Vera e il parco dei desideri perduti ( Raccontinuo di Maurizio il Tenia D'Armetta e Ugo Arioti)
È mattina
mattina. Ore 7.15.Suona la sveglia. Uno dei pochi che si ostina ad usare ancora la sveglia. Le suonerie dei cellulari sono troppo buone con te. La sveglia col suo suono corto e ripetitivo è democratica ed implacabile. Ti ricorda che ti devi alzare come tutti gli altri. Niente smancerie, niente canzoncine simpatiche. Tre ore di sonno possono bastare e Morfeo ha già troppi clienti.
Ultimamente dormo poco. Poso i piedi per terra e mi giro verso la persona che ha condiviso con me il letto. Una catena montuosa fatta di coperte che aspetta d'essere baciata dal sole. Adagio la mia mano su un fianco e avvicino il mio naso al suo collo per annusare senza baciarlo. Amo gli odori. La vista non è attendibile.
Poso i piedi per terra e cerco le pantofole. Come al solito ne trovo solo una perché la seconda misteriosamente è sempre in un'altra stanza.
Vado in cucina con la speranza di trovare caffè del giorno prima. Marroneliquidoassente. Al pensiero del caffè un riflesso condizionato in completa fiducia mi dirotta in bagno. Invidio quelli che si portano il giornale per espletare, io non avrei nemmeno il tempo di leggere il mio oroscopo. Già fatto,anche oggi consegno l'informazione in mano agli stitici.
Mi doccio, mi vesto,mi scarpo,mi capello,mi borso e sono fuori,partorito dal vecchio portone di casa mia. Tengo gli occhi chiusi nell' attesa di fare pace con la luce esterna e mi dirigo al lavoro.
Ho avuto la fortuna di trovare un lavoro vicino casa. Non è vero, ho comprato casa vicino il mio posto di lavoro. Un mutuo così presente nella mia vita che a tavola apparecchiamo pure per lui. In ogni caso sono felice di camminare invece che infilarmi dentro quella vibrazione a quattro ruote che è la mia macchina. Una fiat uno rossa del ‘92 che per usarla oltre al tagliando devo fare il richiamo per l'antitetanica ogni anno.
A Palermo fortunatamente abbiamo tutti dei parcheggi riservati,si chiamano doppia fila,metto le tre frecce,perché a quattro non ci arrivo ed entro in edicola per sbirciare gratis qualche giornale. Mario, Il proprietario, lo sa e graziosamente fa finta di niente.
Il mio sguardo va su un quotidiano ed in particolare su una foto mentre le lettere intorno come piccole formiche si organizzano per mettersi in riga. Inizio ad avere una nausea non di donna in cinta ma di mattina post sbornia, di quelle nausee che passano con una bella vomitata ma che ti lasciano un mal di testa senza ritorno . Quello che leggo non può essere vero. Non è vero. Compro il giornale sconvolgendo l'edicolante e scappo fuori.
Il mio nome è Giuseppe Tremante,mai cognome fu così fuori luogo. Non che sia un coraggioso ma una forma d'incoscienza e sete di conoscenza nei confronti dell'umanità, fa sì che io affronti le situazioni più difficili di petto non tirandomi mai indietro, ma quello che mi si parava davanti era fuori dalla mia portata e forse fuori dalla portata di molti.
La foto in bianco e nero benché fosse di pessima qualità, non lasciava dubbi su chi poteva essere il cadavere trovato nascosto tra le aiuole di un parco. L'articolo non comunicava nessuna informazione interessante,si limitava a descrivere quello che avrebbe potuto vedere un postino un metalmeccanico o un gioielliere. Evidentemente non c'erano indizi o fonti da cui poter accedere a qualcosa di concreto. Il luogo era lo stesso parco dove ogni giorno spargo il mio sudore andando a correre. A dire il vero ultimamente avevo ridotto drasticamente i miei appuntamenti con la corsa perché avevo ricominciato a fumare ed il fiato sentendosi tradito non mi era più complice.
