Il Museo dell'Inquisizione a Palermo
racconta la storia del Seicento della città.
Presentiamo l'intervista alla storica Giovanna Fiume,
consulente del Rettore per il costituendo museo dell'Inquisizione spagnola in
Sicilia e docente di Storia moderna dell' Università degli Studi di Palermo
Il costituendo museo
dell'Inquisizione, sorgerà nei locali un tempo destinati a carcere dei
penitenziati. Protagonisti indiscussi dello spazio museale sono i
graffiti e i disegni lasciati dai prigionieri dell'Inquisizione dello Steri di
Palermo. Per saperne di più su " la più viva e diretta testimonianza
del dramma che l'Inquisizione è stato per i popoli ad essa soggetta”
, come lo stesso Leonardo Sciascia considerò tali
testimonianze, abbiamo intervistato la storica Giovanna
Fiume, consulente del Rettore per il costituendo museo dell'Inquisizione
spagnola in Sicilia e docente di Storia moderna presso la facoltà di
Scienze Politiche dell' Università di Palermo.
di Anna Casisa
Professoressa Fiume, cosa è stata l'Inquisizione
in Sicilia?
L’Inquisizione di rito spagnolo è
stato un tribunale di fede istituito da Ferdinando e Isabella di Spagna per
perseguire le eresie, onde adeguare la corona alla logica unitaria di un rey, una fé, una ley. Venne
estesa nell’isola nel 1487 e cominciò a funzionare regolarmente solo quando,
attorno al 1500, venne dotata di risorse economiche. Vorrei ricordare però
che in Sicilia, sin dal Medioevo si era esercitata l’Inquisizione vescovile e
dal XIII secolo gli inquisitori erano stati delegati dal papa (Inquisizione
legatina). La giurisdizione sui delitti di fede veniva normalmente esercitata
dal vescovo, coadiuvato talvolta dagli inquisitori papali. Il re Ferdinando II
di Aragona si avvaleva del privilegio dell’Apostolica legazia, concesso da
Urbano II a Ruggero I nel 1098 in forza del quale i sovrani dell’isola
erano “legati nati” del pontefice. I re di Sicilia potevano rivendicare in tal
modo il controllo di tutta la materia ecclesiastica e, nel 1579, Filippo II
istituì il Tribunale della Monarchia con diritto di intervenire in tutte le
controversie riguardanti i rapporti tra i fori laici e i fori ecclesiastici. In
virtù di tale privilegio nessun atto della Santa sede poteva avere vigore senza
le lettere esecutorie del viceré. Dunque, abbiamo nell’isola un tribunale
di fede, non alle dipendenze del papa o dell’autorità ecclesiastica, bensì
della monarchia spagnola.
Chi erano gli inquisitori?
Gli inquisitori erano spagnoli, non
per forza aristocratici. La loro nazionalità fu una delle ragioni per cui
l'Inquisizione in Sicilia non venne accolta bene. Questi giudici non
possedevano i requisiti richiesti dalle consuetudini e dalle prammatiche
siciliane che, sin dal periodo aragonese, stabilivano che i giudici naturali
dei siciliani dovessero essere siciliani. Per consuetudine e diritto ogni
cittadino di Sicilia aveva come suo giudice naturale il giudice della propria
municipalità. Per consuetudine e legge costituzionale, ogni funzione
pubblica del regno, meno la carica di viceré, doveva essere svolta da un
siciliano nato. Il Sant’Ufficio era al contrario rappresentato da un
inquisitore spagnolo. Nell’isola la giustizia secolare era distinta dalla
giustizia ecclesiastica; l’Inquisizione pretendeva invece di cumulare l’una e
l’altra in un'unica giurisdizione.
Nel corso dei secoli reazioni e
proteste contro lo strapotere dell'Inquisizione si levarono anche da parte del
Senato palermitano e perfino di alcuni viceré. La lotta, contro l’“eretica
pravità” degli ebrei convertitisi al cristianesimo (i neofiti), non era
particolarmente sentita in Sicilia. Nel 1492 l’editto di espulsione degli ebrei
dalla Spagna aveva provocato, anzi, la contrarietà del Senato palermitano e
dello stesso viceré, preoccupati del danno che queste drastiche misure
avrebbero prodotto all’economia e al commercio siciliano. La soluzione di
richiedere la conversione degli ebrei alla religione cattolica, ricevere il
battesimo ed essere considerati cittadini e sudditi e, soprattutto, conservare
parte del patrimonio sembrò ragionevole a molti siciliani e fu accettata
dagli ebrei come una amara necessità. Ma nel 1500 Antonio la Peña, regio
inquisitore per la Sicilia, emise un editto di grazia con il quale chiese la
collaborazione di tutti i buoni cristiani per denunciare e rivelare questi
presunti eretici e quanti si adoperavano per nasconderli, metterli in salvo,
consigliarli, sostenerli in qualunque modo e misura. Cominciarono ad
accendersi i primi roghi (sono già 39 al 1513). Il parlamento siciliano del 1514
elevò una vibrata protesta e chiese una limitazione della giurisdizione
inquisitoriale. Tale richiesta rimase inevasa e gli inquisitori, che già
abusavano dei beni confiscati ai condannati, vennero addirittura nominati
custodi di tali beni e le loro competenze si estesero fino agli aspetti
patrimoniali delle inchieste.
