martedì 17 maggio 2016

Lealtà sportiva. Etica e diritto

 

Lealtà sportiva. Etica e diritto

Written by Giuseppe Alamia.

 1. Fair play, il modo vincente.
 2. La lealtà sportiva: nozione. - 
 3.  La lealtà sportiva: ambito soggettivo.  - 
 4. La lealtà sportiva tra ordinamento sportivo e ordinamento statale. 
     Cenni sul rapporto tra ordinamenti.   

1. Fair play, il modo vincente.
“Fair play, il modo vincente (chi gioca lealmente è sempre vincitore)”: così inizia e si conclude il Codice di Etica Sportiva del Consiglio d’Europa, adottato a Rodi il 13-15 maggio 1992 dai Ministri europei responsabili per lo Sport.
Il bisogno di etica rappresenta un dato oggettivo.
Si avverte in modo sempre più pressante l’esigenza del rispetto delle regole intrinsecamente deontologiche in un mondo – quale quello dello sport – in cui si assiste alla “irresistibile ascesa dell’aggressività” e in cui pare si vada “a gamba tesa su de Coubertin”.
Infatti, per un verso, si propongono e si affermano nuove pratiche che, pur definite sportive per attribuire loro una patente di liceità e di meritevolezza di tutela, mortificano l’uomo in un crescendo di cattiveria e di aggressività .
Per altro verso, anche nelle pratiche sportive tradizionali si assiste ad una sorta di imbarbarimento, per cui si tenta di far diventare l’aggressività una componente necessaria ed imprescindibile del gioco, quasi una regola di gioco .
In un simile scenario, si comprende come i principi etici ed il rispetto delle regole che li contemplano, prima fra tutte quella della lealtà, rivendichino prepotentemente il loro ruolo al fine di non consentire lo snaturamento stesso dello sport.
Invero, il principio di lealtà sportiva non può qualificarsi come un principio etico tout court in quanto lo stesso ha un’intrinseca connotazione giuridica.
Dunque, la codificazione non serve ad attribuire valenza giuridica ad un precetto che già la possiede congenitamente ma mira, verosimilmente, a garantire una più esplicita e manifesta valenza all’essenza imprescindibile di tutta l’attività sportiva.
In tale contesto si pone il Codice di comportamento sportivo deliberato dal CONI il 15 luglio 2004, nel quale vengono specificati “i doveri fondamentali di lealtà, correttezza e probità” e si prevede che la violazione di tali doveri costituisca “un grave inadempimento meritevole di adeguate sanzioni”. Peraltro, al fine di rafforzarne la portata applicativa, è stato istituito un Garante del Codice di comportamento sportivo con compiti di vigilanza, di segnalazione, di istruzione e di irrogazione di sanzioni.
Il principio di lealtà sportiva, in tal modo, si cristallizza in regole scritte, la cui violazione origina l’attivazione di un ben definito procedimento sanzionatorio.
Tuttavia, la stessa norma non ha un contenuto definitorio e, pertanto, assume interesse una riflessione sul principio di lealtà sportiva quale autonoma entità concettuale.  
2. La lealtà sportiva: nozione.
Il principio di lealtà sportiva, per sua stessa natura, non può avere una vera e propria definizione; non può essere coartato attribuendovi un contenuto preciso, definitorio e, dunque per ciò stesso, limitativo.
Il principio di lealtà sportiva esprime e riassume in sé lo spirito sportivo e le finalità dello sport. “Fair play significa molto più che giocare nel rispetto delle regole. Esso incorpora i concetti di amicizia, di rispetto degli altri e di spirito sportivo. Il fair play è un modo di pensare, non solo un modo di comportarsi. Esso comprende la lotta contro l’imbroglio, contro le astuzie al limite della regola, la lotta al doping, alla violenza (sia fisica che verbale), allo sfruttamento, alla disuguaglianza delle opportunità, alla commercializzazione eccessiva e alla corruzione”.
