Mentre
le grandi scoperte ontologiche e i complessi sistemi filosofici hanno
continuato a rimanere appannaggio dei Greci, due grandi scrittori Romani si
sono confrontati con queste speculazioni, chiamandole a dare ragione di se
stesse dinanzi all’esigente tribunale del pensiero umanistico latino. Cicerone
e Seneca hanno fatto della filosofia un punto di confronto appassionato per la
loro vita e per l’intero mondo latino, aderendo a dottrine diverse quali
l’ecclettismo per il primo e lo stoicismo per il secondo.
Cicerone non
è classificato come ‘filosofo’, in quanto non elabora un proprio sistema
filosofico e non si addentra in costruzioni metafisiche complete; tuttavia
giunge ad osservazioni antropologiche rilevanti, che mettono le idee
filosofiche in relazione con le evidenze decisive dell’esperienza umana. Così
in lui troviamo affermazioni importanti sulla natura grandiosa e misteriosa del
soggetto umano: La ragione umana non è forse penetrata fino al cielo? Unici tra gli
esseri viventi, conosciamo il sorgere, il tramontare e le orbite delle stelle,
il genere umano ha definito il giorno, il mese, l’anno, ha conosciuto le
eclissi di sole e di luna e ha previsto per il futuro il loro verificarsi, la
loro intensità e il momento in cui si verificheranno. Dalla contemplazione di
questi fenomeni la mente perviene alla conoscenza degli dei, dalla quale nasce
la devozione a cui sono congiunte la giustizia e le altre virtù; da queste
deriva una vita felice analoga e simile a quella degli dei, in niente altro
inferiore agli esseri celesti che nell’immortalità, che non ha nulla a che
vedere con la felicità della vita.
[…]
Socrate, in Senofonte, chiede da dove abbiamo preso la mente, se il mondo non
la possiede. E io chiedo da dove abbiamo preso il linguaggio, i numeri, il
canto; a meno che non pensiamo che il sole parli con la luna quando essa si
avvicina, o che il mondo risuoni armoniosamente, secondo l’opinione di
Pitagora.
Quando
contempliamo queste ed altre innumerevoli cose, possiamo dubitare che ad esse
presieda un creatore, se esse sono nate, come pensa Platone, o se sempre
esistettero come pensa Aristotele, un regolatore di così grande opera e
apparato? Lo stesso è dello spirito umano, benchè tu non lo veda, come non vedi
Dio, tuttavia, come riconosci Dio dalle sue opere, così dalla memoria, dalla
facoltà inventiva, dalla rapidità del movimento, e dalla bellezza della virtù,
devi riconoscere l’essenza divina dello spirito.
Tutto
questo costituisce per Cicerone un rimando a Dio, anche se il mistero dell’uomo
si infittisce e si oscura quando il retore propone altre considerazioni amare
sulla condizione e sulla cattiveria umana e sul rapporto con l’apparentemente
incomprensibile Dio:
[…] sarebbe stato meglio che gli dei non ci avessero dato alcuna facoltà razionale del tutto, piuttosto che avercela data con effetti così disastrosi.
[…] sarebbe stato meglio che gli dei non ci avessero dato alcuna facoltà razionale del tutto, piuttosto che avercela data con effetti così disastrosi.
“Non
si occupa dei singoli individui”. Non c’è da stupirsi: non si occupa neppure
delle città. Non solo di queste: neanche delle nazioni e dei popoli. Ma se Dio
trascurerà anche questi, che c’è di strano se ha trascurato il genere umano
nella sua totalità?
Ma Epicuro ha estirpato radicalmente la religione dall’animo umano perché ha privato gli dei immortali della possibilità di soccorso e della benevolenza. Pur affermando che la natura divina è ottima e superiore, nega che in Dio vi sia benevolenza; così elimina l’attributo più caratteristico di una natura eccellente e superiore.
Ma Epicuro ha estirpato radicalmente la religione dall’animo umano perché ha privato gli dei immortali della possibilità di soccorso e della benevolenza. Pur affermando che la natura divina è ottima e superiore, nega che in Dio vi sia benevolenza; così elimina l’attributo più caratteristico di una natura eccellente e superiore.
In
tutto questo il grande retore di Arpino non vede una negazione della natura
divina, ma piuttosto l’affermazione di “quanto sia oscura e quanto sia
difficile spiegarla” . Egli, come si è detto, non argomenta queste
considerazioni in modo sistematico e risolutivo, ma ha il grande pregio di
sottoporle con forza alla riflessione di tutti. In tal modo l’indagine
antropologica, oggetto di queste pagine, viene richiamata ai livelli metafisici
da cui potrebbe inopportunamente essere tentata di staccarsi. E’ del resto
quello che Cicerone ottiene in modo rilevante affermando l’esistenza di una
legge universale, che è al tempo stesso eterna ed immutabile perché conforme
alla ragione divina: è quest’ultima infatti che costituisce il diritto
naturale, il quale precede qualsiasi ordinamento civile.
