C'è differenza tra dire quello che ci passa per la
testa e la vera onestà intellettuale. Che sa cosa (e quando) è giusto tacere...
C'è una virtù che oggi sarebbe trionfante. Dico la sincerità.
Da quando furono abbattute le barriere architettoniche che la ostacolavano -
vale a dire il timore reverenziale, il rispetto, l'autorità, il decoro, il
galateo, la paura della punizione - la sincerità si presenta nuda, sfacciata, a
briglia sciolta, nei mille rivoli dei media.
Via i tabù,
vai con l'outing. Viviamo dunque nell'età della sincerità?
Per cominciare, la sincerità è una
virtù socialmente pericolosa e difficilmente compatibile con l'amicizia,
l'affetto e la simpatia, anche se poco sinceramente si sostiene il contrario.
La sincerità è una signorina stimata ma poco amata. Nubile, non sopporta mariti
e conviventi. A volte è irritabile, più spesso è irritante. Nell'immaginario
sociale, la sincerità è una virtù puerile come lo è la bugia, il cui metro
vistoso è il naso di Pinocchio che s'allunga. La sincerità più della bugìa ha
le gambe corte, perché non va lontano, tronca molte relazioni. Alla sincerità
come «virtù crudele» dedica da anni i suoi studi Andrea Tagliapietra (l'ultimo
suo saggio è Sincerità , ed. Cortina). La sincerità è un modo di dire ma non
implica un conseguente modo di agire. Il sincero può persistere in tutti i suoi
errori, vizi, bassezze; si limita a dichiararli. Chi è sincero può non essere
onesto, e chi è onesto può non essere sincero. Se confesso di aver rubato sono
sincero ma non smetto di essere ladro. Viceversa posso dire una bugia a fin di
bene, dunque onesta. Ma soprattutto non c'è nessun automatismo tra la sincerità
e la verità. Il sincero non dice la verità ma dice quel che pensa o, peggio,
quel che sente. Il sincero dice tutto ma non sempre pensa quel che dice. La
sincerità è soggettiva mentre la verità implica lo sforzo a uscire dalla
propria soggettività per avvicinarsi alla realtà obiettiva. La sincerità può
autoingannarsi: costruisce castelli d'illusioni e va ad abitarci. Il mio cuore
messo a nudo di Baudelaire indica un sincero aprirsi, esponendo le passioni, i
tormenti, le speranze; ma la verità è un'altra cosa. Senza dire del sofisma
cretese: se dico «sto mentendo» sono sincero o no? Quesito insolubile perché si
autosmentisce in ambo i casi.
La sincerità è spesso confusa con la
spontaneità: niente freni, niente veli, dico tutto quel che mi passa per la
testa. La spontaneità è im-mediata, non tollera la mediazione riflessiva; è
diretta, selvatica, primitiva. La spontaneità non è una virtù, è solo la
liberazione di un impulso, è uno sfogo, quasi un'incontinenza. La brutale
franchezza spesso produce nel nome di un piccolo bene, la sincerità, gravi
danni al prossimo e ai rapporti umani. Ferisce l'altrui sensibilità, non si
cura dei suoi effetti, danneggia i legami sociali. Dal '68 in poi si è
identificata la sincerità con la spontaneità. Come la verità è rivoluzionaria
sul piano politico, così sul piano interpersonale la sincerità è stata
considerata libertaria, liberatrice e dissacrante. In fondo, franco sta sia per
sincero che per libero. Da questa pseudo-sincerità sono nati due frutti, uno
per affinità, l'altro per contrasto. Da una parte è sorto il coming out, detto
in breve outing. Tutto ciò che era coperto dall'inibizione diventa oggetto di
esibizione. Il pudore per l'intimità cede al narcisismo, con sfacciata sincerità.
Dall'altra parte, il risultato paradossale della guerra all'ipocrisia
«borghese» è la nascita d'un nuovo codice dell'ipocrisia, il politically
correct: l'uomo di colore, il rom, il non vedente, il diversamente abile, il
personale ausiliario, l'operatore ecologico; il frasario dell'ipocrisia. La
sincerità delle origini si è capovolta in uno stucchevole rococò della falsità.
Torna in altre vesti la massima: la parola è data all'uomo per nascondere il
pensiero (e la realtà). Una parodia delle ipocrisie rivoluzionarie la fece già
Niccolò Tommaseo nel Vocabolario filosofico-democratico del 1799.
La civiltà è il contrario della
sincerità intesa come spontaneità. Ciò vale sia nell'ambito del costume e dei
comportamenti che sul piano del pensiero e della fede. Nel primo caso, l'etica
si accorda all'estetica e la sincerità non deve ferire lo stile e il buon
gusto; nasce il galateo, la civiltà delle buone maniere, che velano la
sincerità; le tende di pizzo del pudore. Ma anche in ambito teologico e
filosofico la verità si è servita della menzogna quanto e più della sincerità.
La pia fraus cristiana e le sante omissioni, le salutari menzogne di Platone,
la doppia verità di Averroè, il bello mentire di Campanella, la dissimulazione
onesta di Torquato Accetto, praticata anche da rigorosi moralisti come Seneca,
le menzogne necessarie di Nietzsche (il velo d'Apollo che veste di bello
l'orrore della verità e copre la tragedia del divenire). E in letteratura la
menzogna troneggia. Gli uomini, diceva Tristan Bernard, sono sempre sinceri ma
cambiano spesso sincerità. La realtà ha molte facce e noi possiamo essere
sinceri rispetto a una e insinceri rispetto a un'altra. Possiamo dire la
verità, ma non tutta la verità. Qui si tocca una questione cruciale che va
oltre la sincerità e investe la verità, che ama nascondersi, si confonde col
mistero e può essere colta per allusioni, bagliori e frammenti. È la poligonia
del vero, di cui parlava Gioberti nella Teoria del sovrannaturale ; la verità
ha vari lati, non uno solo. Nessuno ha la verità in tasca, semmai noi siamo
dentro la verità, ne cogliamo uno spicchio; ma ciò non impedisce che ci siano
altri spicchi di verità che non vediamo, non vogliamo o non sappiamo vedere.
Non è relativismo, che sottende la riduzione della verità ai punti di vista,
alle interpretazioni soggettive; ma la verità ha più lati, ossia la verità è
più grande di noi, ci trascende, noi possiamo aspirare a essere nella verità,
ma non ad avere la verità in pugno. Questo salva la verità dal monopolio
dispotico e dalla negazione nichilista.
Insomma la sincerità è una virtù interiore ma non
sempre è una virtù pubblica. Spesso ferisce, nuoce, spezza i legami; non
implica coerenza tra il dire e il fare. Non s'identifica con la spontaneità ma
assume valore se è consapevole e riflessiva. La sincerità è poi soggettiva e
dunque non coincide con la verità. È solo un lato del vero. Resta un pregio,
una virtù vera, se indica l'aprirsi agli altri senza secondi fini subdoli. E se
sa fermarsi davanti alla soglia del rispetto altrui, della carità, della
prudenza e della pazienza. Come ogni virtù, la sincerità si fa tiranna se è
unica e assoluta, sciolta da ogni vincolo e da ogni altra virtù. La sincerità
non è la virtù regina, ha valore se non violenta altre virtù. Al poligono della
verità corrisponde il politeismo delle virtù: le virtù si temperano a vicenda.
Senza freni la sincerità è una virtù che sconfina nella malvagità.