Lealtà sportiva. Etica e diritto
Written by Giuseppe Alamia.
1. Fair play, il modo
vincente.
2. La lealtà sportiva: nozione. -
3. La lealtà sportiva:
ambito soggettivo. -
4. La lealtà sportiva tra ordinamento sportivo e
ordinamento statale.
Cenni sul rapporto tra ordinamenti.
1. Fair play, il modo vincente.
“Fair
play, il modo vincente (chi gioca lealmente è sempre vincitore)”: così
inizia e si conclude il Codice di Etica Sportiva del Consiglio d’Europa,
adottato a Rodi il 13-15 maggio 1992 dai Ministri europei responsabili
per lo Sport.
Il bisogno di etica rappresenta un dato oggettivo.
Si
avverte in modo sempre più pressante l’esigenza del rispetto delle
regole intrinsecamente deontologiche in un mondo – quale quello dello
sport – in cui si assiste alla “irresistibile ascesa dell’aggressività” e in cui pare si vada “a gamba tesa su de Coubertin”.
Infatti,
per un verso, si propongono e si affermano nuove pratiche che, pur
definite sportive per attribuire loro una patente di liceità e di
meritevolezza di tutela, mortificano l’uomo in un crescendo di
cattiveria e di aggressività .
Per altro
verso, anche nelle pratiche sportive tradizionali si assiste ad una
sorta di imbarbarimento, per cui si tenta di far diventare
l’aggressività una componente necessaria ed imprescindibile del gioco,
quasi una regola di gioco .
In un
simile scenario, si comprende come i principi etici ed il rispetto delle
regole che li contemplano, prima fra tutte quella della lealtà,
rivendichino prepotentemente il loro ruolo al fine di non consentire lo
snaturamento stesso dello sport.
Invero, il principio di lealtà sportiva non può qualificarsi come un principio etico tout court in quanto lo stesso ha un’intrinseca connotazione giuridica.
Dunque,
la codificazione non serve ad attribuire valenza giuridica ad un
precetto che già la possiede congenitamente ma mira, verosimilmente, a
garantire una più esplicita e manifesta valenza all’essenza
imprescindibile di tutta l’attività sportiva.
In tale
contesto si pone il Codice di comportamento sportivo deliberato dal CONI
il 15 luglio 2004, nel quale vengono specificati “i doveri fondamentali
di lealtà, correttezza e probità” e si prevede che la violazione di
tali doveri costituisca “un grave inadempimento meritevole di adeguate
sanzioni”.
Peraltro, al fine di rafforzarne la portata applicativa, è stato
istituito un Garante del Codice di comportamento sportivo con compiti di
vigilanza, di segnalazione, di istruzione e di irrogazione di sanzioni.
Il
principio di lealtà sportiva, in tal modo, si cristallizza in regole
scritte, la cui violazione origina l’attivazione di un ben definito
procedimento sanzionatorio.
Tuttavia,
la stessa norma non ha un contenuto definitorio e, pertanto, assume
interesse una riflessione sul principio di lealtà sportiva quale
autonoma entità concettuale.
2. La lealtà sportiva: nozione.
Il
principio di lealtà sportiva, per sua stessa natura, non può avere una
vera e propria definizione; non può essere coartato attribuendovi un
contenuto preciso, definitorio e, dunque per ciò stesso, limitativo.
Il principio di lealtà sportiva esprime e riassume in sé lo spirito sportivo e le finalità dello sport.
“Fair play significa molto più che giocare nel rispetto delle regole.
Esso incorpora i concetti di amicizia, di rispetto degli altri e di
spirito sportivo. Il fair play è un modo di pensare, non solo un modo di
comportarsi. Esso comprende la lotta contro l’imbroglio, contro le
astuzie al limite della regola, la lotta al doping, alla violenza (sia
fisica che verbale), allo sfruttamento, alla disuguaglianza delle
opportunità, alla commercializzazione eccessiva e alla corruzione”.