Esso, quindi, sotto un primo profilo, qualifica l’attività sportiva: costituendo l’essenza dello sport, deve ritenersi che una pratica o un comportamento possano qualificarsi sportivi solo se sono informati al principio di lealtà. Da ciò consegue, a contrario, che la pratica o il comportamento “sleali” si pongono fuori dello spirito sportivo e non possono rientrare nell’attività sportiva, potendo essere ricompresi solo nell’attività di diritto comune.       
Sotto un secondo profilo, inoltre, il principio di lealtà sportiva assume il ruolo di strumento di valutazione della pratica o del comportamento al fine di una sua qualificazione in termini di attività “sportiva”. A prescindere dal rispetto delle regole tecniche, un comportamento può porsi al di fuori dell’attività sportiva allorché non rispetti il principio di lealtà sportiva; del pari, un comportamento che violi una regola tecnica non può, per ciò stesso, essere considerato sleale e, dunque, non sportivo. Ovviamente, la valutazione va operata caso per caso alla luce di un’analisi sistematica dell’ordinamento sportivo, senza che possa negarsi una certa discrezionalità.
Soltanto alla luce di tali profili, la lealtà sportiva perde la propria intrinseca connotazione di principio privo di specifico contenuto definitorio  per inverarsi nella definizione e nella valutazione dell’attività sportiva. D’altronde, l’indeterminatezza propria del concetto di lealtà sportiva rende il principio funzionale all’ordinamento sportivo, consentendone un’applicazione anche a casi non specificamente previsti ed enucleati.
Il principio di lealtà sportiva, dunque, costituisce il limite insuperabile e, insieme, il comune denominatore delle attività sportive.
Talvolta è stato affermato che il Codice di comportamento sportivo sia l’atto “attraverso il quale i principi etici acquistano uno specifico rilievo giuridico nel mondo sportivo”.
Tuttavia, ancor prima dell’emanazione del Codice di comportamento sportivo ed a prescindere da essa, al principio di lealtà sportiva poteva e può attribuirsi la natura di principio, oltre che squisitamente etico, anche giuridico.
Trattandosi di principio informatore dello stesso ordinamento sportivo, tale da poter essere qualificato come essenza dell’attività sportiva, non si può negare che lo stesso abbia sempre rivestito una forza cogente in siffatto ordinamento.
Segnatamente, la lealtà sportiva ha sempre configurato una regola di comportamento di indubbio valore giuridico, imponendo un preciso obbligo di condotta leale e corretta. Da ciò consegue che la violazione di tale obbligo è sempre stata oggetto di valutazione ai fini delle decisioni disciplinari e sanzionatorie
In altri termini, si tratta di una norma codificata nel Codice di comportamento sportivo, ma che comunque ha sempre tutelato l’ordine giuridico sportivo quale norma fondamentale di tale ordinamento. Infatti, in ambito sportivo può generalmente ravvisarsi un costante e stringente obbligo di rispettare il principio di lealtà e correttezza, la cui violazione integra e ha integrato un illecito sportivo. Basti considerare che l’illecito tipico costituito dalla frode sportiva, caratterizzato da inganno, astuzia o raggiro, rappresenta una violazione dell’obbligo di lealtà sportiva.
L’inserimento nel Codice di comportamento sportivo ha solo, dunque, cristallizzato un principio giuridico immanente ed operante nell’ordinamento sportivo.
D’altronde, tale principio era già contenuto in numerosi atti normativi sportivi. A titolo esemplificativo, si può menzionare il punto 6 dei principi fondamentali della Carta olimpica, statuto dell’ordinamento sportivo internazionale, che recita testualmente: “Le società e le associazioni sportive sono soggetti dell’ordinamento sportivo e devono esercitare con lealtà sportiva le loro attività, osservando i principi, le norme e le consuetudini sportive, nonché salvaguardando la funzione popolare, educativa, sociale e culturale dello sport”.
