Giuseppe Schillaci: "La
solitudine dei ragazzi del '92 saltati tutti in aria"
Ne "L'età
definitiva" l'autore analizza il peso delle stragi di mafia: "Come se
un nostro gemello fosse rimasto tra quelle macerie"
di
ELEONORA LOMBARDO ( da repubblica.it - Palermo)
E' cresciuto a Brancaccio e di
quella periferia cittadina fatta di identità territoriali, della bellezza
sfacciata del castello di Maredolce e delle sue superfetazioni edilizie, del
ponte dell'Ammiraglio sui resti stanchi e paludosi del fiume Oreto, ha fatto le
linee guida della sua poetica per raccontare Palermo e la generazione "
colpevole". Oggi vive a Parigi, è regista di documentari, pronto al
debutto con il primo lungometraggio "di finzione" ed è al suo secondo
romanzo.
Dopo "L'anno delle ceneri", mitopoiesi della Palermo all'inizio del Novecento, Giuseppe Schillaci torna in libreria con "L'età definitiva", edito da Liberaria, racconto della deflagrazione generazionale nel 1992. Domandandogli cosa ne pensa dei suoi concittadini della sua stessa età, Pif, Davide Enia, Alessandro D'Avenia, Corrado Fortuna che hanno affrontato nei loro lavori lo stesso tema, risponde: "Esiste sicuramente una generazione biografica che sta facendo i conti con il 1992, in quell'anno siamo saltati tutti in aria, ma non mi riconosco in nessuna comunità creativa. Usiamo dispositivi narrativi e linguaggi troppo diversi. Non mi interessa raccontare la separazione tra bene e male dopo i fatti del 1992, quello che mi appassiona come uomo è la lotta tra me e me che da quel momento si è innescata. Siamo stati e siamo, in diversa misura, tutti colpevoli".
E' per rappresentare questa dicotomia interiore che nel suo ultimo libro il protagonista ha un gemello che muore proprio nel 1992?
"Assolutamente sì, dopo il 1992 è come se tutti avessimo avuto un gemello che è rimasto in quell'anno. Ne "L'età definitiva" mi interessava mettere a fuoco la sensazione di solitudine cominciata in quel maggio e l'incapacità di stare al mondo che ne è stata conseguenza. Il libro racconta di un tempo che inizia poco prima del '92 e finisce nel 2001, che è l'anno di Genova, e c'è un'idea di tempo ciclico, di eventi che ritornano. Se nel mio primo romanzo avevo raccontato la Palermo mitica, vicina all'infanzia dei miei genitori, in questo ho voluto raccontare la mia di infanzia ".
Che infanzia è stata la sua a Palermo?
"Sono cresciuto a Settecannoli, i miei erano quella borghesia nascente che negli anni '80 ha preso casa nei palazzoni di Corso dei Mille. Si faceva tutto a piedi e si giocava per strada. Noi eravamo " quelli dei palazzi", eravamo "i buoni", e ce la dovevamo vedere con "quelli delle case basse", che rappresentavano "i cattivi". Poche possibilità di commistione, anche se nel nostro gruppo ricordo che entrò uno delle case basse. Noi eravamo i figli della classe media emergente, loro della bassa manovalanza della mafia. Le esplorazioni giravano intorno a Maredolce, "il castello occupato", luogo di fascino perturbante, perché si capiva che era totalmente illecito. Al liceo poi sono andato al Don Bosco, in via Libertà. Arrivarci era un viaggio, ma proprio arrivando lì dalla periferia ti era subito chiaro che tutta Palermo era periferia. Io ero sempre l'espressione della classe media, solo in questo caso mescolato ai figli dei mafiosi "di alto bordo"".
Quando ha deciso di andare via da Palermo?
"Sarei voluto andare via già finito il liceo, ma per una questione economica ho aspettato ancora due anni e a 20 sono andato a finire l'università a Bologna. Ero iscritto in Scienze della Comunicazione, appassionato di semiotica, e allora Bologna era il massimo. Credo che la mia generazione sia l'ultima cresciuta con il valore dell'istruzione, espressione edonista della cultura, quella di studiare per scegliere il lavoro che ti piace"
In cosa era diversa per un universitario Bologna da Palermo?
"A Bologna al bar si parlava di politica, di cosa si poteva fare e non fare, di come collettivamente si poteva cercare un'azione comune. C'era una cultura civica, i problemi non erano mai espressi con un sotteso sentimento del "tiriamo a campare" che spesso avevo anche io avallato a Palermo ".
Quando ha capito che la sua strada sarebbe stata prima il cinema e poi la narrativa?
"Ho cominciato scrivendo racconti, proprio raccontando quell'andare al massacro a Genova, la disgregazione dell'amalgama di intenti che avevamo costruito. Poi mi sono trasferito a Roma e ho lavorato come assistente alla regia. Ho cominciato a fare tutti i set che arrivavano a Palermo, Wenders, Turturro, "Il dolce e l'amaro" di Porporati. E poi ho scritto "L'anno delle ceneri"".
"Apolitcs now" è il documentario, vincitore dell'"Italian Docs Online" nel quale racconta la campagna elettorale per le elezioni a sindaco di Palermo del 2012 vinte poi da Orlando. Qual era l'idea?