Vi è infatti una norma [ratio], che deriva dalla stessa natura, che spinge al ben fare e distoglie dal delitto, la quale incomincia ad essere legge non allorquando viene scritta, ma fin da quando è sorta; e sorse unitamente all’intelletto divino. Per il che la prima e verace legge efficace nel comandare e nel proibire è la stessa retta ragione del sommo Giove (De legibus II, 4, 10 [CICERONE 1972, p. 475]).
Vi è infatti una norma [ratio], che deriva dalla stessa natura, che spinge al ben fare e distoglie dal delitto, la quale incomincia ad essere legge non allorquando viene scritta, ma fin da quando è sorta; e sorse unitamente all’intelletto divino. Per il che la prima e verace legge efficace nel comandare e nel proibire è la stessa retta ragione del sommo Giove (De legibus II, 4, 10 [CICERONE 1972, p. 475]).
[…]
la legge consiste nella norma suprema [ratio summa] inerente alla natura, la
quale ordina ciò che si deve fare, e proibisce il contrario. Questa norma
[ratio] medesima, quando è resa evidente ed impressa nella mente umana, è legge
(De legibus, I, 6, 18-19 [CICERONE 1972, p. 429]).
Vera
legge è la retta ragione, in armonia con la natura, universale, immutabile,
eterna, che con i suoi ordini richiama l’uomo al dovere e con i suoi divieti lo
distoglie dalla frode. Gli ordini e i divieti suoi sono ascoltati dagli uomini
onesti, mentre non hanno alcun potere sui malvagi. Non è lecito ad essa
sostituire altra legge, né modificarla in alcuna parte o annullarla del tutto,
poiché né popolo né senato potrà dispensarci dall’osservanza di una legge che
ha bisogno di un Sesto Elio per essere commentata e spiegata. Non è essa
infatti diversa da Roma ad Atene o dall’oggi al domani; ma unica, eterna,
immutabile e capace di tenere a freno tutte le genti di ogni tempo. Poiché uno
è signore e guida di tutte le cose, il dio, colui che tale legge ha ideato,
meditato, emanato; e chi né a lui né a quella obbedirà, rinnegherà se stesso e
la propria natura di uomo, e dovrà subirne la pena, anche se sfuggirà a quei
supplizi, che tali sono ritenuti nel giudizio degli uomini (De re pubblica III,
22, 33 [CICERONE 1994, pp. 187-189])
Tutto
questo costituisce per Cicerone un rimando a Dio, anche se il mistero dell’uomo
si infittisce e si oscura quando il retore propone altre considerazioni amare
sulla condizione e sulla cattiveria umana e sul rapporto con l’apparentemente
incomprensibile Dio:In tutto questo il grande retore di Arpino non vede una
negazione della natura divina, ma piuttosto l’affermazione di “quanto sia
oscura e quanto sia difficile spiegarla” . Egli, come si è detto, non argomenta
queste considerazioni in modo sistematico e risolutivo, ma ha il grande pregio
di sottoporle con forza alla riflessione di tutti. In tal modo l’indagine
antropologica, oggetto di queste pagine, viene richiamata ai livelli metafisici
da cui potrebbe inopportunamente essere tentata di staccarsi. E’ del resto
quello che Cicerone ottiene in modo rilevante affermando l’esistenza di una
legge universale, che è al tempo stesso eterna ed immutabile perché conforme
alla ragione divina: è quest’ultima infatti che costituisce il diritto
naturale, il quale precede qualsiasi ordinamento civile.[ratio]
Né solo il giusto e l’ingiusto hanno la loro differenziazione nella natura stessa, ma in generale tutto ciò ch’è onesto e tutto ciò ch’è turpe. La comune nostra capacità di comprendere, infatti, ci rende note tali cose e ha posto nella nostra anima i principi mediante i quali giudichiamo che la virtù sta nell’onesto e il vizio nel turpe. Ritenere che questo criterio di giudizio abbia le sue radici nell’opinione e non nella natura, è da folle. Neanche la virtù – per usare un nome impropriamente – del cavallo o dell’albero risiede nell’opinione, ma nella natura. […]. La virtù è la ragione nel suo stato perfetto; e questo è un fatto di ordine naturale senza alcun dubbio» (Cicerone, De legibus, I, 16, 44-45 = SVF III, 311-312 [AA.VV. 1994, vol. II, pp. 1205-1206]).