Esso,
quindi, sotto un primo profilo, qualifica l’attività sportiva:
costituendo l’essenza dello sport, deve ritenersi che una pratica o un
comportamento possano qualificarsi sportivi solo se sono informati al
principio di lealtà. Da ciò consegue, a contrario,
che la pratica o il comportamento “sleali” si pongono fuori dello
spirito sportivo e non possono rientrare nell’attività sportiva, potendo
essere ricompresi solo nell’attività di diritto comune.
Sotto un
secondo profilo, inoltre, il principio di lealtà sportiva assume il
ruolo di strumento di valutazione della pratica o del comportamento al
fine di una sua qualificazione in termini di attività “sportiva”. A
prescindere dal rispetto delle regole tecniche, un comportamento può
porsi al di fuori dell’attività sportiva allorché non rispetti il
principio di lealtà sportiva; del pari, un comportamento che violi una
regola tecnica non può, per ciò stesso, essere considerato sleale e,
dunque, non sportivo. Ovviamente, la valutazione va operata caso per
caso alla luce di un’analisi sistematica dell’ordinamento sportivo,
senza che possa negarsi una certa discrezionalità.
Soltanto
alla luce di tali profili, la lealtà sportiva perde la propria
intrinseca connotazione di principio privo di specifico contenuto
definitorio per inverarsi nella definizione e nella valutazione dell’attività
sportiva. D’altronde, l’indeterminatezza propria del concetto di lealtà
sportiva rende il principio funzionale all’ordinamento sportivo,
consentendone un’applicazione anche a casi non specificamente previsti
ed enucleati.
Il
principio di lealtà sportiva, dunque, costituisce il limite insuperabile
e, insieme, il comune denominatore delle attività sportive.
Talvolta è
stato affermato che il Codice di comportamento sportivo sia l’atto
“attraverso il quale i principi etici acquistano uno specifico rilievo
giuridico nel mondo sportivo”.
Tuttavia,
ancor prima dell’emanazione del Codice di comportamento sportivo ed a
prescindere da essa, al principio di lealtà sportiva poteva e può
attribuirsi la natura di principio, oltre che squisitamente etico, anche
giuridico.
Trattandosi
di principio informatore dello stesso ordinamento sportivo, tale da
poter essere qualificato come essenza dell’attività sportiva, non si può
negare che lo stesso abbia sempre rivestito una forza cogente in
siffatto ordinamento.
Segnatamente,
la lealtà sportiva ha sempre configurato una regola di comportamento di
indubbio valore giuridico, imponendo un preciso obbligo di condotta
leale e corretta.
Da ciò consegue che la violazione di tale obbligo è sempre stata
oggetto di valutazione ai fini delle decisioni disciplinari e
sanzionatorie.
In altri
termini, si tratta di una norma codificata nel Codice di comportamento
sportivo, ma che comunque ha sempre tutelato l’ordine giuridico sportivo
quale norma fondamentale di tale ordinamento.
Infatti, in ambito sportivo può generalmente ravvisarsi un costante e
stringente obbligo di rispettare il principio di lealtà e correttezza,
la cui violazione integra e ha integrato un illecito sportivo. Basti
considerare che l’illecito tipico costituito dalla frode sportiva,
caratterizzato da inganno, astuzia o raggiro, rappresenta una violazione
dell’obbligo di lealtà sportiva.
L’inserimento
nel Codice di comportamento sportivo ha solo, dunque, cristallizzato un
principio giuridico immanente ed operante nell’ordinamento sportivo.
D’altronde,
tale principio era già contenuto in numerosi atti normativi sportivi. A
titolo esemplificativo, si può menzionare il punto 6 dei principi
fondamentali della Carta olimpica, statuto dell’ordinamento sportivo
internazionale, che recita testualmente: “Le società e le associazioni
sportive sono soggetti dell’ordinamento sportivo e devono esercitare con
lealtà sportiva le loro attività, osservando i principi, le norme e le
consuetudini sportive, nonché salvaguardando la funzione popolare,
educativa, sociale e culturale dello sport”.
Chi, come Carnelutti,
vede incompatibilità tra diritto e sport sostiene che sia il fair play e
non la norma a governare lo sport. La lealtà sportiva, dunque, posta in
contrapposizione netta rispetto al precetto giuridico.