Qual era la prassi giudiziaria?
L’Inquisitore emanava l’edictum fidei e chiedeva ai fedeli di denunciare chiunque fosse
sospetto di eresia, di intrattenere “commercio” con il demonio o possedesse
libri proibiti. Il presunto reo veniva fatto catturare senza preavviso;
solo alle persone di rango veniva recapitato, invece, un ordine di
comparizione. Ufficiali e familiari del Sant’Uffizio provvedevano a reperire
prove e testimonianze di colpevolezza e il notaio procedeva all’inventario dei
beni del presunto reo, sequestrandoli preventivamente e tenendoli sotto
custodia. Con il primo interrogatorio dell’imputato, dei testimoni e la
ricognizione dei luoghi, si chiudeva la fase del processo informativo e si
apriva la fase difensiva con nuovi interrogatori.
L’iter procedurale era coperto dal più stretto
segreto. Segrete erano le accuse e i testimoni, a causa di questa segretezza
potevano essere usate anche le informazioni raccolte in confessione. Le
sentenze erano inappellabili, non esisteva una seconda istanza di giudizio, per
quanto ripetutamente richiesta, insieme all’abolizione dei testimoni
segreti; gli inquisitori giustificavano i verdetti solo di fronte alla
Suprema. La tortura era lo strumento per raggiungere la prova plena del reato. Per suo tramite si arrivava alla sentenza: di
assoluzione (con formula piena o ad cautelam) a cui seguiva l’auto da fé.
Cos'era l'auto da fè?
Una cerimonia di riabilitazione pubblica, nel corso della
quale si sfilava in processione per le vie della città, tenendo in mano la
palma (“il giusto fiorisce come palma”, recitano i Salmi) e una candela, a simboleggiare
la luce interiore della fede. Il penitente veniva così riconciliato con la
fede, avendo ormai ritrattato i suoi errori dottrinari. Diciamo che era un atto
pubblico di ricomposizione dell’unità dei cristiani e di riammissione nel
grembo della chiesa di quanti ne erano stati esclusi: essi venivano ora assolti
pronunciando una abiura de levi, per le colpe meno gravi oppure de vehementi, che, sì,
riconciliava l’imputato, ma gli imponeva di indossare il sambenito per un certo
tempo, lo sottoponeva al continuo controllo del tribunale, gli sequestrava i
beni, lo interdiceva dai pubblici uffici, non poteva stilare atti pubblici, in
una parola, gli sottraeva la responsabilità civile. Ciò per un reato di natura
religiosa, per i suoi errori di fede. Se si trattava di un recidivo,
scomunicato in un precedente processo a cui era seguita una abiura, il
condannato, ricaduto negli stessi errori, veniva scomunicato e, considerato
impenitente e pertinace, relapso al braccio secolare che si sarebbe occupato
dell’esecuzione della sua sentenza
capitale.
E quindi il rogo?
Sì. Non potendo mandare a morte un “fratello in Cristo” i
giudici del Sant’Uffizio affidavano il reo al braccio della giustizia secolare
che si occupava di accendere il rogo nel Piano della Marina, di fronte allo
Steri, nel Piano di Sant’Erasmo o nel Piano della Cattedrale. Al rogo vengono
mandati ebrei e luterani, musulmani e negromanti, non solo le streghe. E
occorre, comunque, ridimensionare per la Sicilia il persistente stereotipo
della strega: qui donne e uomini, dediti a una ricca congerie di pratiche
magiche, non confessano il sabba satanico né accoppiamenti diabolici e
finiscono in pochi casi sul rogo.
Contro quali reati di fede si esercita il Santo
tribunale?
