domenica 3 aprile 2016

Bennett: l’ironia diventa sarcasmo

La satira e l'ironia usate come armi sociali di riequilibrio, è un vecchio gioco, ma val la pena di seguire i fiume per capire quali sono le sponde possibili, eticamente
Ugo Arioti

Bennett: l’ironia diventa sarcasmo


Tono inusuale per Alan Bennett in Il gioco del panin(Adelphi): in sei storie di donne tutto l’astio piccolo borghese dell’Inghilterra. Sembrano monologhi, sono sfoghi

di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI
 
Alan Bennett, il prolifico scrittore teatrale inglese, autore di pièce e racconti dei quali si può dire che hanno fatto storia, come, per esempio, La pazzia di re Giorgio oppure, più recente, La sovrana lettrice, torna con una raccolta di monologhi creati per la televisione, intitolata Il gioco del panino (Adelphi, pp. 132, e 15) ma che non per questo si gustano meno nelle pagine di un libro. Ironia e leggerezza sono il segno che lo contraddistingue, che ogni volta ritroviamo nei suoi scritti, assieme a una conoscenza profonda non soltanto dell’animo ma anche delle abitudini, degli usi, dei modi di vivere, di parlare e di pensare dell’homo britannicus — che non è poi troppo diverso da quello italicus — appartenente a un po’ tutte le classi sociali, da quelle più modeste dei piccoli centri di provincia, da cui proviene egli stesso, fino a quelle alte, privilegiate, frequentatrici di salotti che, grazie ai suoi successi letterari, per certo gli si sono aperti.


Alan Bennett (Leeds, 1934)
In queste pagine composte vari anni fa ma pubblicate solo ora in Italia c’è qualcosa di diverso dalle altre sue, nel senso che all’abituale, sorridente lievità si affianca una traccia di amarezza che inevitabilmente trasforma in sarcasmo la sua abituale ironia. Protagonista dei monologhi è, infatti, il lato oscuro di quell’uomo britannico — e ovviamente anche della donna — che dietro l’apparente, ordinato perbenismo o la conclamata bonomia nasconde perfidia, imbroglio e perversione. Ma essendo in fondo Bennett un comprensivo amante dei suoi simili, non condanna mai veramente, ma al contrario, prova indulgenza un po’ per tutti, anche per i più cattivi.
I suoi monologhi si svolgono quasi sempre in un interno, ed è per lo più una donna che parla: seduta in una cucina, in un tinello, dietro la cassa di una bottega, vicino a un caminetto con fuoco finto. Non è giovane, spesso proprio vecchia, parla di un uomo naturalmente. Una volta è un marito che, reso invalido da un ictus, fa di tutto per indispettirla; fino a quando non arriva una giovane badante straniera che, misteriosamente (o forse neanche troppo), riesce a rimetterlo quasi in sesto. Un’altra volta è un anziano ed elegante pedicure che, passo dopo passo, la induce a certi giochi con i piedi che lei non aveva mai immaginato, ma che hanno l’effetto di far dire a chi la incontra: «Come stai bene, sei in grandissima forma». Forma — smagliante — probabilmente non dovuta soltanto al fatto che di calli non ne ha più.

Il gioco del panino (Adelphi, pp. 132, euro 15), traduzione di Mariagrazia Gini
Poi ne capita una (un’altra) che detesta il marito in quel modo assoluto delle vecchie coppie che si detestano. E nell’astio feroce include anche il suo cane, a causa dei peli che lascia sulla moquette che vorrebbe sempre perfettamente pulita. Lo odia per via del cane che perde i peli e abbaia sempre, per i vestiti imbrattati di sangue che porta a casa dal macello dove lavora, per gli stivali infangati con i quali mette piede in cucina: non per la ragione per la quale dovrebbe davvero odiarlo; e, soprattutto, temerlo.
Sei storie narrate con spietato humor, e collocate, questa volta, tutte quante in ambienti di piccola e piccolissima borghesia, in località tendenti allo squallido, tra vicini di casa sempre pronti a spiare, a immischiarsi, a litigare. E il tema di ciascun monologo è stato ispirato all’autore da un ricordo personale, da un incontro, da una conversazione, e poi rielaborato con la magia della sua scrittura. Alan Bennett lo spiega nel dettaglio in un’ampia prefazione di sua mano che si legge come se fosse un settimo monologo, lieve, questo, e spiritoso, privo dell’amarezza che caratterizza gli altri, e privo, soprattutto, dell’ombra fosca che avvolge alcuni.

 

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