E Marini,
in un suo scritto, ricorda come “M.S. Giannini afferma che i principi
etici nell’ordinamento statale rimangono principi etici, mentre si
trasformano in principi giuridici nell’ordinamento sportivo”.
Di certo, la natura dei precetti deontologici – qual è il principio di lealtà sportiva – è stata sempre discussa.
Spesso le norme deontologiche sono state ritenute precetti extragiuridici,
vincolanti soltanto nel momento in cui vengono violati e sanzionati:
“non è la norma in sé, ma la sua violazione, che è produttiva di effetti
giuridici”.
Dunque, regole interne che, come fonti metagiuridiche, non possono
trasformarsi in fonti dell’ordinamento giuridico statale, in mancanza di
un’espressa previsione legislativa.
In altri
termini, può fondatamente ritenersi che il principio di lealtà sportiva
abbia un significato pregiuridico in quanto risente di una indubbia
identificazione con stati etici. Tuttavia, anche a voler attribuire alla
lealtà sportiva la nozione di fatto giuridico, cioè fatto dell’ordine
naturale, valutato dal diritto,
e quindi il significato di una regola geneticamente non giuridica, non
può negarsi che la stessa sia giuridicamente rilevante e, pertanto,
pacificamente la sua violazione determina l’irrogazione di sanzioni
giuridiche.
D’altronde,
un principio pregiuridico e di connotazione etica può ben ritenersi
giuridicamente rilevante quale regola di condotta.
Il
principio di lealtà sportiva, invero, oltre a costituire un principio
etico, ben può riportarsi nell’alveo giuridico delle clausole generali.
Così come ritenuto in dottrina con riguardo al principio di correttezza
e di buona fede in senso oggettivo, si tratta, da un lato, di una
regola di comportamento oggettivamente valutabile e, dall’altro, di un
parametro di valutazione della legittimità di un comportamento.
La lealtà
sportiva, quale clausola generale, ha un contenuto intrinsecamente
precettivo, sia pure elastico, duttile e rimesso alla “concretizzazione”
che ne viene operata dall’interprete. Essa, nell’ordinamento giuridico
sportivo, ha una funzione integrativa, in quanto autonoma fonte di
obblighi, nonché una funzione valutativa, in quanto impone specifici
criteri di valutazione.
Pur non
avendo una portata definitoria compiuta e precostituita, il principio di
lealtà sportiva è proprio la clausola generale che consente al sistema
di essere sempre coeso a prescindere dalle peculiarità delle pratiche
sportive e dal concreto atteggiarsi delle regole tecniche in ciascuno
sport operanti. In tal senso, come è stato evidenziato dalla dottrina
relativamente al principio generale della correttezza e della buona
fede, con il quale sono evidenti l’analogia e l’assimilabilità
concettuale, può ritenersi che la lealtà sportiva rappresenti una
clausola di “chiusura” del sistema, “poiché evita di dover considerare
permesso ogni comportamento che nessuna norma vieta e facoltativo ogni
comportamento che nessuna norma rende obbligatorio.”
Essa ha
una funzione, inoltre, integrativa, correttiva e solidaristica: i
comportamenti e le stesse regole sono sempre sottoposti al vincolo di
lealtà alla luce del quale vanno disciplinati, valutati e interpretati.
Peraltro,
non può convenirsi con coloro che ritengono che la clausola generale
sia astrattamente priva di contenuto e che valga come sussidio
interpretativo, per cui acquisterebbe contenuti diversi a seconda della
fattispecie e dell’interprete. Il principio di lealtà sportiva, pur essendo un criterio a contenuto non predeterminato,
postula correttezza, rispetto delle regole e rispetto dell’altro
(avversario, compagno o terzo), che possono atteggiarsi in modo
specifico a seconda della fattispecie concreta, dell’interprete, del
contesto senza però che sia possibile “creare” una lealtà per ogni
singolo caso.
La lealtà
impone correttezza, il cui apprezzamento rimanda al criterio
dell’affidamento e si traduce sempre in precisi doveri di fare o non
fare.