"Raccontare il grottesco, la confusione, non solo palermitana ma italiana. L'idea che basta darsi una spolverata e tutto torna nuovo, e la politica del miracolo sempre valida in questa città" .
E adesso?
"Sto lavorando a un film, una co-produzione Italia Francia. Si chiama "Hotel Patria" ed è girato fra la Sicilia e il sud della Francia: vorrei concludere il mio racconto sul perturbante perfettamente rappresentato dalle atmosfere palermitane ".
Dopo "L'anno delle ceneri", mitopoiesi della Palermo all'inizio del Novecento, Giuseppe Schillaci torna in libreria con "L'età definitiva", edito da Liberaria, racconto della deflagrazione generazionale nel 1992. Domandandogli cosa ne pensa dei suoi concittadini della sua stessa età, Pif, Davide Enia, Alessandro D'Avenia, Corrado Fortuna che hanno affrontato nei loro lavori lo stesso tema, risponde: "Esiste sicuramente una generazione biografica che sta facendo i conti con il 1992, in quell'anno siamo saltati tutti in aria, ma non mi riconosco in nessuna comunità creativa. Usiamo dispositivi narrativi e linguaggi troppo diversi. Non mi interessa raccontare la separazione tra bene e male dopo i fatti del 1992, quello che mi appassiona come uomo è la lotta tra me e me che da quel momento si è innescata. Siamo stati e siamo, in diversa misura, tutti colpevoli".
E' per rappresentare questa dicotomia interiore che nel suo ultimo libro il protagonista ha un gemello che muore proprio nel 1992?
"Assolutamente sì, dopo il 1992 è come se tutti avessimo avuto un gemello che è rimasto in quell'anno. Ne "L'età definitiva" mi interessava mettere a fuoco la sensazione di solitudine cominciata in quel maggio e l'incapacità di stare al mondo che ne è stata conseguenza. Il libro racconta di un tempo che inizia poco prima del '92 e finisce nel 2001, che è l'anno di Genova, e c'è un'idea di tempo ciclico, di eventi che ritornano. Se nel mio primo romanzo avevo raccontato la Palermo mitica, vicina all'infanzia dei miei genitori, in questo ho voluto raccontare la mia di infanzia ".
Che infanzia è stata la sua a Palermo?
"Sono cresciuto a Settecannoli, i miei erano quella borghesia nascente che negli anni '80 ha preso casa nei palazzoni di Corso dei Mille. Si faceva tutto a piedi e si giocava per strada. Noi eravamo " quelli dei palazzi", eravamo "i buoni", e ce la dovevamo vedere con "quelli delle case basse", che rappresentavano "i cattivi". Poche possibilità di commistione, anche se nel nostro gruppo ricordo che entrò uno delle case basse. Noi eravamo i figli della classe media emergente, loro della bassa manovalanza della mafia. Le esplorazioni giravano intorno a Maredolce, "il castello occupato", luogo di fascino perturbante, perché si capiva che era totalmente illecito. Al liceo poi sono andato al Don Bosco, in via Libertà. Arrivarci era un viaggio, ma proprio arrivando lì dalla periferia ti era subito chiaro che tutta Palermo era periferia. Io ero sempre l'espressione della classe media, solo in questo caso mescolato ai figli dei mafiosi "di alto bordo"".
Quando ha deciso di andare via da Palermo?
"Sarei voluto andare via già finito il liceo, ma per una questione economica ho aspettato ancora due anni e a 20 sono andato a finire l'università a Bologna. Ero iscritto in Scienze della Comunicazione, appassionato di semiotica, e allora Bologna era il massimo. Credo che la mia generazione sia l'ultima cresciuta con il valore dell'istruzione, espressione edonista della cultura, quella di studiare per scegliere il lavoro che ti piace"
In cosa era diversa per un universitario Bologna da Palermo?
"A Bologna al bar si parlava di politica, di cosa si poteva fare e non fare, di come collettivamente si poteva cercare un'azione comune. C'era una cultura civica, i problemi non erano mai espressi con un sotteso sentimento del "tiriamo a campare" che spesso avevo anche io avallato a Palermo ".
Quando ha capito che la sua strada sarebbe stata prima il cinema e poi la narrativa?
"Ho cominciato scrivendo racconti, proprio raccontando quell'andare al massacro a Genova, la disgregazione dell'amalgama di intenti che avevamo costruito. Poi mi sono trasferito a Roma e ho lavorato come assistente alla regia. Ho cominciato a fare tutti i set che arrivavano a Palermo, Wenders, Turturro, "Il dolce e l'amaro" di Porporati. E poi ho scritto "L'anno delle ceneri"".
"Apolitcs now" è il documentario, vincitore dell'"Italian Docs Online" nel quale racconta la campagna elettorale per le elezioni a sindaco di Palermo del 2012 vinte poi da Orlando. Qual era l'idea?
"Raccontare il grottesco, la confusione, non solo palermitana ma italiana. L'idea che basta darsi una spolverata e tutto torna nuovo, e la politica del miracolo sempre valida in questa città" .
E adesso?
"Sto lavorando a un film, una co-produzione Italia Francia. Si chiama "Hotel Patria" ed è girato fra la Sicilia e il sud della Francia: vorrei concludere il mio racconto sul perturbante perfettamente rappresentato dalle atmosfere palermitane ".
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