La nazione ebraica a uso elettorale
di MARIO PIRANI
Destinata ad apparire e a riapparire all'improvviso nel corso degli ultimi
decenni la piaga del conflitto arabo-ebraico torna ad avvelenare il Medio
Oriente e a trasmettere i suoi miasmi dalle regioni vicine alle grandi capitali
del mondo intero. Quel che ormai impaurisce le genti sotto ogni latitudine è la
sensazione che non vi siano vie di scampo e che ogni cammino intrapreso, sia
esso diplomatico, politico o persino militare, abbia già iscritto il suo
fallimento nelle ragioni di partenza.
E che questa avversa sorte scaturisca dalle reciproche ragioni, sì che ognuno possa avvalersi di una assurda verità: quella di prevalere in egual misura sui diritti altrui, ognuno sperando di inalberare sull'altro la bandiera del giusto. Questa volta la pietra del contendere sta nella lettura o meglio nella scrittura in fieri della Costituzione israeliana ossia della Dichiarazione d'Indipendenza letta da Ben Gurion nel 1948 che affermava il carattere ebraico e democratico del nuovo Stato nell'atto della sua fondazione. In esso si sanciva l'assoluta eguaglianza di tutti i suoi cittadini, fossero essi ebrei, musulmani, cattolici, drusi, circassi od altro.
Una volta affermata questa parità di cittadinanza applicabile a tutti restavano al solo popolo ebraico i diritti nazionali derivanti dall'autodeterminazione (dalla bandiera al servizio postale). Netanyahu presentando la legge, ancora in discussione, ha avanzato l'esigenza di ripristinare pienamente l'ebraicità di Israele, corrosa dal tempo e dalla crescente presenza araba (1.500.000 persone). Detto questo c'è da chiedersi perché il governo Netanyahu affronta nuovamente questo principio, sancito nella dichiarazione di Ben Gurion che però non era mai stata convertita in un legge costituzionale (lo Stato di Israele non ha ancora oggi, infatti una costituzione).
A nostro avviso ci sono due motivazioni: una più profonda e l'altra più specificamente politica. Per quanto riguarda la prima, l'esaltazione di una ossessione religiosa ha portato ad una radicalizzazione degli estremismi di cui purtroppo conosciamo le conseguenze (omicidio dei tre ragazzi israeliani, un giovane palestinese arso vivo, l'omicidio del rabbino israeliano e ultima, la strage nella sinagoga), questo riguarda le frange più estremiste come il movimento "price tag" da parte israeliana e le organizzazioni terroristiche di Hamas e Jihad. Nella "narrativa" della parte più moderata palestinese, resta l'idea che in fondo gli ebrei israeliani non sono altro che degli usurpatori e che la "narrativa" ebraica sulla propria appartenenza a quei luoghi non è altro che una mera invenzione che serve solamente a giustificare l'occupazione di una terra che è sempre e solo appartenuta ai palestinesi. Sembra non esserci una vera trasformazione del pensiero, che porti ambedue le versioni a riconoscersi ed avvicinarsi, unico presupposto per un reale percorso che conduca alla pace e all'accettazione dell'altro come proprio vicino, magari non il più simpatico possibile, senza arrivare a realizzare il desiderio profondo di annientarlo.
Nella consapevolezza ebraica di questa permanente aspirazione si colloca il disegno di Netanyahu di stabilire i principi basilari della futura costituzione israeliana, di cui l'essere uno Stato ebraico è il presupposto fondamentale. Nella dichiarazione del '48 si costruisce il credo della nazione. In essa sono compresi gli imperativi storici della rinascita di Israele, la struttura per uno "Stato ebraico democratico". Ed è su questo che il dibattito politico israeliano futuro, quando cioè arriverà il momento di tradurre in legge costituzionale questa dichiarazione di principio, si articolerà. La ministra Tzipi Livni e una minoranza del partito hanno votato contro questo principio perché determinati a dare alle parole "ebraico e democratico" identica dignità mentre la proposta del ministro di estrema destra Elkin presentata ma non votata alla riunione di governo tende a dare una maggiore rilevanza alla natura ebraica.
