani, cattolici, drusi, circassi od altro.
Una volta affermata questa parità di cittadinanza applicabile a tutti restavano al solo popolo ebraico i diritti nazionali derivanti dall'autodeterminazione (dalla bandiera al servizio postale). Netanyahu presentando la legge, ancora in discussione, ha avanzato l'esigenza di ripristinare pienamente l'ebraicità di Israele, corrosa dal tempo e dalla crescente presenza araba (1.500.000 persone). Detto questo c'è da chiedersi perché il governo Netanyahu affronta nuovamente questo principio, sancito nella dichiarazione di Ben Gurion che però non era mai stata convertita in un legge costituzionale (lo Stato di Israele non ha ancora oggi, infatti una costituzione).
A nostro avviso ci sono due motivazioni: una più profonda e l'altra più specificamente politica. Per quanto riguarda la prima, l'esaltazione di una ossessione religiosa ha portato ad una radicalizzazione degli estremismi di cui purtroppo conosciamo le conseguenze (omicidio dei tre ragazzi israeliani, un giovane palestinese arso vivo, l'omicidio del rabbino israeliano e ultima, la strage nella sinagoga), questo riguarda le frange più estremiste come il movimento "price tag" da parte israeliana e le organizzazioni terroristiche di Hamas e Jihad. Nella "narrativa" della parte più moderata palestinese, resta l'idea che in fondo gli ebrei israeliani non sono altro che degli usurpatori e che la "narrativa" ebraica sulla propria appartenenza a quei luoghi non è altro che una mera invenzione che serve solamente a giustificare l'occupazione di una terra che è sempre e solo appartenuta ai palestinesi. Sembra non esserci una vera trasformazione del pensiero, che porti ambedue le versioni a riconoscersi ed avvicinarsi, unico presupposto per un reale percorso che conduca alla pace e all'accettazione dell'altro come proprio vicino, magari non il più simpatico possibile, senza arrivare a realizzare il desiderio profondo di annientarlo.
Nella consapevolezza ebraica di questa permanente aspirazione si colloca il disegno di Netanyahu di stabilire i principi basilari della futura costituzione israeliana, di cui l'essere uno Stato ebraico è il presupposto fondamentale. Nella dichiarazione del '48 si costruisce il credo della nazione. In essa sono compresi gli imperativi storici della rinascita di Israele, la struttura per uno "Stato ebraico democratico". Ed è su questo che il dibattito politico israeliano futuro, quando cioè arriverà il momento di tradurre in legge costituzionale questa dichiarazione di principio, si articolerà. La ministra Tzipi Livni e una minoranza del partito hanno votato contro questo principio perché determinati a dare alle parole "ebraico e democratico" identica dignità mentre la proposta del ministro di estrema destra Elkin presentata ma non votata alla riunione di governo tende a dare una maggiore rilevanza alla natura ebraica.
La seconda chiave di lettura è molto più politica e riguarda la imminente crisi di un governo usurato che si prepara a nuove elezioni in cui il partito dell'emergente Naftali Bennett paragonato a Gerusalemme a Beppe Grillo sembra erodere consensi al Likud, il partito di Netanyahu il quale con la trovata della costituzione tenta di accreditare una piattaforma di maggioranza. Tra le voci più autorevoli tra cui la prof. Gabison, notissima studiosa di diritto costituzionale e il precedente capo della Corte suprema, Shamgar, hanno lanciato l'idea di promuovere una sorta di costituente in cui tutte le parti politiche possano identificarsi. Un percorso difficile di crescita a cui Ben Gurion aveva inizialmente rinunciato, sapendo quanto sarebbe stato complicato mettere insieme le variegate parti della società ebraica.
Shlomo Avineri un noto editorialista israeliano scrive su Haaretz: "Quelli di noi che hanno sostenuto Oslo - e che ancora lo giudicano una giusta strada - ripongono poca speranza nella volontà dei palestinesi che non hanno dato prova convincente di volersi davvero battere per la soluzione "due popoli - due Stati". D'altra parte non se la sentono di garantire la legittimazione del diritto ebraico all'autodeterminazione. Possiamo contare solo su noi stessi - non nel senso del nostro potere militare ma sulla nostra saggezza, il nostro desiderio di mantenere uno Stato-nazione ebraica qui, e sulla nostra abilità di realizzare questo desiderio, anche nelle condizioni difficili di un profondo e sedimentato rifiuto dell'altra parte". Questa è la scommessa futura di una popolazione la cui maggioranza se pur profondamente disillusa continua ad essere disposta, ancora oggi, a scambiare territori in cambio di pace e sicurezza. È però più che discutibile che un'iniziativa politica, in sé non biasimevole, su un tema così spinoso e contraddittorio sia accompagnata e si intersechi con un disegno strumentale di natura elettorale che ne inficia il carattere e ne inquina la trasparenza.