3. La lealtà sportiva: ambito soggettivo.
La qualificazione
del principio di lealtà sportiva quale norma giuridica dell’ordinamento
sportivo pone il problema dell’individuazione dei soggetti destinatari
dell’obbligo che da essa promana e, quindi, della delimitazione
dell’ambito soggettivo di operatività.
In prima
approssimazione, può ritenersi che sono tenuti al rispetto della norma
coloro che fanno parte dell’ordinamento sportivo e che, di conseguenza,
possono qualificarsi soggetti di tale ordinamento.
Considerato
l’ordinamento sportivo come un ordinamento di categoria su base
essenzialmente volontaria, può concludersi che il principio di lealtà
sportiva debba essere rispettato quale regola cogente solo da coloro che
fanno parte di tale ordinamento in forza di un loro atto di volontà. In
simile contesto, solo un atto tipico, quale il tesseramento o
l’affiliazione, può ritenersi idoneo ad attribuire soggettività
sportiva. Ne conseguirebbe che solo i tesserati e gli affiliati, in
quanto soggetti dell’ordinamento sportivo, sarebbero tenuti al rispetto
del principio di lealtà sportiva.
Tuttavia, non può
sottacersi che lo stesso Codice di comportamento sportivo amplia la
propria portata applicativa, oltre che a tesserati e affiliati, anche ad
“altri soggetti dell’ordinamento sportivo”, in tal modo lasciando implicitamente intendere che possano esserci soggetti di tale ordinamento non tesserati o affiliati.
D’altronde, come
precisato, la lealtà sportiva costituisce essenza dello sport e, dunque,
si tratta di un principio insito in qualunque pratica che voglia
definirsi sportiva, sia essa svolta a livello agonistico che a livello
amatoriale. In questo contesto, tutti coloro che operano nello sport, a
qualsiasi livello ed a qualsiasi titolo, assumono una “responsabilità
rispetto al fair play”.
La dottrina più
sensibile, pur consapevole della difficoltà di delimitare
soggettivamente l’ordinamento sportivo, in esso comunque ricomprende
genericamente gli operatori e le istituzioni dello sport, escludendo il
“vasto popolo dello sport” non meglio ed ulteriormente specificato.
Di certo, non può
negarsi che soggetti non strutturati nell’ordinamento sportivo, in
quanto non tesserati o non affiliati, possano di fatto praticare
un’attività sportiva applicando le regole ed i principi che
nell’ordinamento sportivo disciplinano tale attività. Ebbene, i soggetti
che pongono in essere un’attività sportiva accettano e fanno proprio il
principio di lealtà sportiva, essendo esso connaturato a tale tipo di
attività. Quindi anche i soggetti non strutturati sono tenuti
all’osservanza del fair play allorché decidano di praticare un’attività
sportiva.
Del pari, non può
escludersi che vi siano attività motorie, qualificabili come sportive,
pur al di fuori dello sport istituzionalizzato. Anche in questo caso
siamo in presenza di un’attività sportiva, come tale caratterizzata
dalla cogenza del principio di lealtà sportiva.
Sotto un primo
profilo, si può ritenere, dunque, che un’attività sportiva possa essere
svolta da soggetti non affiliati o tesserati.
Sotto un secondo
profilo, si può ritenere, altresì, che un’attività sportiva possa essere
svolta fuori dall’ambito dell’organizzazione del C.O.N.I.
In simile contesto,
il tesseramento o l’affiliazione attribuiscono la soggettività
nell’ordinamento sportivo, così come il riconoscimento di un’attività da
parte del C.O.N.I. è elemento sufficiente a far ritenere sportiva tale
attività.
Tuttavia, il
principio di lealtà sportiva deve ritenersi operante anche con riguardo a
soggetti che, sia pur non strutturati, pratichino un’attività sportiva
ovvero con riguardo a soggetti che pratichino attività qualificabili
come sportive, pur se non istituzionalizzate.
Ciò precisato, è
necessario operare delle ulteriori delimitazioni per evitare che
qualunque fenomeno, che si autodefinisca sportivo, e qualunque soggetto,
non meglio definito, che pratichi una disciplina sportiva, possano tout court farsi rientrare nell’ambito dell’ordinamento sportivo.
