mercoledì 5 giugno 2013

L’Etica della Ragione e della Ragionevolezza

L’Etica della Ragione e della Ragionevolezza (Serge Latouche)
L’economia è o non è morale? A questa domanda la mia risposta sarà no.
Viene allora la seconda: può diventarlo? E su questo la mia risposta sarà Sì, ma solo a certe condizioni. Fare i soldi con i soldi non solo è contrario alla fertilità delle specie, ma è anche un obiettivo contrario al bene comune. Noi esigiamo una libertà privata quasi illimitata, tuttavia l’ideale del bene comune e della giustizia resta quello definito da Aristotele. L’etica si trasforma, l’utile diventa il criterio per eccellenza del buono, perché il misurabile è identificato con il benessere. Allora, come potrebbe l’economia divenire morale? La risposta sta in due parole: mettendo l’etica sull’etichetta. Il mio invito all’aula di questo corso di Assoetica è che è tempo ormai di cominciare a decolonizzare il nostro immaginario.

Estratto da una lezione di Serge Latouche sull’etica della ragione:
Il filosofo Emanuel Levinas dice che l’oggetto principale della giustizia può essere solo l’uguaglianza economica, soprattutto in un’economia globalizzata, la quale non è altro che l’economicizzazione del mondo. Perché in un mondo dove tutto è economicizzato se la giustizia non è dentro l’economia, la giustizia non c’è più. Evidentemente c’è una grande differenza tra una redistribuzione equa delle ricchezze su scala mondiale e un’operazione di bombardamento a tappeto senza limiti nel tempo, come in Afghanistan.
Cosa significa fare giustizia in un’economia globalizzata? Chi si può dire vittima di un’ingiustizia? E come si potrebbe porre rimedio all’ingiustizia globale?
I sintomi dell’ingiustizia globale
La mondializzazione tecno-economica, vale a dire quella dei processi compresi di solito in questa espressione, l’emergere dominante delle imprese transnazionali, la sconfitta della politica e la minaccia di una tecnoscienza incorporata. La mondializzazione trascina con sé, quasi automaticamente una crisi morale. Cause e conseguenze della mondializzazione dei mercati, le multinazionali si presentano come i nuovi signori del mondo.
Si tratta di dirigenti impreparati al loro duro ruolo, appena coordinati da un sistema internazionale incapace, che non si trovano ancora di fronte né nella società civile mondiale, né significativi contro il potere. Il potere finanziario dà i mezzi per comprare e mette al proprio servizio gli stati, i partiti, le chiese, i sindacati, le Ong (Organizzazioni non governative), i mass media, gli eserciti, le mafie.
Da ciò sorge la necessità di “codici di buona condotta”, codici fondati su una morale universale minima da definire, si pongono al comportamento di questi giganti nei rapporti tra loro stessi e soprattutto verso gli altri. Ma come si sa la prima cosa che ha fatto Kofi Annan quando è stato eletto al segretariato delle Nazioni Unite ha deciso di chiudere la commissione dell’Onu che lavorava su questo problema. Ha detto che questa commissione non lavorava bene, ma almeno esisteva. Le ingiustizie più evidenti sono le ingiustizie sociali e ecologiche. La mondializzazione sotto l’apparenza di una constatazione neutra del fenomeno è anche uno slogan. Uno slogan che incita ed orienta ad agire in vista di una trasformazione considerata come auspicabile per tutti. Ma il termine, che non è affatto innocente, lascia anzi intendere che ci si trova di fronte ad un processo anonimo e universale benefico per l’umanità E non invece che si è trascinati in un’impresa auspicata da alcune persone per i loro interessi, impresa che presenta rischi enormi e pericoli considerevoli per tutti, particolarmente per i popoli del sud del mondo.
Più che di mondializzazione dei mercati per questa impresa si tratta di “mercatizzazione” o mercificazione del mondo. Ed è proprio questo che è nuovo e pericoloso. Come il capitale, al quale è intimamente legata la mondializzazione, è un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento su scala planetaria. Un buon conoscitore, nel giornale Affluenza, si chiede: “Ma che cos’è la globalizzazione? La globalizzazione non è che il nuovo nome della politica egemonica degli Stati uniti.”
Le disuguaglianze crescenti tanto tra il nord e il sud, quanto all’interno di ciascun paese, sono sintomi dell’ingiustizia globale. La polarizzazione della ricchezza tra le regioni e tra gli individui raggiunge livelli insoliti secondo gli ultimi rapporti del programma della nazioni unite per lo sviluppo. Se la ricchezza del pianeta si è moltiplicata di 6 volte dopo il 1950, il reddito medio degli abitanti di 100 dei 174 paesi censiti è in piena regressione, è anche una cosa nuova l’aspettativa di vita, che è salita, è oggi alta in molti paesi. Le tre persone più ricche del mondo hanno una fortuna superiore al prodotto interno lordo totale dei 48 paesi più poveri. Il patrimonio dei 15 più fortunati supera il prodotto interno lordo di tutta l’Africa subsahariana con i suoi 6/700.000.000 di abitanti.
Infine i beni delle 84 persone più ricche superano il prodotto interno lordo della Cina con il suo miliardo e trecentomila abitanti. Lo scarto tra nord e sud come ha stabilito lo svizzero Paul de Roc, ha più o meno dimostrato che fino al settecento non c’era differenza importante tra i paesi del nord e del sud, il tenore di vita era più o meno uguale, ma già alla fine del settecento la differenza era più o meno 1 a 2. All’inizio del novecento 1 a 3. Poi negli anni 50 1 a 30, negli anni 70 1 a 60 e oggi 1 a 80.
Le disuguaglianze non sono meno forti o meno problematiche su scala nazionale anche nel nord o dentro le imprese. Un giornalista francese del giornale “Le Monde” scriveva: “il lavoro di un uomo padrone o quadro di valida competenza vale 13000 volte di più che il lavoro di un altro uomo.”
Il denaro rende folli. Ed ecco che il capitalismo di imprese divenuto completamente folle costruisce nella dismisura, nell’indecenza, nel cinismo la fortezza dei benestanti. Scavando all’interno delle imprese una società a due velocità. Due universi: gli azionisti, coloro che hanno delle stock option, e gli altri. Gli speculatori e i salariati di base. Così ci vorrebbero 554 anni di lavoro perché chi riceve un salario minimo raggiunga il reddito medio del 2001 dei padroni francesi le cui società sono quotate in borsa.
Più modesto Phil Knight, padrone della Nike si accontenta di 20.000.000 di dollari, cioè più di quanto guadagnano in una vita i 30000 operai indonesiani che lavorano per la sua ditta.
Dovrebbe essere considerato indecente in qualsivoglia istanza umana sbandierare pretese simili. E tutto questo è molto recente. Fino agli anni 60 lo scarto era molto più limitato.
Non sono meno gravi le ingiustizie ecologiche.

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