Ugo Arioti
Bennett: l’ironia diventa sarcasmo
Tono inusuale per Alan Bennett in Il gioco del panin(Adelphi): in sei storie di donne tutto l’astio piccolo borghese dell’Inghilterra. Sembrano monologhi, sono sfoghi
di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI
Alan Bennett, il prolifico scrittore teatrale inglese,
autore di pièce e racconti dei quali si può dire che hanno fatto storia, come,
per esempio, La pazzia di re Giorgio oppure,
più recente, La sovrana lettrice,
torna con una raccolta di monologhi creati per la televisione, intitolata Il gioco del panino (Adelphi, pp. 132, e
15) ma che non per questo si gustano meno nelle pagine di un libro. Ironia e
leggerezza sono il segno che lo contraddistingue, che ogni volta ritroviamo nei
suoi scritti, assieme a una conoscenza profonda non soltanto dell’animo ma
anche delle abitudini, degli usi, dei modi di vivere, di parlare e di pensare
dell’homo britannicus — che non è poi troppo diverso da quello italicus —
appartenente a un po’ tutte le classi sociali, da quelle più modeste dei
piccoli centri di provincia, da cui proviene egli stesso, fino a quelle alte,
privilegiate, frequentatrici di salotti che, grazie ai suoi successi letterari,
per certo gli si sono aperti.
In queste pagine
composte vari anni fa ma pubblicate solo ora in Italia c’è qualcosa di
diverso dalle altre sue, nel senso che all’abituale, sorridente lievità si
affianca una traccia di amarezza che inevitabilmente trasforma in sarcasmo la
sua abituale ironia. Protagonista dei monologhi è, infatti, il lato oscuro di
quell’uomo britannico — e ovviamente anche della donna — che dietro
l’apparente, ordinato perbenismo o la conclamata bonomia nasconde perfidia,
imbroglio e perversione. Ma essendo in fondo Bennett un comprensivo amante dei
suoi simili, non condanna mai veramente, ma al contrario, prova indulgenza un
po’ per tutti, anche per i più cattivi.
Il gioco del panino (Adelphi, pp. 132, euro 15),
traduzione di Mariagrazia Gini
Poi ne capita una
(un’altra) che detesta il marito in quel modo assoluto delle vecchie coppie
che si detestano. E nell’astio feroce include anche il suo cane, a causa dei
peli che lascia sulla moquette che vorrebbe sempre perfettamente pulita. Lo
odia per via del cane che perde i peli e abbaia sempre, per i vestiti
imbrattati di sangue che porta a casa dal macello dove lavora, per gli stivali
infangati con i quali mette piede in cucina: non per la ragione per la quale
dovrebbe davvero odiarlo; e, soprattutto, temerlo. Sei storie narrate con spietato humor, e collocate, questa volta, tutte quante in ambienti di piccola e piccolissima borghesia, in località tendenti allo squallido, tra vicini di casa sempre pronti a spiare, a immischiarsi, a litigare. E il tema di ciascun monologo è stato ispirato all’autore da un ricordo personale, da un incontro, da una conversazione, e poi rielaborato con la magia della sua scrittura. Alan Bennett lo spiega nel dettaglio in un’ampia prefazione di sua mano che si legge come se fosse un settimo monologo, lieve, questo, e spiritoso, privo dell’amarezza che caratterizza gli altri, e privo, soprattutto, dell’ombra fosca che avvolge alcuni.
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