Chi, come Carnelutti, vede incompatibilità tra diritto e sport sostiene che sia il fair play e non la norma a governare lo sport. La lealtà sportiva, dunque, posta in contrapposizione netta rispetto al precetto giuridico.
E Marini, in un suo scritto, ricorda come “M.S. Giannini afferma che i principi etici nell’ordinamento statale rimangono principi etici, mentre si trasformano in principi giuridici nell’ordinamento sportivo”.
Di certo, la natura dei precetti deontologici – qual è il principio di lealtà sportiva – è stata sempre discussa.
Spesso le norme deontologiche sono state ritenute precetti extragiuridici, vincolanti soltanto nel momento in cui vengono violati e sanzionati: “non è la norma in sé, ma la sua violazione, che è produttiva di effetti giuridici”. Dunque, regole interne che, come fonti metagiuridiche, non possono trasformarsi in fonti dell’ordinamento giuridico statale, in mancanza di un’espressa previsione legislativa.
In altri termini, può fondatamente ritenersi che il principio di lealtà sportiva abbia un significato pregiuridico in quanto risente di una indubbia identificazione con stati etici. Tuttavia, anche a voler attribuire alla lealtà sportiva la nozione di fatto giuridico, cioè fatto dell’ordine naturale, valutato dal diritto, e quindi il significato di una regola geneticamente non giuridica, non può negarsi che la stessa sia giuridicamente rilevante e, pertanto, pacificamente la sua violazione determina l’irrogazione di sanzioni giuridiche.
D’altronde, un principio pregiuridico e di connotazione etica può ben ritenersi giuridicamente rilevante quale regola di condotta.    
Il principio di lealtà sportiva, invero, oltre a costituire un principio etico, ben può riportarsi nell’alveo giuridico delle clausole generali. Così come ritenuto in dottrina con riguardo al principio di correttezza e di buona fede in senso oggettivo, si tratta, da un lato, di una regola di comportamento oggettivamente valutabile e, dall’altro, di un parametro di valutazione della legittimità di un comportamento.
La lealtà sportiva, quale clausola generale, ha un contenuto intrinsecamente precettivo, sia pure elastico, duttile e rimesso alla “concretizzazione” che ne viene operata dall’interprete.  Essa, nell’ordinamento giuridico sportivo, ha una funzione integrativa, in quanto autonoma fonte di obblighi, nonché una funzione valutativa, in quanto impone specifici criteri di valutazione.
Pur non avendo una portata definitoria compiuta e precostituita, il principio di lealtà sportiva è proprio la clausola generale che consente al sistema di essere sempre coeso a prescindere dalle peculiarità delle pratiche sportive e dal concreto atteggiarsi delle regole tecniche in ciascuno sport operanti. In tal senso, come è stato evidenziato dalla dottrina relativamente al principio generale della correttezza e della buona fede, con il quale sono evidenti l’analogia e l’assimilabilità concettuale, può ritenersi che la lealtà sportiva rappresenti una clausola di “chiusura” del sistema, “poiché evita di dover considerare permesso ogni comportamento che nessuna norma vieta e facoltativo ogni comportamento che nessuna norma rende obbligatorio.”
Essa ha una funzione, inoltre, integrativa, correttiva e solidaristica: i comportamenti e le stesse regole sono sempre sottoposti al vincolo di lealtà alla luce del quale vanno disciplinati, valutati e interpretati.
Peraltro, non può convenirsi con coloro che ritengono che la clausola generale sia astrattamente priva di contenuto e che valga come sussidio interpretativo, per cui acquisterebbe contenuti diversi a seconda della fattispecie e dell’interprete. Il principio di lealtà sportiva, pur essendo un criterio a contenuto non predeterminato, postula correttezza, rispetto delle regole e rispetto dell’altro (avversario, compagno o terzo), che possono atteggiarsi in modo specifico a seconda della fattispecie concreta, dell’interprete, del contesto senza però che sia possibile “creare” una lealtà per ogni singolo caso.
La lealtà impone correttezza, il cui apprezzamento rimanda al criterio dell’affidamento e si traduce sempre in precisi doveri di fare o non fare.