Una siffatta delimitazione non può prescindere dalla definizione di attività sportiva, in mancanza di una nozione di sport unanimemente condivisa.
Come ritenuto dalla dottrina,
sotto il profilo oggettivo, un’attività può definirsi sportiva se si
concreta in una competizione svolta secondo regole tecniche prefissate,
che ne disciplinino il contenuto e le modalità di svolgimento, nel pieno
rispetto del principio di lealtà sportiva. Sotto il profilo soggettivo,
l’attività sportiva deve essere svolta, previa adeguata preparazione
fisica, con impegno e serietà d’intenti, perseguendo il fine competitivo
di superamento dei propri record.
A contrario, non
può definirsi sportiva un’attività non disciplinata da regole tecniche
improntate al principio di lealtà sportiva, occasionale, esclusivamente
ludico-ricreativa o effettuata per fini meramente spettacolistici.
In conclusione,
circa l’ambito soggettivo di riferimento, possiamo ritenere che il
principio di lealtà sportiva esplichi la propria forza cogente non solo
all’interno dell’ordinamento sportivo istituzionalizzato e nei confronti
dei soggetti in esso strutturati, ma anche nel contesto di attività
qualificabili come sportive, poste in essere con un fine competitivo da
soggetti organizzati e preparati.
4. La lealtà sportiva tra ordinamento sportivo e ordinamento statale. Cenni sul rapporto tra ordinamenti.
Il
costante dibattito sulla natura dell’ordinamento sportivo è ampio e
variegato. Da esso, peraltro, discende la problematica, avvertita e
discussa dai giuristi, relativa al rapporto tra ordinamento sportivo e
ordinamento statale.
Sta di
fatto che due elementi fondamentali caratterizzano l’ambito sportivo:
per un verso, è inopinabile che lo sport, inteso quale attività
competitiva dettata da regole tecniche uniformi e ispirata al principio
di lealtà sportiva, preesista sia all’ordinamento statale che allo
stesso ordinamento sportivo;
per altro verso, è del pari incontestabile che lo sport abbia un
carattere transnazionale, una vocazione universale che rende il mondo
dello sport disciplinato da regole e comportamenti uniformi in una
dimensione internazionale.
Tali
caratteri attribuiscono all’ordinamento sportivo una spiccata ed
imprescindibile autonomia, di fatto poco compatibile con una eventuale
natura derivata dall’ordinamento statale che ad esso delega la
regolamentazione della materia dello sport.
Sul punto, il contributo della dottrina è articolato e variegato.
L’ordinamento sportivo può ritenersi un ordinamento di settore, come tale autonomo ma non indipendente dall’ordinamento statale; possono coesistere ordinamenti con competenze distinte che si integrano, convergono e si riconoscono reciprocamente.
L’ordinamento statale ha il compito anche di organizzare le autonomie
affidando ad esse l’autodisciplina; l’autogoverno sportivo, preesistente
e dotato di una propria intrinseca giuridicità, viene così riconosciuto
e ospitato nell’ordinamento statale.
In sintesi, l’ordinamento sportivo è “un ordinamento settoriale
nell’ambito del più generale ordinamento giuridico della Repubblica”;
si tratta di un ordinamento che manifesta la propria autonomia
nell’elaborazione di regole vincolanti di comportamento, di
organizzazione, tecniche.
Considerata
la natura internazionale e preesistente all’ordinamento statale, vi è
chi sostiene anche che non soltanto si debba riconoscere autonomia
all’ordinamento sportivo ma addirittura si debba ritenere che esso sia
originario, non ripetendo la propria validità da alcuna fonte superiore .
