C'è assai poco finora, del futuro trionfalmente evocato da Renzi all'Expo, nel padiglione in cui la Sicilia dovrebbe mettersi in mostra capitanando la squadra mediterranea. Acqua e fango prima, scope e palette dopo, e sullo sfondo banchi semivuoti attorniati da allegre comitive di sindaci, assessori e consulenti in gita istituzionale con chef e pasticcieri. Non c'è nemmeno la connessione web, il che rende il terziario avanzato gastronomico celebrato dai siciliani a Milano una copia pallida e meno ottimista della pseudomodernità offerta negli anni Sessanta dalla Fiera del Mediterraneo con l'orgoglioso debutto di pelapatate automatizzati e crêpes al Grand Marnier. Accanto, s'intende, all'eterno, premoderno e affollatissimo padiglione gastronomico (nutrire Palermo, anzitutto).
Ora della Fiera finita nella polvere si annuncia una resurrezione, sia pure in tono minore, con tre padiglioni aperti alle passeggiate accorate degli ultraquarantenni orfani delle mandorle fragolate. E chissà se è un segno di progresso o di nostalgia: di una città che rincorre i fasti dell'Expo globalizzata o al contrario si chiude nel guscio rassicurante dell'amarcord.
Di sicuro, tra i padiglioni lombardo-siculi e quelli palermitani si disputerà un appassionante slalom parallelo tra passato e futuro, tra rimpianti e progetti, tra memoria e sogno. Quel che c'è da augurarsi è che al traguardo non arrivi la solita Sicilia dei cliché: quella che mangia e fa mangiare.
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