In «Todo modo», pubblicato nel 1974, la decadenza della classe dirigente
ma anche una riflessione profonda sulla natura del messaggio cristiano
Gian
Maria Volonté e Renato Salvatori in una scena del film «Todo modo»
(1976), tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia e diretto da Elio Petri
Succede,
ai grandi. E succede con precisione aritmetica a quei grandi che
diventano dei classici quando ancora sono in vita. Com’è accaduto a
Leonardo Sciascia, che con il passare degli anni, e soprattutto dopo la
sua morte, avvenuta nel 1989, non si è mai più liberato della pletora di
sciasciani (e passi) e di sciascisti
(e qui, le cose si complicano, perché dall’esegesi all’arte divinatoria
il passo è breve), che spesso gli hanno fatto dire cose che non ha
detto e non si sono invece accorti di quelle che ha detto, e a volte ha
pure ripetuto con insistenza.
Prendiamo Todo modo, per esempio.
Pier Paolo Pasolini disse che questo è il miglior romanzo di Sciascia. E
in effetti lo è. Non perché lo abbia detto Pasolini, ma perché chi
abbia frequentato Sciascia sine ira ac studio
non può che ritrovarsi a dare lo stesso giudizio. Tutti i libri di
Sciascia sono magnifici per i temi che trattano e per come vengono
trattati: il bene e il male, la libertà e il potere, la legge e la
giustizia, l’uomo e Dio, l’apparenza e la realtà, la verità e la
menzogna, la mafia e l’antimafia, il dubbio e il dogma, l’individuo e lo
Stato, ma Todo modo li contiene
tutti, e dopo quarantadue anni (fu pubblicato da Einaudi nel 1974) ha
la stessa freschezza, non perché sia «attuale» — questo schiacciamento
sulla «attualità» rischia anzi di tradursi in una diminuzione —, ma
perché parla alla nostra coscienza, alla nostra intelligenza, alla
nostra natura miserabile di uomini con la forza di un «classico», cioè
di un’opera originale, imprescindibile, valida sempre, quasi un canone,
da poter quindi essere persino imitabile, ma unica, irripetibile.
Todo modo è la locuzione iniziale della massima di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti — Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina,
«Qualunque mezzo per cercare e trovare la volontà divina» — ed è lo
scopo dichiarato o quanto meno apparente di don Gaetano, il prete
protagonista del romanzo, che guida gli esercizi spirituali di alti
esponenti della classe dirigente del Paese riuniti in un albergo-eremo
siciliano. Nel quale tutto accade, compresi tre omicidi, anch’essi
apparentemente senza colpevoli, fuorché l’elevazione spirituale dei
partecipanti, descritti come «figli di puttana» costretti da don Gaetano
a recitare il Rosario andando su e giù in fila. Sono ministri,
deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali, «quella che si
suole chiamare classe dirigente e che in concreto cosa dirigeva? Una
ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili
d’oro». Il potere come dominio, certo, quel «cummannari è megghiu ca
futtiri» («comandare è meglio che scopare»), proverbio siciliano di
portata universale che Sciascia cita in altre sue opere, ma anche il
potere come trappola per gli stessi suoi detentori, che esercitandolo se
ne inebriano, fino a non riuscire più a farne a meno, come
tossicodipendenti.
Quando, due anni dopo l’uscita del libro di Sciascia, Elio Petri ne trasse il film omonimo,
tutti concordarono che era del personale politico democristiano degli
anni Settanta che si narrava, perché allora la Dc era il partito-Stato,
mentre tutti gli altri, più o meno, se non potevano andare assolti,
erano estranei a questa microfisica del potere tutta
democristiano-cattolica. Vero. Ma anche sbagliato. E infatti il film di
Petri, per quanto ben fatto, non è all’altezza del Todo modo
Sciascia, perché schiaccia un classico sull’attualità del momento e ne
depotenzia la universalità. Perché universale è il messaggio cristiano e
il discorso sul cristianesimo, e dunque sull’uomo e sul suo rapporto
con i suoi simili e con Dio, che pervade il romanzo. Sia quando questo
discorso ricorre ai paradossi: «I preti buoni sono quelli cattivi. La
sopravvivenza e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei
secoli, si deve più ai preti cattivi che ai buoni»; sia quando
approfondisce la riflessione sul cristianesimo che crede, sbagliando,
«che Cristo abbia voluto fermare il male», mentre, scrive Sciascia, Gesù
Cristo ha rovesciato questo convincimento, poiché «nella sua vera
essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Delitto,
dolore, morte».
Delitto, dolore, morte non sono soltanto rubriche del codice penale — di cui anche in Todo modo,
come in altri romanzi, si occupa un magistrato supponente e mediocre —,
ma sono anche gli effetti di quel «maneggiare e modellare come cera» la
coscienza altrui, come fa don Gaetano, e come fa, appena ne abbia la
opportunità, chiunque eserciti una qualsiasi forma di potere. Tanto
negli anni del partito-Stato, quanto (e forse anche peggio) nell’era del
web «libero», anzi a «democrazia diretta», che per i suoi «esercizi
spirituali» non ha nemmeno bisogno di organizzare incontri in qualche
appartato albergo-eremo.
Come uscirne? Sciascia, ancora una volta, gioca con le parole, rovescia i concetti, ribalta il senso comune. E invita, anzi istiga il lettore a fare altrettanto. Cummannari?
E se invece fosse la libertà la parola chiave? «La libertà è megghiu ca
futtiri»: non suona meglio, non è persino più efficace? Dice Giovanni
nel suo Vangelo: «La verità vi farà liberi». Ma se rovesciamo anche
queste parole non otteniamo: «La libertà vi farà veri»? Può anche darsi
che non basti. Ma in Todo modo, quando accade che prevalga la libertà, nemmeno don Gaetano può farci niente.
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