giovedì 16 febbraio 2012

ETICA, RESPONSABILITA’ SOCIALE E POVERTA’


( Ugo Arioti e Vincenzo Porcasi )
Cessata l’epoca della compartecipazione alla gestione dell’impresa per effetto della globalizzazione che ha consentito al sistema impresa di trasferire la base della propria attività dall’Europa e dagli Stati Uniti, nel resto del mondo, aggirando in buona misura le ragioni del movimento operaio e piccolo borghese. Infatti, il sistema ha collocato le nuove iniziative su base sub continentale vuoi per localizzare nei luoghi in cui sono disponibili le materie prime, vuoi per superare il problema del costo complessivo del trasporto (che a seguito dell’aumento del prezzo del petrolio ha oramai raggiunto livelli parossistici) e distribuire semilavorati e prodotti finiti direttamente sui luoghi di consumo. Il tema oggi è divenuto quello complessivo delle povertà che attraversano il mondo: quelle antiche, figlie del colonialismo e quelle nuove, figlie della distribuzione dei prodotti che privilegia l’edonismo senza fine, senza avere alcun riguardo per le vere esigenze dei produttori. Tutto ciò non è morale, cioè etico per l’umanità nella misura in cui spinoziamente l’etica è uno dei nomi della virtù, e, la virtù è il proprio bene; di conseguenza il comportamento virtuoso è il perseguimento del proprio bene. Ma cos’è il bene dell’umanità, cioè il suo comportamento virtuoso quindi etico, se non quello di crescere nella qualità della sua esistenza. Con il Congresso di Vienna, la qualità cessò di essere un problema per il singolo per identificarsi con la libertà mediata attraverso la supremazia dello Stato di appartenenza sugli altri. Il disvalore supremo che ha ucciso l’Europa e la sua fuorviante borghesia. Ma il secondo conflitto mondiale, figlio di quelle scelte, fece emergere nuove potenze extraeuropee e fece tramontare definitivamente la politica coloniale europea e il suo ruolo mondiale. Il riposizionamento dei ruoli e delle funzioni internazionali all’interno dell’ONU ha assegnato all’Europa un compito di assistenza allo sviluppo delle ex colonie, alla luce della filosofia di democrazia mercantilista che caratterizza le politiche economiche delle nuove grandi potenze. Anche il sistema assistenzialistico ha fallito in larga misura i suoi obiettivi, tramutandosi in una farsa fondato sulla corruzione dei governanti presenti in molti dei paesi oggetto di aiuto. Stanco di questo modello, alla luce dei bisogni crescenti del suo paese il Prof. Yunus ha creato il sistema del microcredito, partendo dal basso e dal poco. E’ ciò che ha caratterizzato l’azione solidaristica e mutualistica socialista e cristiana nell’Europa del XIX e XX secolo, con tutti quegli interventi dapprima di cooperative di mutuo soccorso, poi con la formazione salesiana all’apprendistato, poi con il sistema integrato di casse rurali, banche popolari, casse di risparmio e poi federconsorzi (occorre non dimenticare che la federconsorzi ha rappresentato il punto di forza attraverso il quale il paese pur nel variare dei regimi ha potuto assicurarsi la sopravvivenza alimentare. Dal Manifesto del partito comunista del 1848, la parte più avveduta della società prese atto della frattura intervenuta nelle società occidentali al rapporto mutualistico fra città e campagna che aveva contraddistinto le società contadine, si sostituisce la società industriale, chiaramente fondata sullo sfruttamento del fattore lavoro nella produzione. Cento anni di storia umana è durato tale confronto anche violento, fino all’avvento del concetto della pratica del valore aggiunto, che ha scardinato la prospettiva marxiana di proprietà collettiva dei mezzi di produzione, per sostituirla con la prospettiva del mercato unico mondiale che riproduce il modello distributivo che fu proprio del tempo dei tre grandi imperi (romano, persiano e cinese). E’ il mercato globale di cui tanto si parla delle multinazionali che sono né buone né cattive sono solo riuscite a realizzare il principio economico dell’ofelimità cioè produrre al costo minore e vendere al miglior prezzo possibile nei diversi mercati in relazione alla capacità di spesa dei diversi consumatori, vuoi per spese di consumo e voluttuarie, vuoi per investimento. Il mercato ritornato globale, fondato su regole sempre più generali nonostante il lento avanzare con il passo del cancro del disegno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, si preoccupa dei servizi ai consumatori e non certo dei bisogni dei produttori. I produttori ormai privi del protezionismo commerciale, chiusi in un vetero nazionalismo abbandonano le campagne e affollano le città divenendo una sorta di “lunpenproletariat”, emarginato e senza speranza.Se questo avviene ora nelle società occidentali mature avviene da 60 anni negli altri continenti. Sviluppata l’analisi, la terapia può venire da due fondamentali riflessioni che in qualche modo, anche secondo quanto affermato dall’ILO, possono contribuire alla soluzione del problema all’interno del concetto di responsabilità sociale dell’impresa. La prima riguarda la struttura e la funzione del sistema impresa. L’impresa non è più diretta alla produzione ma al servizio del consumatore. Il consumatore sia che acceda adesso per la prima volta ad un reddito tendenzialmente adeguato o l’impoverito compratore occidentale, possono entrambi spendere secondo una tela di bisogni da soddisfare, sempre più incalzanti nella misura in cui i singoli stati si ritirano, per problemi di bilancio, sempre più nel wellfare.
A questo punto occorre che il sistema impresa aggiunga ai fattori della produzione tradizionali: terra, capitale, lavoro, organizzazione aziendale, anche il concetto di ecosistema umano e ambientale. Una parte delle plusvalenze in formazione, oltre quelle destinate alla Risorsa Sviluppo, occorre destinare tali risorse a finanziare quelle attività da cui lo Stato si ritira, dalle pensioni agli asili, dalle strade, all’assistenza scolastica e sanitaria. Il consumatore che ritrova in tal modo almeno una parte delle sue sicurezze, si fidelizzerà all’azienda e diviene potenzialmente un sottoscrittore delle azioni dell’impresa che apprezza nel soddisfare i suoi bisogni. Nella misura, poi, in cui l’impresa diviene due volte rappresentativa del suo pubblico, si può porre come parte sociale e quindi assumere un ruolo politicamente attivo, a tutela del suo pubblico non solo consumatore, ma portatore di un suo valore. La seconda chiave d’intervento, passa per il microcredito, non come fenomeno che non serve di per sé a nulla, ma a una proposta che faccia del microcredito il punto di aggregazione del consenso alla nascita di una filiera produttiva e commerciale, concorrente ma non necessariamente alternativa degli oligopoli strutturati esistenti. L’insorgere della filiera non può non essere fondato sull’associazionismo, da qui l’esperienza italiana storicamente fondata sul sistema della cooperazione. Inoltre, il microcredito è una operazione estremamente concreta che finanzia cose e progetti capaci di auto liquidarsi e necessita di macchine, attrezzature e di assistenza tecnica sul campo. Il sistema impresa non deve latitare sul campo e quindi puntare sul full leasing per il microcredito portante anche alla necessaria formazione, creando un sistema distributivo non alternativo ma concorrente, proponendo anziché i centri commerciali i centri di relazione sociale.

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