3. La lealtà sportiva: ambito soggettivo.
La qualificazione del principio di lealtà sportiva quale norma giuridica dell’ordinamento sportivo pone il problema dell’individuazione dei soggetti destinatari dell’obbligo che da essa promana e, quindi, della delimitazione dell’ambito soggettivo di operatività.
In prima approssimazione, può ritenersi che sono tenuti al rispetto della norma coloro che fanno parte dell’ordinamento sportivo e che, di conseguenza, possono qualificarsi soggetti di tale ordinamento.
Considerato l’ordinamento sportivo come un ordinamento di categoria su base essenzialmente volontaria, può concludersi che il principio di lealtà sportiva debba essere rispettato quale regola cogente solo da coloro che fanno parte di tale ordinamento in forza di un loro atto di volontà. In simile contesto, solo un atto tipico, quale il tesseramento o l’affiliazione, può ritenersi idoneo ad attribuire soggettività sportiva. Ne conseguirebbe che solo i tesserati e gli affiliati, in quanto soggetti dell’ordinamento sportivo, sarebbero tenuti al rispetto del principio di lealtà sportiva.
Tuttavia, non può sottacersi che lo stesso Codice di comportamento sportivo amplia la propria portata applicativa, oltre che a tesserati e affiliati, anche ad “altri soggetti dell’ordinamento sportivo”, in tal modo lasciando implicitamente intendere che possano esserci soggetti di tale ordinamento non tesserati o affiliati.
D’altronde, come precisato, la lealtà sportiva costituisce essenza dello sport e, dunque, si tratta di un principio insito in qualunque pratica che voglia definirsi sportiva, sia essa svolta a livello agonistico che a livello amatoriale. In questo contesto, tutti coloro che operano nello sport, a qualsiasi livello ed a qualsiasi titolo, assumono una “responsabilità rispetto al fair play”.
La dottrina più sensibile, pur consapevole della difficoltà di delimitare soggettivamente l’ordinamento sportivo, in esso comunque ricomprende genericamente gli operatori e le istituzioni dello sport, escludendo il “vasto popolo dello sport” non meglio ed ulteriormente specificato.
Di certo, non può negarsi che soggetti non strutturati nell’ordinamento sportivo, in quanto non tesserati o non affiliati, possano di fatto praticare un’attività sportiva applicando le regole ed i principi che nell’ordinamento sportivo disciplinano tale attività. Ebbene, i soggetti che pongono in essere un’attività sportiva accettano e fanno proprio il principio di lealtà sportiva, essendo esso connaturato a tale tipo di attività. Quindi anche i soggetti non strutturati sono tenuti all’osservanza del fair play allorché decidano di praticare un’attività sportiva.
Del pari, non può escludersi che vi siano attività motorie, qualificabili come sportive, pur al di fuori dello sport istituzionalizzato. Anche in questo caso siamo in presenza di un’attività sportiva, come tale caratterizzata dalla cogenza del principio di lealtà sportiva.  
Sotto un primo profilo, si può ritenere, dunque, che un’attività sportiva possa essere svolta da soggetti non affiliati o tesserati.
Sotto un secondo profilo, si può ritenere, altresì, che un’attività sportiva possa essere svolta fuori dall’ambito dell’organizzazione del C.O.N.I.
In simile contesto, il tesseramento o l’affiliazione attribuiscono la soggettività nell’ordinamento sportivo, così come il riconoscimento di un’attività da parte del C.O.N.I. è elemento sufficiente a far ritenere sportiva tale attività.
Tuttavia, il principio di lealtà sportiva deve ritenersi operante anche con riguardo a soggetti che, sia pur non strutturati, pratichino un’attività sportiva ovvero con riguardo a soggetti che pratichino attività qualificabili come sportive, pur se non istituzionalizzate.