Fu lì che la incontrai la prima volta. Accessoriata di tutto: scarpette con suole antistress,polsini,fuseaux blue, lettore mp3 e un body così stretto da non concedere nessun ballo ai seni. Sembrava una manchette di un negozio d' articoli sportivi se non fosse stato che la testa inespressiva era sostituita da un viso di una grazia disorientante. Una bellezza capace di far rivedere il concetto stesso di bellezza che c'è in tutti noi. Un viso costellato di lentiggini messe in evidenza da una pelle chiara di bambina,un naso perfetto messo lì come un elemento di una natura morta ed una bocca che nessun pittore avrebbe potuto riprodurre perché quel rosso non è riproducibile e non si può imprimere su una tela. Avevo finito di correre e stavo stirando i muscoli irrigiditi che mi imploravano pietà, quando la vidi spuntare in lontananza. Era bella anche da lontano. Cominciai a seguirla con lo sguardo inventando esercizi di stretching per dare un senso alla mia presenza. Preso dalla mia constatazione amichevole nei suoi confronti non mi resi conto che stava rallentando il passo fino a fermarsi. Si piego in avanti posando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. Sarebbe stato un gesto poco elegante fatto da chiunque ma lei si sarebbe potuta permettere di assumere tutte le posizioni più strane senza perdere un briciolo della sua eleganza. Si girò come un giocatore di rugby si gira verso i suoi compagni ed io abbassai lo sguardo. Sono bravo ad abbassare lo sguardo in tempo. Anni e anni di amori platonici unilaterali alle scuole medie hanno raffinato questa pratica. Oggi sono le donne ad abbassare lo sguardo ma una forma di delicatezza nei confronti di lei fece sì che iniziassi un esame accurato dei lacci delle mie scarpe. L'abitudine di fare il doppio nodo come i bambini non mi ha lasciato e a dire il vero tante altre abitudini fanciullesche si sono ostinate a rimanere.
Quando mi venne incontro ringraziai tutti i santi del paradiso sperando che venisse a dichiarare il suo amore per me, sostenendo che la sua vita non sarebbe stata più la stessa se si fosse fatta sfuggire questa occasione, ma mi catapultò alla realtà chiedendomi gli orari di apertura e chiusura della villa, domanda alla quale non seppi rispondere consigliando di chiederlo ai custodi all'entrata. Non riuscivo a credere a quello che avevo appena fatto,mi ero fatto sfuggire l'occasione ad un approccio giustificato . Io Giuseppe Tremante che mi lascio scappare un occasione del genere,io Giuseppe Tremante funambolo della parola scritta e parlata rispondevo a questa domanda come un ausiliare del traffico apatico a cui non sono stati riconosciuti gli straordinari degli ultimi sei mesi.
In macchina rilessi l'articolo più volte con la vana speranza di trovare scritto qualcosa che mi era sfuggita in precedenza. Niente da fare era l'articolo più stitico della storia del giornalismo.
Il vantaggio di essere il genero del mio datore di lavoro mi permise di chiamare in ufficio e di dire che non sarei andato per oggi e forse anche per domani. Dovevo ritornare in quella villa, avevo bisogno di rivedere quel posto,come se quel luogo avesse il potere di raccontarmi qualcosa di quella donna. Si in quel luogo avrei trovato le risposte, ma prima di tutto era meglio trovare le domande...
Così, senza un perché e un percome il mio cuore cominciò a pulsare più in fretta. Dove vuole andare? Ricordavo e dipingevo nei miei occhi quella foto, mediocremente asciutta e piccola, un articolo, dico io, si fa così? Non c’è più religione. Sono ateo, infatti. Passo dopo passo arrivai in prossimità del cancello. Ma che volevo vedere? Non lo so, è una sorta di rituale che risiede nel piacere sadico e sottile di veder compiuta l’opera … Semmai l’incompiuta! O, semplicemente, carpirne il lato emozionale e, al contempo, lanciare una sfida di imbecillità con l'auspicio, spesso inconscio, di essere riconosciuto da un amico che, per caso, transitava e aveva anche lui notato quella gran gnocca che mi si era avvicinata ... feticista? Mah!? Tutti lo siamo … ho bisogno di un caffè corposo e caldo in tazzina bollente, amaro. Lo prenderò bestemmiando, come al solito, tanto la Signora Vera, quella del bar, ad ogni mia “santiata” risponde con la lingua appena fuori dalle sue labbra, due pneumatici gonfi alla giusta Atm! Vera. No. Devo andare alla villa. Ma al caffè non si può rinunciare, dico io.
Penso a quando Mariuzza, la mia prima moglie, cugini di cugini, destinati, con la sua faccia da, lasciamo perdere, mi faceva il caffè, quel suo caffè spettacolare! L’unica cosa buona che ricordo di Lei. La cuccuma del “caffè” - come lo chiamava quella grandissima figlia di buona donna che mi ha avvelenato la vita fino a trentaquattro anni e mezzo – che brontola sul fornello, il coperchio ben chiuso, eppure, dal beccuccio, sfugge un profumo speziato, anticipo del pieno aroma, e mi raggiunge aguzzo e sottile, mi penetra i buchi del naso e poi si impadronisce della stanza: un misto di cacao, caffè e cannella. Una goduria senza fine! Poi i cazziutuna! Occhi a mandorla e mani piccole, Mariuzza, sempre vestita con una vestaglia da notte rosa trasparente, con il grembiule legato in vita, quando faceva il caffè era sempre pronta al sorriso. Infine, tendendo quel suo braccio nudo e lungo come un tentacolo di piovra, mi porgeva il caffè e mi diceva sempre: Tè cca u cafè!
Bando ai ricordi, ci siamo quasi. La villa.