Quando Camus ci insegnò che siamo noi "Lo
straniero"
di ROBERTO SAVIANO
Albert Camus in questi anni mi è stato accanto mentre mangiavo, dormivo, scrivevo. Accanto mentre mi disperavo. Accanto mentre cercavo brandelli di felicità. Era accanto a me quando sono stato troppo frettoloso in un giudizio, consigliandomi di rallentare, di riflettere meglio, di ponderare le mie parole, di pesarle. Accanto a me mentre tenevo il punto contro l'idiozia estremista, in un'Italia che spesso fa dell'estremismo di maniera scudo, appartenenza, bandiera. Era vicino, silenzioso, costante ombra, amico gradito a cui poter chiedere cose e da cui poter ancora ottenere risposte. È così che accade quando scegli di dialogare con uno scrittore, e non importa che sia morto quasi vent'anni prima che tu nascessi.
Albert Camus ha misurato palmo a palmo il territorio in cui si muove un narratore, il suo limite doloroso e la sua grazia, ovvero le parole. Parole che non sconfiggeranno la fame, che non salveranno vite, che non uccideranno virus, ma lo scrittore non "lavora", non "agisce" sul potere, piuttosto sulla responsabilità. Camus sa che tutto ruota intorno a questo: responsabilità e ragionamento. Sarà impossibile migliorare il mondo - è la razionale presa d'atto - ma si potranno migliorare le vite delle persone che entrano in contatto con noi, e quindi quell'impossibilità come postulato può cadere.
La vita di Albert Camus è un romanzo che è possibile leggere in tutte le sue opere, vere e proprie tessere di un prezioso mosaico. Francese nato in Algeria. Francese che vive tra francesi d'oltremare. Francese che vive tra arabi. Francese che vive tra arabi che percepiscono le sue origini europee come un privilegio; eppure francese che proviene da una famiglia umile, di lavoratori. Camus nella sua vita si sentirà straniero sempre e per tutti. Straniero in Algeria perché privilegiato, straniero tra francesi. Ma straniero anche e soprattutto per la sua condizione di uomo; quindi, in definitiva, straniero tra stranieri. Si oppose alla Guerra d'Algeria, alla pena di morte per gli indipendentisti, ma non sopportò mai l'ideologia del Fln (Front de libération nationale) algerino che vedeva nella Francia il nemico, in una Francia generica, come categoria in sé, rivolgendo la propria ira verso i francesi più prossimi, quelli fisicamente presenti in Algeria. Il bene e il male è difficile che stiano unilateralmente da una sola parte e le divisioni manichee in bianco e nero, buono e cattivo, giusto e ingiusto, vittima e carnefice tanto semplici da digerire, spesso sono altrettanto false e non spiegano in alcun modo la complessità della vita.
A Stoccolma, nel 1957, in occasione della consegna del premio Nobel, Camus partecipò a un incontro con giovani studenti. In quell'occasione uno studente algerino lo aggredì verbalmente e lui pronunciò, in risposta, una frase per cui la stampa francese di sinistra letteralmente lo crocifisse: "Amo mia madre e la giustizia, ma fra mia madre e la giustizia scelgo mia madre". Quello che Camus voleva dire era: se credete sia ingiusto che mia madre, perché francese ma da sempre modesta e lavoratrice, viva laddove ha sputato sangue e sudore, allora io sto con mia madre e contro la vostra giustizia.
Camus è straniero a tutto. La sua estraneità lo rende cittadino della riflessione continua. E quando nel '42 pubblica Lo straniero decide di fissare in volto il più complesso dei temi: l'estraneità dell'uomo alla società, all'universo intero. L'incolmabile e insanabile solitudine dell'uomo. Insomma, quando leggi Lo straniero , quando leggi del suo protagonista che per puro caso ammazza un arabo, quando leggi come tutto avvenga per fatalità, ti accorgi che Camus è riuscito in un'impresa impossibile: quella di descrivere l'esistenza come qualcosa che accade. E l'ha fatto non da uomo rinchiuso nei suoi demoni, non da uomo separato dal suo mondo, ma da uomo che vive pienamente la sua vita, e nonostante ciò ha compreso che la vita in fondo capita, senza ragione, senza colpa, semplicemente capita. Ne Lo straniero Meursault non è Camus, ma è un uomo senza mappa e senza coordinate: non immorale ma perduto proprio come lo scrittore immagina l'uomo del suo tempo. Non ci piace Meursault, è apatico. Poi in un caldo pomeriggio avviene la nostra separazione definitiva dal personaggio, mentre cammina sulla spiaggia, sole negli occhi, ha uno scontro con un arabo e nella colluttazione gli spara, uccidendolo. Meursault viene arrestato e non cerca giustificazioni. Viene condannato a morte e non cerca conforto nella religione. Meursault infastidisce chi si aspetta - la quasi totalità dei lettori - una progressione della sua psicologia nel romanzo, chi vorrebbe che a un certo punto si svegliasse e urlasse al mondo il suo pentimento, che spiegasse le sue ragioni, che si giustificasse, che si difendesse. Invece Meursault quella condanna a morte tutto sommato se l'aspetta, ma non per coscienza: come non ha potuto decidere della sua nascita, allo stesso modo non potrà decidere della sua morte.
Lo straniero l'ho letto da adolescente e sin da allora ho fatto una riflessione che ha accompagnato il ricordo di quella lettura. Ho creduto che nell'estraneità che Meursault - che l'uomo - prova verso se stesso, verso l'umanità, verso l'universo, ci sia anche di che essere, di che sentirsi sollevati. Ho creduto di scorgere, e ancora vedo, nel sentirsi straniero, l'impossibilità di sentire fino in fondo il peso della responsabilità, perché la responsabilità è possibile sentirla solo quando si ha piena percezione, piena consapevolezza di ogni gesto, di ogni decisione. Ma se, invece, ciò che ti capita in gran parte avviene e basta, lo subisci, se non sei agente, ma sempre e solo agito, allora potrai andare al patibolo e le urla d'odio potranno fare da gradita compagnia. È la solitudine la gabbia in cui tutte le riflessioni di Albert Camus avvengono. Quella solitudine che è forse la vera carta universale di appartenenza al genere umano. Non bisogna credere che l'opera di uno scrittore che affronta ai ferri corti la vita permetta poi di arrivare a facili soluzioni.
Tutt'altro, è la complessità della vita a trovare spazio nelle pagine di Camus. E nella Peste esiste una risposta a Lo straniero , una risposta che chi ama Camus voleva, si aspettava. Una risposta che non consola ma spiega. Puoi fermare la malattia, ma non risolvi il problema. Nel mondo si muore lo stesso, si soffrirà lo stesso. Ma chi lavora e agisce per salvare, per pulire, per guarire forse non costruirà un mondo migliore, ma migliorerà il mondo in cui vive. "Esiste la bellezza ed esiste l'inferno degli oppressi, per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi". Camus ha scritto queste parole che suonano diverse da "Amo mia madre e la giustizia, ma fra mia madre e la giustizia scelgo mia madre", eppure raccontano una stessa anima e uno stesso modo di sentire, vedere e vivere il mondo. Sono parole che restano sotto la pelle, sotto le unghie, incise sui timpani.
Rappresentano per Camus coordinate, la bussola nella sua vita e nei suoi scritti. E sono le coordinate che il lettore apprende nelle sue pagine. Coordinate di una navigazione che ci accompagneranno per tutta la vita.
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