lunedì 20 ottobre 2014

La povertà tra il medioevo e l’inizio dell’età moderna: marginalità, inclusione ed esclusione - Inchieste e approfondimenti (Prima parte)


La povertà tra il medioevo e l’inizio dell’età moderna: marginalità, inclusione ed esclusione

Sommario: 1. Premessa; 2. I poveri nel basso Medioevo; 3. Poveri falsi, poveri veri, all’inizio dell’età moderna; 4.I poveri pericolosi a Roma: vagabondi, zingari e prostitute.

1. Premessa
Chi sono i poveri? Cosa è la povertà? Cosa è la marginalità?
Per poter rispondere a queste domande bisognerebbe scrivere probabilmente tre libri diversi ed alcune appendici. In questa sede ci interessa solamente accennare delle definizioni, le più accettate tra gli storici, mettendo in risalto le zone di intersecazione tra di esse.
Chi siano i poveri non è facile a dirlo. Questo perché essi cambiano nelle epoche, anzi si può dire che ogni epoca ha avuto e generato nuovi poveri. La definizione di povero deve avere, quindi, un’accezione larga. A tal proposito si può fare riferimento a quanto ha scritto Mollat, ripreso da Paglia, il quale definisce povero “colui che in modo permanente o temporaneo si trova in condizione di debolezza, di dipendenza, contraddistinta dalla mancanza di strumenti di potere e di considerazione sociale, ossia di denaro, di relazioni, di influenza, di qualificazione tecnica, di vigore fisico, di capacità, di cultura, di libertà e dignità personale.”[1] In tale definizione possono rientrare gli emarginati, i rifiutati, gli asociali, i decaduti, i vergognosi di tutte le epoche.
Anche la povertà viene definita in modi diversi e di solito è un termine che più che spiegare qualcosa ci si aspetta che venga spiegato, contestualizzandolo. Comunque, con tale definizione si è voluto di solito indicare uno stato di debolezza, di carenza, di insufficienza, di privazione rispetto ad un modo di vivere di una data società. Inoltre, la nozione di povertà, nelle varie epoche, ha assunto un suo carattere convenzionale, definita da atti istituzionali dei governi che in questo modo hanno interpretato l’opinione dominante. Pertanto, anche la povertà ha un’accezione larga, figlia dei tempi, che riguarda individui e gruppi ed anche però paesi e zone. La povertà è un fiume con tanti affluenti, tra questi vi sono la miseria e la malattia. La povertà diventa pauperismo quando riguarda masse che non riescono più ad assicurarsi i minimi mezzi di sussistenza, è un fenomeno di congiuntura che lascia cadere al di sotto del minimo di sussistenza una parte cospicua della popolazione.
Il concetto di marginalità, che per alcuni è una immagine-concetto, nasce come immagine metaforica con la quale si suppone la società come un universo sociale nel quale esistono dei ruoli, anche lavorativi, e dove ognuno ha il suo compito. Chi non rispetta il proprio ruolo, assegnatogli anche dal proprio status sociale, si pone ai margini: ciò significa che l’individuo o il gruppo non recidono completamente i legami con la società, quindi, seppur labile, tale rapporto di interdipendenza rimane (è il caso degli zingari, dei vagabondi, delle prostitute, dei pazzi reclusi, ecc.). Secondo Geremek l’approccio storico dello studio della marginalità consente di esaminare il fenomeno globalmente. Egli afferma che esistono quattro diversi fronti della marginalità: a) economico, che suppone la non partecipazione al processo produttivo, b) sociale, che suppone la non partecipazione ai doveri della società in cui si vive, c) spaziale, che suppone la violazione delle norme di un habitat organizzato da parte di gruppi che vivono fuori da tale habitat, d) culturale, che suppone un atteggiamento ed un comportamento diverso da quello universalmente accettato. Il marginale può essere anche tutte e quattro le definizioni assieme, ossia colui che non partecipa al processo produttivo e ai doveri della società in cui vive, non condividendo le norme ed i comportamenti stabiliti ed accettati dalla popolazione organizzata in una data società.
Semplificando, e di molto, esistono dei punti di contatto tra le definizioni appena enucleate: la povertà, la pauperizzazione, indicano un tipo di povero o un gruppo di questi che a volte, a causa della loro condizione, vivono ai margini della stessa società di cui fanno parte non recidendo completamente i legami con essa.