L’esito
sul piano antropologico di queste affermazioni sulla legge naturale è
l’attestazione nell’uomo di una capacità razionale in grado di cogliere la
legge divina attraverso l’osservazione della realtà: l’uomo cioè non possiede
solo la capacità di cogliere dei fenomeni fisici, ma anche quella di andare
oltre ad essi per giungere sul piano dell’eterno e dell’immutabile, come nella
già incontrata dottrina platonica delle idee. L’uomo si conferma dunque un ente
assolutamente sui generis.
Seneca dal
canto suo rafforza il riconoscimento ciceroniano della superiorità dell’uomo
rispetto alla meccanicità degli altri enti con l’introduzione dei concetti di
coscienza e di volontà.
La ‘coscienza’ è la consapevolezza del bene e del male; non una semplice conoscenza intellettuale, ma una intuizione originaria e ineliminabile, da cui l’uomo non può nascondersi:
Nessuno, se non coloro che hanno sempre agito secondo la propria coscienza, che mai si inganna, si rivolge volentieri al passato; chi ha desiderato molte cose con ambizione, ha sprezzato con superbia, si è imposto senza regola né freno, ha ingannato con perfidia, ha sottratto con cupidigia, ha sprecato con leggerezza, ha paura della sua memoria. (Lettere a Lucilio)
[…] le cattive azioni sono torturate dalla coscienza: il suo maggior tormento è l’essere straziata senza tregua da un’ansia continua e il non poter credere a chi promette tranquillità. È proprio questa la prova, caro Epicuro, che noi aborriamo la criminalità per disposizione naturale: tutti i delinquenti hanno paura, anche se sono al sicuro. (Lettere a Lucilio)
Perché è radicata in noi la ripugnanza per un’azione condannata dalla natura. Per questo anche chi sta nascosto non è mai sicuro di rimanerlo: la coscienza lo accusa e lo smaschera a se stesso. (Lettere a Lucilio)
Vuoi sapere che cosa sia il vero bene o da dove venga? Te lo dirò: dalla buona coscienza, dagli onesti propositi, dalle rette azioni, dal disprezzo del caso, dal tranquillo e costante tenore di vita di chi segue sempre lo stesso cammino. (Lettere a Lucilio)
Aver coscienza delle proprie colpe è il primo passo verso la salvezza. (Lettere a Lucilio)
La ‘coscienza’ è la consapevolezza del bene e del male; non una semplice conoscenza intellettuale, ma una intuizione originaria e ineliminabile, da cui l’uomo non può nascondersi:
Nessuno, se non coloro che hanno sempre agito secondo la propria coscienza, che mai si inganna, si rivolge volentieri al passato; chi ha desiderato molte cose con ambizione, ha sprezzato con superbia, si è imposto senza regola né freno, ha ingannato con perfidia, ha sottratto con cupidigia, ha sprecato con leggerezza, ha paura della sua memoria. (Lettere a Lucilio)
[…] le cattive azioni sono torturate dalla coscienza: il suo maggior tormento è l’essere straziata senza tregua da un’ansia continua e il non poter credere a chi promette tranquillità. È proprio questa la prova, caro Epicuro, che noi aborriamo la criminalità per disposizione naturale: tutti i delinquenti hanno paura, anche se sono al sicuro. (Lettere a Lucilio)
Perché è radicata in noi la ripugnanza per un’azione condannata dalla natura. Per questo anche chi sta nascosto non è mai sicuro di rimanerlo: la coscienza lo accusa e lo smaschera a se stesso. (Lettere a Lucilio)
Vuoi sapere che cosa sia il vero bene o da dove venga? Te lo dirò: dalla buona coscienza, dagli onesti propositi, dalle rette azioni, dal disprezzo del caso, dal tranquillo e costante tenore di vita di chi segue sempre lo stesso cammino. (Lettere a Lucilio)
Aver coscienza delle proprie colpe è il primo passo verso la salvezza. (Lettere a Lucilio)
La
‘volontà’ è l’energia con cui l’uomo può decidere di aderire al bene. All’uomo
infatti non può bastare la conoscenza del bene per poterlo attuare; non è
sufficiente ‘conoscere’ il bene, occorre anche ‘volerlo’:
Non sono oneste le azioni compiute contro voglia o per costrizione; tutto ciò che è onesto parte dalla volontà. (Lettere a Lucilio)
L’uomo dunque si dimostra in relazione con la realtà soprasensibile non solo per la conoscenza delle idee, ma anche per queste facoltà non-meccaniche che son o in lui, la coscienza e la volontà
Non sono oneste le azioni compiute contro voglia o per costrizione; tutto ciò che è onesto parte dalla volontà. (Lettere a Lucilio)
L’uomo dunque si dimostra in relazione con la realtà soprasensibile non solo per la conoscenza delle idee, ma anche per queste facoltà non-meccaniche che son o in lui, la coscienza e la volontà
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