E che questa avversa sorte scaturisca dalle reciproche ragioni, sì che ognuno possa avvalersi di una assurda verità: quella di prevalere in egual misura sui diritti altrui, ognuno sperando di inalberare sull'altro la bandiera del giusto. Questa volta la pietra del contendere sta nella lettura o meglio nella scrittura in fieri della Costituzione israeliana ossia della Dichiarazione d'Indipendenza letta da Ben Gurion nel 1948 che affermava il carattere ebraico e democratico del nuovo Stato nell'atto della sua fondazione. In esso si sanciva l'assoluta eguaglianza di tutti i suoi cittadini, fossero essi ebrei, musulmani, cattolici, drusi, circassi od altro.
Una volta affermata questa parità di cittadinanza applicabile a tutti restavano al solo popolo ebraico i diritti nazionali derivanti dall'autodeterminazione (dalla bandiera al servizio postale). Netanyahu presentando la legge, ancora in discussione, ha avanzato l'esigenza di ripristinare pienamente l'ebraicità di Israele, corrosa dal tempo e dalla crescente presenza araba (1.500.000 persone). Detto questo c'è da chiedersi perché il governo Netanyahu affronta nuovamente questo principio, sancito nella dichiarazione di Ben Gurion che però non era mai stata convertita in un legge costituzionale (lo Stato di Israele non ha ancora oggi, infatti una costituzione).
A nostro avviso ci sono due motivazioni: una più profonda e l'altra più specificamente politica. Per quanto riguarda la prima, l'esaltazione di una ossessione religiosa ha portato ad una radicalizzazione degli estremismi di cui purtroppo conosciamo le conseguenze (omicidio dei tre ragazzi israeliani, un giovane palestinese arso vivo, l'omicidio del rabbino israeliano e ultima, la strage nella sinagoga), questo riguarda le frange più estremiste come il movimento "price tag" da parte israeliana e le organizzazioni terroristiche di Hamas e Jihad. Nella "narrativa" della parte più moderata palestinese, resta l'idea che in fondo gli ebrei israeliani non sono altro che degli usurpatori e che la "narrativa" ebraica sulla propria appartenenza a quei luoghi non è altro che una mera invenzione che serve solamente a giustificare l'occupazione di una terra che è sempre e solo appartenuta ai palestinesi. Sembra non esserci una vera trasformazione del pensiero, che porti ambedue le versioni a riconoscersi ed avvicinarsi, unico presupposto per un reale percorso che conduca alla pace e all'accettazione dell'altro come proprio vicino, magari non il più simpatico possibile, senza arrivare a realizzare il desiderio profondo di annientarlo.
Nella consapevolezza ebraica di questa permanente aspirazione si colloca il disegno di Netanyahu di stabilire i principi basilari della futura costituzione israeliana, di cui l'essere uno Stato ebraico è il presupposto fondamentale. Nella dichiarazione del '48 si costruisce il credo della nazione. In essa sono compresi gli imperativi storici della rinascita di Israele, la struttura per uno "Stato ebraico democratico". Ed è su questo che il dibattito politico israeliano futuro, quando cioè arriverà il momento di tradurre in legge costituzionale questa dichiarazione di principio, si articolerà. La ministra Tzipi Livni e una minoranza del partito hanno votato contro questo principio perché determinati a dare alle parole "ebraico e democratico" identica dignità mentre la proposta del ministro di estrema destra Elkin presentata ma non votata alla riunione di governo tende a dare una maggiore rilevanza alla natura ebraica.
La seconda chiave di lettura è molto più politica e riguarda la imminente crisi di un governo usurato che si prepara a nuove elezioni in cui il partito dell'emergente Naftali Bennett paragonato a Gerusalemme a Beppe Grillo sembra erodere consensi al Likud, il partito di Netanyahu il quale con la trovata della costituzione tenta di accreditare una piattaforma di maggioranza. Tra le voci più autorevoli tra cui la prof. Gabison, notissima studiosa di diritto costituzionale e il precedente capo della Corte suprema, Shamgar, hanno lanciato l'idea di promuovere una sorta di costituente in cui tutte le parti politiche possano identificarsi. Un percorso difficile di crescita a cui Ben Gurion aveva inizialmente rinunciato, sapendo quanto sarebbe stato complicato mettere insieme le variegate parti della società ebraica.
Shlomo Avineri un noto editorialista israeliano scrive su Haaretz: "Quelli di noi che hanno sostenuto Oslo - e che ancora lo giudicano una giusta strada - ripongono poca speranza nella volontà dei palestinesi che non hanno dato prova convincente di volersi davvero battere per la soluzione "due popoli - due Stati". D'altra parte non se la sentono di garantire la legittimazione del diritto ebraico all'autodeterminazione. Possiamo contare solo su noi stessi - non nel senso del nostro potere militare ma sulla nostra saggezza, il nostro desiderio di mantenere uno Stato-nazione ebraica qui, e sulla nostra abilità di realizzare questo desiderio, anche nelle condizioni difficili di un profondo e sedimentato rifiuto dell'altra parte". Questa è la scommessa futura di una popolazione la cui maggioranza se pur profondamente disillusa continua ad essere disposta, ancora oggi, a scambiare territori in cambio di pace e sicurezza. È però più che discutibile che un'iniziativa politica, in sé non biasimevole, su un tema così spinoso e contraddittorio sia accompagnata e si intersechi con un disegno strumentale di natura elettorale che ne inficia il carattere e ne inquina la trasparenza.
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