La prima ondata repressiva fu nei confronti degli ebrei (
criptoebraismo): ci furono 30 roghi già nel 1513. Poiché l’editto di
espulsione degli ebrei dalla Spagna aveva concesso loro di tenere parte dei
beni e di avere salva la vita qualora si fossero convertiti, molti, fingendo di
averlo fatto, continuavano a mantenere usanze e pratiche religiose della loro
vecchia fede. Ma il Sant’Uffizio era particolarmente sospettoso nei confronti
dei neofiti e accettava volentieri le delazioni dei vicini che non vedevano il
fumo del camino durante lo shabbath o ne sindacavano le abitudini
alimentari. Furono 1.965 i “giudaizzanti” processati e tra di essi
solo 5 furono assolti. Tra i criminali di fede troviamo anche i rinnegati, cioè
coloro che, catturati dai Turchi e portati in schiavitù in Barberia, si
convertivano all’islamismo e, se ricondotti in patria, erano considerati
colpevoli di avere per l’appunto rinnegato la vera fede, come il giovane
Francesco Mannarino. Era forte, tra XVI e XVII secolo, l’attrazione per
l’Islam non solo da parte di chi voleva disertare o sfuggire alla giustizia o
ai debiti, ma anche per chi desiderava una religione più libera in paesi noti
per le loro opportunità di ricchezza e di mobilità sociale che premiavano
l’audacia e l’ambizione. Molti funzionari della Grande Porta erano cristiani
rinnegati e divenivano pascià, alcaide, raìs di navi corsare, giannizzeri, gran
visir. Per queste ragioni molti cristiani diventavano “Turchi di professione”,
come li chiama un frate inviato in quei paesi a riscattarli, si convertivano
all’Islam per convenienza, per alleggerire il loro stato di schiavitù, “per il
piacere della vita libera e dei vizi della carne dove i Turchi vivono”. E
notoriamente “con Turca viene Mahoma”. Sono 846 i rinnegati che si
presentano davanti agli inquisitori che per lo più li assolvono (392) e li
riconciliano (282). Via, via troviamo anche i protestanti: nel 1541 viene
pronunciata la prima condanna a morte per eresia luterana e nel 1547 viene
eseguito il primo auto da fé con neofiti e luterani. Ma agli eretici in senso
stretto vanno aggiunti i 496 indiziati a cui si attribuiscono proposizioni
ereticali, senza che si riesca dalle loro deposizioni a inquadrare esattamente
le loro idee religiose dentro eresie codificate. Costituisce una colpa
pronunciare la frase: “Chi è mai tornato dall’Inferno con i piedi bruciati?”
oppure affermare che la Madonna era una profetessa o anche pensare che la
fornicazione non sia peccato. L’eresia si mischia frequentemente con la magia,
quando gli aspetti magici conducono alla adorazione del diavolo, alla messa
nera, ecc. Per questa ragione vengono processati 90 imputati che, se sommati ai
976 processati per stregoneria danno un contingente di 1.066. Ma è la blasfemia
a reclutare un contingente persino maggiore, a dimostrazione della vocazione
pedagogica del tribunale: tra i 636 blasfemi ci sono anche quelli che sono
stati sentiti dire “Santu diavuluni!”, imprecazione molto diffusa nell’isola.
Pertanto si cominciava il processo per una bestemmia, ma poi finivi per essere
punito come un negromante perché quel “santo diavuluni” veniva considerato
un'invocazione del diavolo quindi una fattispecie giuridica estremamente grave.
Un altro reato particolarmente perseguito è la bigamia, ma anche la trigamia e
la quatrigamia: sono soprattutto marinai, soldati e mercanti. Gli altri reati
sono di natura sessuale (fornicazione, sodomia e la sollecitatio ad turpia ad opera di sacerdoti).
Quali erano le torture praticate all'interno di questo
carcere?
La tortura è un altro aspetto di questa
tecnica giudiziaria, ma qui non erano efferate. La tortura del tribunale
dell'Inquisizione siciliana era quella della corda. Da una trave pendeva una
corda, la vittima veniva lasciata cadere coi polsi dietro la schiena
producendole così slogature alle braccia e alle spalle. Durava trenta minuti,
il tempo veniva misurato con una clessidra e durante la “somministrazione del
tormento”, come lo definiscono le fonti, il boia esortava il reo a
confessare e a dire la verità. Prima della tortura il medico visitava il
prigioniero e se lo trovava in grado di subire la tortura veniva registrato che
se fosse accaduto qualcosa durante quei trenta minuti era da imputare al
prigioniero. Tale pena veniva somministrata anche per tre volte. Era un carcere
fatto per far soffrire, ma non per far morire. Ricordo un caso in cui un
rinnegato, non volendosi pentire, comincia lo sciopero della fame. E' stracco,
e l'inquisitore in persona lo va a trovare nella sua cella e lo esorta a
mangiare, tanto che accetta perfino la richiesta del rinnegato, ossia ricevere
il cibo, riso e datteri, da mani musulmane. La tortura era lo strumento con cui
si otteneva la confessione e con essa la prova plena del
reato. Dopo la tortura, se si confessava, si veniva condannati. La pena più
diffusa è al remo sulle galere, ma i remieri non resistevano più di cinque anni
nelle dure condizioni delle galere e dunque una condannarli a sette-dieci anni
di remo equivaleva a una condanna a morte. Una seconda punizione era l'esilio
oppure si poteva essere reclusi temporaneamente in ospedale, in convento o
ancora condannati alla prigione perpetua. Tra le punizioni più atroci c'era
ovviamente il rogo.