La seconda chiave di lettura è molto più politica e riguarda la imminente crisi di un governo usurato che si prepara a nuove elezioni in cui il partito dell'emergente Naftali Bennett paragonato a Gerusalemme a Beppe Grillo sembra erodere consensi al Likud, il partito di Netanyahu il quale con la trovata della costituzione tenta di accreditare una piattaforma di maggioranza. Tra le voci più autorevoli tra cui la prof. Gabison, notissima studiosa di diritto costituzionale e il precedente capo della Corte suprema, Shamgar, hanno lanciato l'idea di promuovere una sorta di costituente in cui tutte le parti politiche possano identificarsi. Un percorso difficile di crescita a cui Ben Gurion aveva inizialmente rinunciato, sapendo quanto sarebbe stato complicato mettere insieme le variegate parti della società ebraica.
Shlomo Avineri un noto editorialista israeliano scrive su Haaretz: "Quelli di noi che hanno sostenuto Oslo - e che ancora lo giudicano una giusta strada - ripongono poca speranza nella volontà dei palestinesi che non hanno dato prova convincente di volersi davvero battere per la soluzione "due popoli - due Stati". D'altra parte non se la sentono di garantire la legittimazione del diritto ebraico all'autodeterminazione. Possiamo contare solo su noi stessi - non nel senso del nostro potere militare ma sulla nostra saggezza, il nostro desiderio di mantenere uno Stato-nazione ebraica qui, e sulla nostra abilità di realizzare questo desiderio, anche nelle condizioni difficili di un profondo e sedimentato rifiuto dell'altra parte". Questa è la scommessa futura di una popolazione la cui maggioranza se pur profondamente disillusa continua ad essere disposta, ancora oggi, a scambiare territori in cambio di pace e sicurezza. È però più che discutibile che un'iniziativa politica, in sé non biasimevole, su un tema così spinoso e contraddittorio sia accompagnata e si intersechi con un disegno strumentale di natura elettorale che ne inficia il carattere e ne inquina la trasparenza.
E che questa avversa sorte scaturisca dalle reciproche ragioni, sì che ognuno possa avvalersi di una assurda verità: quella di prevalere in egual misura sui diritti altrui, ognuno sperando di inalberare sull'altro la bandiera del giusto. Questa volta la pietra del contendere sta nella lettura o meglio nella scrittura in fieri della Costituzione israeliana ossia della Dichiarazione d'Indipendenza letta da Ben Gurion nel 1948 che affermava il carattere ebraico e democratico del nuovo Stato nell'atto della sua fondazione. In esso si sanciva l'assoluta eguaglianza di tutti i suoi cittadini, fossero essi ebrei, musulmani, cattolici, drusi, circassi od altro.
Una volta affermata questa parità di cittadinanza applicabile a tutti restavano al solo popolo ebraico i diritti nazionali derivanti dall'autodeterminazione (dalla bandiera al servizio postale). Netanyahu presentando la legge, ancora in discussione, ha avanzato l'esigenza di ripristinare pienamente l'ebraicità di Israele, corrosa dal tempo e dalla crescente presenza araba (1.500.000 persone). Detto questo c'è da chiedersi perché il governo Netanyahu affronta nuovamente questo principio, sancito nella dichiarazione di Ben Gurion che però non era mai stata convertita in un legge costituzionale (lo Stato di Israele non ha ancora oggi, infatti una costituzione).