Pur
riconoscendo ampia autonomia all’ordinamento sportivo, vi è, ancora, chi
lo ritiene una sorta di manifestazione sintomatica del c.d. diritto dei
privati,
disciplinato da norme organizzative di tipo negoziale. In forza del
criterio di sussidiarietà, la materia sportiva diviene di competenza del
regolatore privato; la fonte privata è così abilitata a regolamentare,
in via esclusiva o concorrente rispetto alla legge, uno specifico
settore e gli atti di autonomia regolamentare operano in tale settore
con la stessa forza della legge. Nel sistema delle fonti, di tal guisa argomentando, viene meno la “esclusiva statualità del diritto”
in quanto un posto ed un ruolo vengono assegnati alle cc.dd. fonti di
derivazione privata. In un sistema che riconosce pluralità di fonti,
l’ordinamento statale riconosce ed autorizza la creazione di norme da
parte di autonomie privatistiche; ciò avviene con riguardo alla materia
sportiva. Ne consegue, a ben guardare, che non si può parlare di un
ordinamento sportivo in senso tecnico in quanto esso non dispone di
un’autonoma legittimazione, bensì gode di un riconoscimento da parte
dell’ordinamento statale che gli conferisce autonomia ma non
indipendenza.
Invero, e
non volendo approfondire in questa sede siffatta tematica, non v’è
dubbio che l’ordinamento sportivo debba ritenersi autonomo, a
prescindere dalla natura che allo stesso si voglia attribuire (sia quale
ordinamento in senso tecnico che quale ordinamento in senso lato in una
soluzione privatistica).
Il
problema, dunque, si sposta su un piano diverso: quali confini possono
essere delineati all’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto
all’ordinamento di diritto comune.
Ebbene, il nodo gordiano dei rapporti tra i due ordinamenti non può ritenersi ancora sciolto.
All’ordinamento
sportivo deve riconoscersi una matrice costituzionale e una matrice
transnazionale. L’ordinamento sportivo nazionale, pur se autonomo, vive
nell’ordinamento statale e, pertanto, a questo deve comunque
conformarsi. Ciò, però, non rappresenta un limite all’autonomia bensì,
come sottolineato da accorta dottrina,
costituisce “l’espressione di una modalità di esercizio dell’autonomia
stessa”. D’altronde, non necessariamente autonomia ed indipendenza di un
ordinamento significano conflitto e contraddizione rispetto ad altro
ordinamento.
Si può
affermare, con serenità, che l’ordinamento sportivo abbia una nicchia di
competenza assolutamente impermeabile rispetto all’ordinamento statale:
le regole tecniche. Le norme che disciplinano l’organizzazione e lo
svolgimento delle gare nonché le norme disciplinari promanano
dall’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione
dell’ordinamento sportivo internazionale, e, dunque, sfuggono al
condizionamento da parte dell’ordinamento statale.
A tal proposito, sia in dottrina che in giurisprudenza, talvolta si è
affermata la “indifferenza” per l’ordinamento statale delle norme
tecniche e disciplinari.
Tuttavia,
sotto altro profilo, l’autonomia dell’ordinamento sportivo non può
spingersi sino a soffocare la rilevanza per l’ordinamento statale delle
vicende sportive che incidono, sia in modo immediato che in modo
riflesso, su posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittim.
Proprio in simili ipotesi si pone l’estrema difficoltà di una actio finium regundorum.
La
Consulta in una recente sentenza ha, al riguardo, affermato che, dinanzi
a situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale,
l’autonomia dell’ordinamento sportivo “recede” lasciando il passo a
forme di tutela statale, segnatamente di natura risarcitoria.
Infine,
in una prospettiva non solo squisitamente patologica, l’ordinamento
giuridico statale può intervenire nella materia sportiva, ma per fini
suoi propri, non sempre e non necessariamente sovrapponibili a quelli
perseguiti dall’ordinamento sportivo. Quest’ultimo, d’altronde, non
sempre e non necessariamente si lascia permeare dalle norme statali. In
forza della propria autonomia e della propria vocazione internazionale,
invero, l’ordinamento sportivo, in un’eventuale ipotesi di
contrapposizione tra regole inconciliabili, può assumere una posizione
di supremazia per cui l’ordinamento statale può essere costretto ad
uniformarsi a quello sportivo.
In una
prospettiva diversa, tuttavia, deve affermarsi che le regole dal
contenuto etico e, quindi, assimilabili alle clausole generali, proprie
di un ordinamento settoriale, possano assumere il rango di norme di
diritto nell’ordinamento statale.