Ciò precisato, è necessario operare delle ulteriori delimitazioni per evitare che qualunque fenomeno, che si autodefinisca sportivo, e qualunque soggetto, non meglio definito, che pratichi una disciplina sportiva, possano tout court farsi rientrare nell’ambito dell’ordinamento sportivo.
Una siffatta delimitazione non può prescindere dalla definizione di attività sportiva, in mancanza di una nozione di sport unanimemente condivisa. 
Come ritenuto dalla dottrina, sotto il profilo oggettivo, un’attività può definirsi sportiva se si concreta in una competizione svolta secondo regole tecniche prefissate, che ne disciplinino il contenuto e le modalità di svolgimento, nel pieno rispetto del principio di lealtà sportiva. Sotto il profilo soggettivo, l’attività sportiva deve essere svolta, previa adeguata preparazione fisica, con impegno e serietà d’intenti, perseguendo il fine competitivo di superamento dei propri record.   
A contrario, non può definirsi sportiva un’attività non disciplinata da regole tecniche improntate al principio di lealtà sportiva, occasionale, esclusivamente ludico-ricreativa o effettuata per fini meramente spettacolistici.
In conclusione, circa l’ambito soggettivo di riferimento, possiamo ritenere che il principio di lealtà sportiva esplichi la propria forza cogente non solo all’interno dell’ordinamento sportivo istituzionalizzato e nei confronti dei soggetti in esso strutturati, ma anche nel contesto di attività qualificabili come sportive, poste in essere con un fine competitivo da soggetti organizzati e preparati.
4. La lealtà sportiva tra ordinamento sportivo e ordinamento statale. Cenni sul rapporto tra ordinamenti.
Il costante dibattito sulla natura dell’ordinamento sportivo è ampio e variegato. Da esso, peraltro, discende la problematica, avvertita e discussa dai giuristi, relativa al rapporto tra ordinamento sportivo e ordinamento statale.
Sta di fatto che due elementi fondamentali caratterizzano l’ambito sportivo: per un verso, è inopinabile che lo sport, inteso quale attività competitiva dettata da regole tecniche uniformi e ispirata al principio di lealtà sportiva, preesista sia all’ordinamento statale che allo stesso ordinamento sportivo; per altro verso, è del pari incontestabile che lo sport abbia un carattere transnazionale, una vocazione universale che rende il mondo dello sport disciplinato da regole e comportamenti uniformi in una dimensione internazionale.
Tali caratteri attribuiscono all’ordinamento sportivo una spiccata ed imprescindibile autonomia, di fatto poco compatibile con una eventuale natura derivata dall’ordinamento statale che ad esso delega la regolamentazione della materia dello sport.
Sul punto, il contributo della dottrina è articolato e variegato.
L’ordinamento sportivo può ritenersi un ordinamento di settore, come tale autonomo ma non indipendente dall’ordinamento statale; possono coesistere ordinamenti con competenze distinte che si integrano, convergono e si riconoscono reciprocamente. L’ordinamento statale ha il compito anche di organizzare le autonomie affidando ad esse l’autodisciplina; l’autogoverno sportivo, preesistente e dotato di una propria intrinseca giuridicità, viene così riconosciuto e ospitato nell’ordinamento statale. In sintesi, l’ordinamento sportivo è “un ordinamento settoriale nell’ambito del più generale ordinamento giuridico della Repubblica”; si tratta di un ordinamento che manifesta la propria autonomia nell’elaborazione di regole vincolanti di comportamento, di organizzazione, tecniche.
Considerata la natura internazionale e preesistente all’ordinamento statale, vi è chi sostiene anche che non soltanto si debba riconoscere autonomia all’ordinamento sportivo ma addirittura si debba ritenere che esso sia originario, non ripetendo la propria validità da alcuna fonte superiore .
