giovedì 27 luglio 2017

I grandi dilemmi etici della vita: «Non è vita, liberate la mia Elisa»

Cosa è che fa dire a un genitore "staccate la spina a mia figlia"? Come si può definire un etica della vita capace di arrivare al rispetto della morte di ognuno di noi senza accanimenti terapeutici?, e, di contro, come si può dire di smettere lo stato di coma e lasciar andar via una vita, sapendo che qualcuna di queste esperienze è durata molto a lungo e, infine, si è arrivati alla "rinascita" del paziente? Sono interrogativi e dubbi che ci portiamo dentro fin dalla nascita del pensiero e dell'etica. Noi, come A.C. abbiamo seguito la vicenda di Eluana Englaro e di suo padre. Oggi siamo, ancora, di fronte a un Nuovo «caso Eluana» a Mestre.

Ugo Arioti

Per dovere di coronaca, dobbiamo dire che qui riportiamo l'articolo apparso in questi giorni sul corriere.it , lo facciamo per aprire una interlocuzione e un dibattito.

«Mia figlia in stato vegetativo da 12 anni, ora la legge deve cambiare»

MESTRE Hanno in comune il nome, Giuseppe, e una storia drammatica di quelle «incomprensibili se non si vive in prima persona la situazione». Lo ha urlato per anni il padre di Eluana Englaro, Giuseppe, e oggi lo dice, pacatamente, un altro Giuseppe, di cognome P., che gli amici chiamano Pino, ha 70 anni e vive a Mestre. Sua figlia Elisa, oggi, è una donna di 46 anni ma negli ultimi dodici non ha vissuto una vita normale, non ha mai potuto lavorare, non si è sposata – se mai l’avesse voluto – né ha avuto figli: da quando ha 35 anni si trova in uno stato vegetativo persistente, ossia irreversibile, ed è tenuta in vita, presso l’Antica Scuola Santa Maria dei Battuti di Mestre, con un sondino che l’alimenta e una cannula che le permette di respirare.
«Sono quasi dodici anni che è così, la sua condizione è stata conclamata tre anni dopo l’incidente. Non è più vita, è sofferenza, è il nulla: lo Stato deve fare qualcosa per liberare queste persone». Era il 2006 quand’è iniziato tutto. Era mezzanotte ed Elisa stava tornando a casa da Padova con il suo ragazzo, lui era alla guida (per il dolore, qualche mese dopo si è suicidato) e un colpo di sonno è stato fatale: l’auto si è schiantata su un guardrail, l’allora trentacinquenne ha sbattuto la testa e la sua scatola cranica è finita in mille pezzi. L’intervento dei medici è stato immediato ma c’era poco da fare, la donna aveva perso parti di cervello e calotta.
Per sua figlia non c’è alcuna speranza? «No, nessuna. Vede, ci si abitua al dolore, lo si riesce a sopportare ma le persone che sono nella situazione di Elisa possono solo stare male. Che ci sia un giornata di sole o di pioggia, che nevichi, che sia notte o giorno, loro non lo vedono, non sanno nulla. Mia figlia è a letto, e come lei ci sono tantissime persone, è sempre narcotizzata: è terribile. Non lo auguro a nessuno ma se non si provano queste situazioni, se non le si vivono, non se ne comprende il dramma».
In famiglia avevate mai parlato di cosa avrebbe voluto Elisa in caso di grave incidente o malattia? «Adesso si parla di testamento biologico, all’epoca non se ne discuteva. Non era argomento di conversazione. Ma chiunque, se vedesse la situazione, non vorrebbe che proseguisse, vorrebbe che finisse questa condizione. Purtroppo anche se oggi si affronta il tema del fine vita e c’è una legge in discussione, si parla sempre e solo di persone coscienti. Elisa e le altre undici come lei che soffrono nel Veneziano non possono dirci cosa vorrebbero, io sono il suo amministratore di sostegno e c’è un giudice tutelare per ogni decisione».
Lei cosa vorrebbe? Che fosse lasciata morire? «Vorrei che venisse fatta una legge, che ci fosse comprensione per queste condizioni matiche, che non sono vita. Ma guardi come fu attaccato Englaro. Io non voglio farne una battaglia personale, non è mia figlia il problema, è altro. La signora con cui è in stanza Elisa ha 68 anni ed è così da 17. Di recente Elisa ha avuto una broncopolmonite e l’hanno trasferita e curata per tre settimane al Policlinico San Marco ma Elisa non è questo. Mia figlia era bella, arguta, piacevole. Spiegare con le parole non basta, bisogna vedere per capire perché parlo così».
Si è rivolto a qualcuno per capire cosa potrebbe fare? «Sì, sono andato a Udine allo studio legale che seguì il caso Englaro».
Che le ha detto? «Di portare a casa Elisa, che avrebbe potuto mettermi in contatto con la clinica che si occupò di Eluana. L’avvocato mi ha spiegato che dopo la morte di Englaro le norme sono state irrigidite e, ora, alimentazione e idratazione non sono più considerate accanimento terapeutico. Lui, ci fossero anche pochissime chance, mi aiuterebbe, porterebbe il caso in tribunale. Purtroppo, nella nostra situazione, la causa non tiene e appunto mi ha suggerito di portala a casa».
Lo farà? «No, non voglio. A parte che dovrei attrezzare una stanza. Ma non è questo il nodo, per fortuna non mi mancano i soldi e già supporto economicamente, ci sono le badanti che mi aiutano ad occuparmi di mia figlia. La questione è comunque un’altra».
Cioè? «Vorrei che non si dovesse arrivare a soluzioni estreme. Sono stato contattato dall’associazione Luca Coscioni ma ritengo che non sia giusto dover arrivare a rivolgersi ad un’associazione o a ricorrere a scorciatoie. Se portassi Elisa a casa, con il consenso del giudice... Beh, tutti sanno cosa succede quando un paziente nelle condizioni di mia figlia viene portato a casa. E tutti fanno finta di non sapere, le pare giusto? Il problema di chi si trova in stato vegetativo non viene mai affrontato. Mai. Nemmeno oggi che il dibattito sul testamento biologico è aperto. Io sono una formica in questa vicenda. E come me, ma soprattutto come Elisa, ci sono tante persone: deve esserci un intervento dello Stato».
I medici che le dicono? «Se parlo del problema, mi danno ragione. E basta. Non dicono altro, se non: ha ragione ».

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