Bestemmiatori, streghe, eretici ma
nelle celle si trovano preghiere e espressioni di devozione.
Perché i prigionieri erano credenti,
gli eretici non sono atei. Solo che non professavano la religione cattolica che
per i giudici era l’unica “vera fede” diversa e superiore alle altre,
considerate alla stregua di “sette” che bisognava “confondere” e “convertire”:
la chiesa del tempo si arroga il monopolio della Salvezza. Tra le tante
immagini sacre dipinte troviamo soprattutto la passione di Cristo e molti santi
martiri. La ragione è molto semplice: i penitenti considerano il carcere come
il personale Calvario che li assimila a Cristo e ai santi che per la fede
diedero la vita. Si convincono di stare in una sorta di purgatorio, ma hanno la
speranza della salvezza come si legge su una scritta lasciata in una cella:
“ogni peccato al fin giustizia aspetta”, anche se su un muro un altro scrive
“Nixiti di spiranza vui chi intrati”…
Ripensando ai metodi di tortura
previsti per le donne è possibile parlare di femminicidio?
No, le donne del nostro tribunale
subivano la tortura della corda meno degli uomini, non venivano denudate, i
medici si accertavano prima se per caso fossero gravide e si esentavano le più
vecchie dalla atroce tortura. La caccia alla stregoneria è stata oggetto di
studio di Maria Sofia Messana e nel libro Inquisitori, negromanti, streghe nella Sicilia moderna sostiene che in Sicilia essa è una
pratica prevalentemente maschile. Le nostre streghe erano piuttosto delle
medichesse e si dedicavano alla magia bianca, una magia ad amorem (e non ad
mortem) che serviva per far ritornare l'innamorato, per propiziare una
gravidanza, per proteggere i neonati. Da noi i roghi di streghe non sono stati
molti.
Qual è il valore di queste
testimonianze strazianti?
Dentro quel carcere e sulle sue
pareti ci sono fonti per la storia della lingua, dell’alfabetizzazione, della
conoscenza religiosa, delle devozioni, della storia del costume, c'è una
ricchissima iconografia, dai santi alla genealogia di Cristo, alla battaglia di
Lepanto, insomma c'è una piccola summa della cultura del Seicento e non
soltanto siciliana. E se si considera Palermo un crocevia del Mediterraneo
ci si rende conto che si ha uno spettro di informazioni che è veramente
ricchissimo.
In una cella si legge “O tu chi
trasi ccà chi speri?” Oggi lo Steri compensa la sua triste memoria: sede del
rettorato dell'università di Palermo e, presto, del museo dell'Inquisizione.
La compensa se si riesce davvero a
fare di questo edificio un museo e un centro di ricerca, di dibattito, di
incontro che è ciò a cui tendo con grande determinazione. Io vorrei che qui si
confrontassero le religioni che hanno avuto una vita molto conflittuale in
passato, prime fra tutte le tre religioni monoteiste del Mediterraneo, in fondo
è quello che recita la targa posta dal rettore Roberto Lagalla, in occasione
della visita di Giorgio Napolitano: “Questo che vide reclusi ebrei, luterani,
musulmani, quietisti, rinnegati, negromanti, guaritrici, bestemmiatori è oggi
luogo di dialogo tra religioni, popoli e culture”.
Quando si concluse questa triste
pagina della nostra storia?
Il 16 marzo 1782 fu firmato il
decreto di abolizione del tribunale del Sant’Uffizio e il viceré Caracciolo lo
eseguì il 27 successivo, ritenendolo un gesto rivoluzionario, equivalente alla
presa della Bastiglia. Ne informò orgogliosamente i suoi amici francesi, ne
diede personalmente notizia al suo amico D’Alembert con una lettera sul
“Mercure de France” il 1° giugno 1782, confessando di avere dovuto per la sola
e unica volta “ringraziare il cielo di averlo tolto da Parigi per servire a
questa grande opera”; liberò dal carcere una decina di condannati, poligami,
“eretici formali”, “sortileghe recidive”. Un anno dopo l'intero archivio del
Tribunale venne – disgraziatamente - dato alle fiamme. Tuttavia è stato
possibile nonostante il rogo dell’archivio conoscere la storia del tribunale e
dei suoi inquisiti palermitano attraverso la corrispondenza tra il tribunale
palermitano e la Suprema e generale Inquisizione con sede a Madrid, conservata
presso l’Archivio nazionale spagnolo. Si tratta di 6.393 processi che Maria
Sofia Messana è riuscita a censire, informatizzare in un database e studiare,
offrendoci insostituibili elementi di conoscenza dell’attività del tribunale.
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