Gli studi che riguardano la povertà e che si sono sviluppati nel XX secolo, ed in particolare negli ultimi decenni, hanno affrontato tale tema sotto molteplici aspetti. Sono stati studiati aspetti nuovi con l’ausilio di altre discipline (statistica, sociologia, ecc. ecc.) e sono stati coniati termini nuovi ai quali sono collegati particolari indicatori il cui scopo è quello di poter fotografare e spiegare la povertà, la sua incidenza, l’esclusione sociale, ecc. In relazione a quanto appena affermato un esempio viene dalla lettura del “Rapporto 2003-2004 sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia”[2]: in esso la povertà è affrontata sotto molteplici aspetti, infatti vi si descrive la povertà assoluta e quella relativa (la differenza sta nel fatto che nella seconda sono comprese quelle famiglie che vivono con un reddito che convenzionalmente è stato stabilito attorno ad 869,50 euro mensili per una famiglia di due componenti: di conseguenza nel 2004 vivevano in una povertà relativa circa 2 milioni e 360 mila famiglie, pari al 10,6 % di quelle residenti, ossia 6 milioni e 786 mila individui), rischio di impoverimento, intensità di povertà, povertà monetaria, durata e persistenza nello stato di povertà, povertà oggettiva (misurata con linee standard condivise) e povertà soggettiva (basata sull’autopercezione degli intervistati), ecc. La combinazione tra i dati sulla povertà oggettiva e quella soggettiva, secondo gli studiosi, fa sorgere quattro situazioni tipo di famiglie: 1) oggettivamente e soggettivamente povere ossia consapevolmente povere; 2) oggettivamente povere ma che non si considerano soggettivamente povere e si possono definireapparentemente povere; 3) oggettivamente non povere ma che si considerano povere e sono quelle soggettivamente povere; 4) quelle che non si considerano né oggettivamente né soggettivamente povere e sono quelle consapevolmente non povere. I dati provenienti da queste tipologie evidenziano l’esistenza di un sottoinsieme di famiglie “quasi povere” che fa aumentare il complesso delle famiglie italiane a rischio di povertà economica (povere e quasi povere) al 18,5 % del totale. La linea di demarcazione tra il povero, quasi povero e il non povero è labile e spesso è data, come visto, dal reddito. E’ altresì chiaro che i termini appena espressi indicano concetti precisi e scientifici che analizzano a volte non solo il reddito ma, tra l’altro, ad esempio, anche i consumi non durevoli come i beni alimentari, i trasporti o l’abbigliamento (ed è il caso del cosiddetto risparmio negativo). Gli studi e le analisi che sono alla base dei termini e dei concetti sopra enucleati, non in maniera esaustiva, sono ovviamente in continua evoluzione perché si evolve il soggetto stesso di tali studi ossia la povertà. Infatti, nelle rilevazioni e nelle analisi nazionali ed internazionali sulla povertà ricorre spesso il richiamo alla sua natura complessa ed alla mobilità dei confini che la delimitano. In particolare, ultimamente, la formulazione a livello teorico di cosa sia la povertà multidimensionale e di come possa essere studiata sul piano metodologico ha trovato, tra le tante, la felice formulazione nella proposta di Amartya Sen del capability approach. Questo studioso non si limita ad elencare un insieme di variabili o dimensioni, identifica piuttosto a monte due specifici spazi di valutazione che diventano elementi portanti del processo di well-being: quello dei functionings (inteso come insieme di doing e being, ciò che l’individuo fa o è, i risultati e le realizzazioni cui l’individuo giunge, in altre parole, l’output) e quello delle capacità (ciò che l’individuo può fare e può essere, l’insieme di opportunità a disposizione dell’individuo). In tal modo vengono messi in luce gli elementi di differenza e le relazioni che legano questi due spazi, sottolineando il fatto che dal confronto fra questi due spazi è possibile far emergere il ruolo giocato dalle preferenze e dalle responsabilità delle scelte individuali in un approccio multidimensionale che tiene conto anche del contesto come elemento centrale nel processo di determinazione del benessere individuale, riconoscendo l’influenza che su di esso può esercitare quella pluralità di fattori economico-sociali, ambientali, culturali, politico-istituzionali, che sono essi stessi eterogenei e complessi.
La storia, comunque, ci aiuta a capire e a fotografare una realtà, nella fattispecie quella in Occidente a cavallo tra il medioevo e l’epoca moderna, che vede i poveri e la povertà al centro di più interessi e approcci ideologici.
Innanzitutto bisogna dire che sia nel basso medioevo che all’inizio dell’età moderna il rischio dell’impoverimento e della miseria non era un fatto occasionale. Tali rischi erano legati alla mancanza di difese della società nei confronti delle ricorrenti congiunture negative, economiche, sanitarie, alimentari, belliche, che ciclicamente permeavano quei secoli. Il rischio della povertà, coinvolgeva tutti, persino alcuni benestanti che a causa di specifici problemi decadevano dal loro status sociale divenendo “pauper verecundus” (poveri vergognosi). Tale situazione, ed in senso lato la povertà materiale individuale o di specifici gruppi (orfani, vedove, …) diviene qualitativamente diversa e quindi si problematizza alla fine del XII secolo, quando si fanno sentire i processi di stratificazione e differenziazione connessi con lo sviluppo demografico, la trasformazione delle strutture agrarie, l’affermazione dell’economia monetaria e dell’urbanizzazione[3].

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