Il rinvio o il richiamo di una norma etica dell’ordinamento di settore
operati dall’ordinamento statale, di per sé, possono ritenersi idonei ad
attribuire rilievo giuridico a tale norma.
In altri termini, il principio deontologico assume valore di legge
nell’ordinamento statale nel momento in cui ad esso il legislatore
rinvii attribuendovi, anche implicitamente, una funzione integrativa e
valutativa.
Parimenti è a dirsi per l’ipotesi in cui il giudice motivi la decisione facendo applicazione di tale principio.
Così è in effetti per il principio di lealtà sportiva.
Nei
giudizi di responsabilità civile e penale, instaurati a seguito della
realizzazione di eventi lesivi nell’ambito o in occasione di una
competizione sportiva, proprio la violazione del dovere di lealtà
sportiva viene considerata fonte di responsabilità.
Nella
responsabilità penale, la giurisprudenza ha attribuito decisiva
rilevanza alla condotta che travalichi i limiti segnati dalle regole del
gioco e, soprattutto, il principio di lealtà e correttezza sportiva.
E, nell’ambito del reato di frode sportiva, è stato evidenziato come il
bene tutelato sia il risultato “leale” (prima ancora che corretto, in
quanto ottenuto rispettando le regole del gioco), il “genuino
svolgimento della competizione” nel rispetto dei principi di lealtà e
correttezza.
Tale reato, in definitiva, da un lato finisce con l’incrementare
l’aspettativa di correttezza, dall’altro la qualifica in termini di
rilevanza giuridica.
Nella
responsabilità civile, l’illegittimità del comportamento deriva proprio
dalla violazione del dovere di lealtà. La mera violazione delle regole
del gioco non comporta, in tale contesto, un’automatica illegittimità
del comportamento, essendo necessaria, per la configurabilità di
un’ipotesi di responsabilità, una violazione grave del dovere di lealtà.
D’altronde, una condotta trasmodante che oltrepassa i confini della
lealtà sportiva integra un comportamento che si pone al di fuori
dell’ordinamento sportivo e che rileva, dunque, esclusivamente
nell’ordinamento comune. “Non la volontarietà del fallo dunque rileva né
che violazione della regola di gioco vi sia stata o non, ma lo stretto
rapporto di collegamento funzionale fra gioco ed evento lesivo. Se
l’atto è posto in essere allo scopo di provocare lesioni, quella
relazione viene senz’altro a mancare pur se l’azione non integri un
fallo di gioco, per l’ovvia ragione che non rientra fra le sue
caratteristiche che un partecipante volontariamente provochi lesioni ad
altro giocatore. E viene del pari meno se il giocatore, pur non volendo
provocare lesioni, faccia tuttavia ricorso ad una violenza di tipo tale
da non essere compatibile con le caratteristiche proprie del gioco nel
contesto nel quale esso si svolge. Sicché in entrambi i casi sarà
civilmente responsabile del danno provocato, rispettivamente a titolo di
dolo o di colpa.
Infine, la violazione del principio di lealtà, di probità e di rettitudine sportiva, cui è tenuto, tra gli altri, l’allenatore, è stata considerata “un frammento della condotta mobizzante”.
Va da sé
che la valutazione della violazione del principio di lealtà sportiva, ai
fini di una pronuncia di responsabilità, è rimessa al giudice. Compete
infatti a quest’ultimo stabilire se nella fattispecie concreta posta al
suo giudizio sia ravvisabile quella grave slealtà da sola idonea a far
ritenere reciso lo spirito sportivo tanto da essere al cospetto di
un’attività di diritto comune.
Quindi
spetta all’interprete concretizzare contenutisticamente la clausola
generale di lealtà sportiva al fine di valutare la legittimità o meno
dei comportamenti.
In tal
senso il principio di lealtà sportiva acquista compiutezza non solo come
autonoma fonte di doveri di comportamento ma anche come parametro di
valutazione della condotta dei soggetti dell’ordinamento sportivo.
Nessun commento:
Posta un commento