Pur riconoscendo ampia autonomia all’ordinamento sportivo, vi è, ancora, chi lo ritiene una sorta di manifestazione sintomatica del c.d. diritto dei privati, disciplinato da norme organizzative di tipo negoziale. In forza del criterio di sussidiarietà, la materia sportiva diviene di competenza del regolatore privato; la fonte privata è così abilitata a regolamentare, in via esclusiva o concorrente rispetto alla legge, uno specifico settore e gli atti di autonomia regolamentare operano in tale settore con la stessa forza della legge. Nel sistema delle fonti, di tal guisa argomentando, viene meno la “esclusiva statualità del diritto” in quanto un posto ed un ruolo vengono assegnati alle cc.dd. fonti di derivazione privata. In un sistema che riconosce pluralità di fonti, l’ordinamento statale riconosce ed autorizza la creazione di norme da parte di autonomie privatistiche; ciò avviene con riguardo alla materia sportiva. Ne consegue, a ben guardare, che non si può parlare di un ordinamento sportivo in senso tecnico in quanto esso non dispone di un’autonoma legittimazione, bensì gode di un riconoscimento da parte dell’ordinamento statale che gli conferisce autonomia ma non indipendenza.
Invero, e non volendo approfondire in questa sede siffatta tematica, non v’è dubbio che l’ordinamento sportivo debba ritenersi autonomo, a prescindere dalla natura che allo stesso si voglia attribuire (sia quale ordinamento in senso tecnico che quale ordinamento in senso lato in una soluzione privatistica).
Il problema, dunque, si sposta su un piano diverso: quali confini possono essere delineati all’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto all’ordinamento di diritto comune.
Ebbene, il nodo gordiano dei rapporti tra i due ordinamenti non può ritenersi ancora sciolto.  
All’ordinamento sportivo deve riconoscersi una matrice costituzionale e una matrice transnazionale. L’ordinamento sportivo nazionale, pur se autonomo, vive nell’ordinamento statale e, pertanto, a questo deve comunque conformarsi. Ciò, però, non rappresenta un limite all’autonomia bensì, come sottolineato da accorta dottrina, costituisce “l’espressione di una modalità di esercizio dell’autonomia stessa”. D’altronde, non necessariamente autonomia ed indipendenza di un ordinamento significano conflitto e contraddizione rispetto ad altro ordinamento.
Si può affermare, con serenità, che l’ordinamento sportivo abbia una nicchia di competenza assolutamente impermeabile rispetto all’ordinamento statale: le regole tecniche. Le norme che disciplinano l’organizzazione e lo svolgimento delle gare nonché le norme disciplinari promanano dall’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale, e, dunque, sfuggono al condizionamento da parte dell’ordinamento statale. A tal proposito, sia in dottrina che in giurisprudenza, talvolta si è affermata la “indifferenza” per l’ordinamento statale delle norme tecniche e disciplinari.
Tuttavia, sotto altro profilo, l’autonomia dell’ordinamento sportivo non può spingersi sino a soffocare la rilevanza per l’ordinamento statale delle vicende sportive che incidono, sia in modo immediato che in modo riflesso, su posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittim.
Proprio in simili ipotesi si pone l’estrema difficoltà di una actio finium regundorum.
La Consulta in una recente sentenza ha, al riguardo, affermato che, dinanzi a situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale, l’autonomia dell’ordinamento sportivo “recede” lasciando il passo a forme di tutela statale, segnatamente di natura risarcitoria.
Infine, in una prospettiva non solo squisitamente patologica, l’ordinamento giuridico statale può intervenire nella materia sportiva, ma per fini suoi propri, non sempre e non necessariamente sovrapponibili a quelli perseguiti dall’ordinamento sportivo. Quest’ultimo, d’altronde, non sempre e non necessariamente si lascia permeare dalle norme statali. In forza della propria autonomia e della propria vocazione internazionale, invero, l’ordinamento sportivo, in un’eventuale ipotesi di contrapposizione tra regole inconciliabili, può assumere una posizione di supremazia per cui l’ordinamento statale può essere costretto ad uniformarsi a quello sportivo.     