A nostro avviso ci sono due motivazioni: una più profonda e l'altra più specificamente politica. Per quanto riguarda la prima, l'esaltazione di una ossessione religiosa ha portato ad una radicalizzazione degli estremismi di cui purtroppo conosciamo le conseguenze (omicidio dei tre ragazzi israeliani, un giovane palestinese arso vivo, l'omicidio del rabbino israeliano e ultima, la strage nella sinagoga), questo riguarda le frange più estremiste come il movimento "price tag" da parte israeliana e le organizzazioni terroristiche di Hamas e Jihad. Nella "narrativa" della parte più moderata palestinese, resta l'idea che in fondo gli ebrei israeliani non sono altro che degli usurpatori e che la "narrativa" ebraica sulla propria appartenenza a quei luoghi non è altro che una mera invenzione che serve solamente a giustificare l'occupazione di una terra che è sempre e solo appartenuta ai palestinesi. Sembra non esserci una vera trasformazione del pensiero, che porti ambedue le versioni a riconoscersi ed avvicinarsi, unico presupposto per un reale percorso che conduca alla pace e all'accettazione dell'altro come proprio vicino, magari non il più simpatico possibile, senza arrivare a realizzare il desiderio profondo di annientarlo.
Nella consapevolezza ebraica di questa permanente aspirazione si colloca il disegno di Netanyahu di stabilire i principi basilari della futura costituzione israeliana, di cui l'essere uno Stato ebraico è il presupposto fondamentale. Nella dichiarazione del '48 si costruisce il credo della nazione. In essa sono compresi gli imperativi storici della rinascita di Israele, la struttura per uno "Stato ebraico democratico". Ed è su questo che il dibattito politico israeliano futuro, quando cioè arriverà il momento di tradurre in legge costituzionale questa dichiarazione di principio, si articolerà. La ministra Tzipi Livni e una minoranza del partito hanno votato contro questo principio perché determinati a dare alle parole "ebraico e democratico" identica dignità mentre la proposta del ministro di estrema destra Elkin presentata ma non votata alla riunione di governo tende a dare una maggiore rilevanza alla natura ebraica.
La seconda chiave di lettura è molto più politica e riguarda la imminente crisi di un governo usurato che si prepara a nuove elezioni in cui il partito dell'emergente Naftali Bennett paragonato a Gerusalemme a Beppe Grillo sembra erodere consensi al Likud, il partito di Netanyahu il quale con la trovata della costituzione tenta di accreditare una piattaforma di maggioranza. Tra le voci più autorevoli tra cui la prof. Gabison, notissima studiosa di diritto costituzionale e il precedente capo della Corte suprema, Shamgar, hanno lanciato l'idea di promuovere una sorta di costituente in cui tutte le parti politiche possano identificarsi. Un percorso difficile di crescita a cui Ben Gurion aveva inizialmente rinunciato, sapendo quanto sarebbe stato complicato mettere insieme le variegate parti della società ebraica.
Shlomo Avineri un noto editorialista israeliano scrive su Haaretz: "Quelli di noi che hanno sostenuto Oslo - e che ancora lo giudicano una giusta strada - ripongono poca speranza nella volontà dei palestinesi che non hanno dato prova convincente di volersi davvero battere per la soluzione "due popoli - due Stati". D'altra parte non se la sentono di garantire la legittimazione del diritto ebraico all'autodeterminazione. Possiamo contare solo su noi stessi - non nel senso del nostro potere militare ma sulla nostra saggezza, il nostro desiderio di mantenere uno Stato-nazione ebraica qui, e sulla nostra abilità di realizzare questo desiderio, anche nelle condizioni difficili di un profondo e sedimentato rifiuto dell'altra parte". Questa è la scommessa futura di una popolazione la cui maggioranza se pur profondamente disillusa continua ad essere disposta, ancora oggi, a scambiare territori in cambio di pace e sicurezza. È però più che discutibile che un'iniziativa politica, in sé non biasimevole, su un tema così spinoso e contraddittorio sia accompagnata e si intersechi con un disegno strumentale di natura elettorale che ne inficia il carattere e ne inquina la trasparenza.
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