lunedì 6 giugno 2016

Sfida all'Ok Cellular di Marco Pomar

Il cellulare è da anni un oggetto indispensabile, una specie di propaggine umana, compagno fedele delle nostre giornate.
Così, un po’ per sfida, un po’ per pigrizia, quando mi accorsi, l’altro giorno, di averlo dimenticato sotto carica, non tornai a casa a prenderlo.
Che se ne stesse mezza giornata per i fatti suoi, e mi lasciasse libero di guardare il cielo mentre passeggiavo, la strada mentre guidavo, le tette delle ragazze mentre parlavo con loro.
Non mi avrebbe liberato dalla schiavitù dello smartphone, ma almeno avrei dimostrato a me stesso di poterne fare a meno per qualche ora.
Dopo mezz’ora mi chiedevo cosa avrebbe potuto pensare Laura se non avessi risposto ai suoi wattsapp, e cosa sarebbe successo se il mio editore avesse deciso di contattarmi giusto adesso.
E quelli della rivista on line, se mi avessero chiamato proprio ora per darmi i soldi che mi devono?
E sti cazzi!, avrebbero richiamato.
Fatto sta che Laura mi chiamò giusto mezz’ora dopo che ero uscito da casa, e non ottenendo risposta mi telefonò altre ottantanove volte, ogni venti secondi circa.
Non risposi nemmeno, ovviamente, ai suoi sms, messenger, wattsapp e mail, visto che la mia vita comunicativa per quel giorno stava attaccata alla presa del salotto.
Leggermente allarmata, Laura telefonò a mio fratello prima e a mio cugino poi, i quali prima la tranquillizzarono, poi si agitarono per conto loro, visto che, inutile dirlo, non rispondevo neppure alle loro chiamate.
Laura venne allora a casa mia, e provò insistentemente a ottenere un risultato migliore attraverso il citofono.
Solo che, se uno non è a casa, non è in condizioni di rispondere, da quando l’uomo inventò il citofono.
In breve si venne a creare uno di quegli effetti panico a valanga, dove la palla di neve rotolando assume dimensioni esagerate.
Mio fratello chiamò i pompieri, Laura la protezione civile, mio cugino, sempre ottimista, il prete per l’estrema unzione, il mio vicino di casa le tv locali per l’esclusiva della scoperta del cadavere, sperando di ottenere qualcosa in termini di denaro e popolarità.
“Era un brav’uomo, salutava sempre!”
“Io avevo sentito un odore forte, ma pensavo fossero i broccoli bolliti della signora del secondo piano!”
Lo squillo a vuoto del mio telefono che sentivano da fuori la mia porta, confermava la prospettiva di trovarmi accasciato a terra in una pozza di sangue, con i lineamenti contorti e gli occhi sbarrati.
Non appena tornai a casa pensai che avessero finalmente arrestato l’assessore Santamonica, che abitava al terzo piano, per lo spiegamento di polizia, forze dell’ordine, giornalisti, televisioni, curiosi, disoccupati, pensionati e perditempo.
- Scusi, mi fa passare?
- Non si può, è tutto bloccato.
- Ma io devo andare a casa. Probabilmente si stanno preoccupando, sa, ho scordato il telefonino e…
- Senta, c’è un cadavere, dobbiamo aspettare la scientifica, che vuole che ci importi del suo telefonino? Ci lasci lavorare, per favore!
- Ma chi è morto?
- Mah, sembra uno scrittore che abitava qui, si è suicidato.
Non ci fu verso di convincerli. Arrivavano le voci più disparate: c’era chi diceva che avevano sequestrato un uomo, e che il sequestratore aveva chiesto un riscatto e un elicottero per fuggire, un altro raccontava di una sparatoria con otto morti di cui ancora non si conoscevano le generalità.
Mentre aspettavo che qualcosa o qualcuno mi consentisse di tornare a casa mia, cominciò a circolare pure il mio nome. Il signor Pomar, quello del primo piano, era stato trovato morto, dopo un mese, in stato avanzato di decomposizione.
- Ma Pomar sono io!
- Cosa dice? Lei non è in decomposizione!
- La ringrazio. Forse un poco appesantito, ma sto bene.
- Ma è sicuro di essere il signor Pomar?
- Lei pensa che se non lo fossi mi farei passare per me? A che scopo?
- In effetti…
Alla fine mi fecero parlare con un commissario, che si convinse della mia identità dopo averla letta sui documenti, e me la cavai con una denuncia per procurato allarme.
Mi presi cazziate da Laura (“Sei il solito deficiente! Guarda che casino hai combinato!”), che non mi parlò per una settimana, da mio fratello, dal prete amico di mio cugino, che si rifiutò perfino di benedirmi, dal mio vicino di casa, che scrisse Suca sulla fiancata della mia punto.
Da allora non lascio più il telefono a casa.
Ho capito che non siamo noi che non possiamo farne a meno, sono gli altri!

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