In una prospettiva diversa, tuttavia, deve affermarsi che le regole dal contenuto etico e, quindi, assimilabili alle clausole generali, proprie di un ordinamento settoriale, possano assumere il rango di norme di diritto nell’ordinamento statale. Il rinvio o il richiamo di una norma etica dell’ordinamento di settore operati dall’ordinamento statale, di per sé, possono ritenersi idonei ad attribuire rilievo giuridico a tale norma. In altri termini, il principio deontologico assume valore di legge nell’ordinamento statale nel momento in cui ad esso il legislatore rinvii attribuendovi, anche implicitamente, una funzione integrativa e valutativa.
Parimenti è a dirsi per l’ipotesi in cui il giudice motivi la decisione facendo applicazione di tale principio. 
Così è in effetti per il principio di lealtà sportiva.
Nei giudizi di responsabilità civile e penale, instaurati a seguito della realizzazione di eventi lesivi nell’ambito o in occasione di una competizione sportiva, proprio la violazione del dovere di lealtà sportiva viene considerata fonte di responsabilità.
Nella responsabilità penale, la giurisprudenza ha attribuito decisiva rilevanza alla condotta che travalichi i limiti segnati dalle regole del gioco e, soprattutto, il principio di lealtà e correttezza sportiva.  E, nell’ambito del reato di frode sportiva, è stato evidenziato come il bene tutelato sia il risultato “leale” (prima ancora che corretto, in quanto ottenuto rispettando le regole del gioco), il “genuino svolgimento della competizione” nel rispetto dei principi di lealtà e correttezza. Tale reato, in definitiva, da un lato finisce con l’incrementare l’aspettativa di correttezza, dall’altro la qualifica in termini di rilevanza giuridica
Nella responsabilità civile, l’illegittimità del comportamento deriva proprio dalla violazione del dovere di lealtà. La mera violazione delle regole del gioco non comporta, in tale contesto, un’automatica illegittimità del comportamento, essendo necessaria, per la configurabilità di un’ipotesi di responsabilità, una violazione grave del dovere di lealtà. D’altronde, una condotta trasmodante che oltrepassa i confini della lealtà sportiva integra un comportamento che si pone al di fuori dell’ordinamento sportivo e che rileva, dunque, esclusivamente nell’ordinamento comune. “Non la volontarietà del fallo dunque rileva né che violazione della regola di gioco vi sia stata o non, ma lo stretto rapporto di collegamento funzionale fra gioco ed evento lesivo. Se l’atto è posto in essere allo scopo di provocare lesioni, quella relazione viene senz’altro a mancare pur se l’azione non integri un fallo di gioco, per l’ovvia ragione che non rientra fra le sue caratteristiche che un partecipante volontariamente provochi lesioni ad altro giocatore. E viene del pari meno se il giocatore, pur non volendo provocare lesioni, faccia tuttavia ricorso ad una violenza di tipo tale da non essere compatibile con le caratteristiche proprie del gioco nel contesto nel quale esso si svolge. Sicché in entrambi i casi sarà civilmente responsabile del danno provocato, rispettivamente a titolo di dolo o di colpa.
Infine, la violazione del principio di lealtà, di probità e di rettitudine sportiva, cui è tenuto, tra gli altri, l’allenatore, è stata considerata “un frammento della condotta mobizzante”
Va da sé che la valutazione della violazione del principio di lealtà sportiva, ai fini di una pronuncia di responsabilità, è rimessa al giudice. Compete infatti a quest’ultimo stabilire se nella fattispecie concreta posta al suo giudizio sia ravvisabile quella grave slealtà da sola idonea a far ritenere reciso lo spirito sportivo tanto da essere al cospetto di un’attività di diritto comune.
Quindi spetta all’interprete concretizzare contenutisticamente la clausola generale di lealtà sportiva al fine di valutare la legittimità o meno dei comportamenti.
In tal senso il principio di lealtà sportiva acquista compiutezza non solo come autonoma fonte di doveri di comportamento ma anche come parametro di valutazione della condotta dei soggetti dell’ordinamento sportivo. 

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