L’intensità
dell’amore delle donne
Da bambino ero una
trottola inarrestabile, uno spirito libero che viveva dentro sogni senza fine
nella Natura incontaminata del borgo rurale di Villagrazia, affacciato sulla
Conca d’oro.
Certe volte, la notte,
salivo sul tetto e me ne stavo lassù. Le gru sonnecchianti e stridule sparse
per la murata marina buia mandavano raggi, luci gialle e bianche. Cosa a cui
erano preposti, di giorno con la luce del sole, i bellissimi cinque pavoni che
aprivano le loro ruote intarsiate di gioielli di luce e di colore sul terrazzo
di Za Teresina, la moglie del guardiano del baglio.
A qualche chilometro
dalla terrazza di quell’antica casa, il porto, con le sue grandi navi bianche e
la loro fosforescenza, era un lampo magenta sotto il mare e il cielo neri come
la pece. La luna mi guardava e io le ridevo felice e incosciente.
Stringevo le ginocchia al
petto magro, mentre una brezza leggera accarezzava le mie mani nude scheggiate
dalle pietre e dai rami del bosco dietro la grande casa dei nonni.
Altre notti guardavo, dalla finestra della mia stanzetta, le scariche elettriche esplodere nella pianura urbana della conca d’oro, i fulmini sono come vene accecanti che si piantano tra le nubi e, volando come impazziti in un turbine di luce bianca accecante, vanno a morire sulla terra nuda e sulle pietre e sugli alberi e sulle case. Io non ho paura delle folgori.
Altre notti guardavo, dalla finestra della mia stanzetta, le scariche elettriche esplodere nella pianura urbana della conca d’oro, i fulmini sono come vene accecanti che si piantano tra le nubi e, volando come impazziti in un turbine di luce bianca accecante, vanno a morire sulla terra nuda e sulle pietre e sugli alberi e sulle case. Io non ho paura delle folgori.
Certe volte mi rintanavo nel tetto morto
della grande casa dei nonni materni; tra brividi di gioia e di paura assaporavo
il gusto dell’avventura e del limite tra fantasia e realtà. Mangiavo grappoli
di uva passa appesa alle assi della copertura. Mi saziavo di pomodori e fichi
secchi. E la paura era un gioco eccitante.
Certe volte, correndo come un capriolo, tra
rocce e sentieri impervi di montagna, catturavo farfalle e coleotteri, senza un
motivo preciso. Libero e incosciente come una forza della natura. Era un tempo
bambino che cresceva insieme a me e impazziva e si sfrenava nelle fantasie di
un piccolo corpo di cervo volante.
Certe volte vedevo un angelo, uno grazioso
e forte, che mi seguiva sorridente e mi accarezzava lieve come un soffio di
vento.
Poi cantavo come un uccellino e seguivo una
lucertola che ondeggiava veloce sopra una roccia antica. Era il tempo in cui
non esisteva la fatica.
Ricordo il pomeriggio. Le visite delle
altre Signore a mia nonna, la matriarca. Ero un guscio d’ometto che si
insinuava sotto il grande tavolo centrale di legno massiccio, coperto da una
magnifica tovaglia trapuntata e merlettata con alamari e arabeschi. Mi
intrufolavo, malandrino, con la mia piccola mano di bimbo tra le cosce di
quelle donne, madri, mogli, sorelle, amiche che conversavano insieme delle cose
di casa e dell’educazione della prole, intorno a una fumante tazza di caffè e
un vassoio d’argento ricolmo di dolcetti e biscotti ai fichi e alle mandorle. <
Donna Rosa gradite un goccio di Rosolio?> < Grazie Zia!> Donna Rosa
era la più giovane, ancora sedicenne eppure già donna come le altre? Avevo
giocato con lei al medico e il malato. Le carezzavo le gambe, stando in quel
capanno accogliente sotto coperta e sentivo come un piccolo dolore strisciante
che mi percorreva la schiena. Sentire chiamare donna la mia compagna di giochi
era una cosa strana per me. Lei conosceva le mie manine giovani e si apriva al
mio tocco come una pesca tabacchiera,
dolce e vellutata, alle mani dell’affamato inconsapevole. Le signore parlavano,
ma io non le seguivo, i miei avidi sei anni e tre quarti gridavano nuove mosse
al mio cuore ancora troppo ingenuo e forse l’unica domanda che percorreva il
mio encefalo imberbe era perché Rosa era seduta con le donne “grandi”!?!
Mi fermai sul bordo della sua coscia
prossimo al pube e ritrassi la mano. Mi era venuta l’idea di toccare un'altra
“donna” per vedere se provavo lo stesso identico brivido alla schiena. Era un
dolore? Troppo giovane per capirlo, ma abbastanza monello per essere sfacciato
mi rivolsi alle gambe della zia Francesca, Ciccina! La zia, a quel tempo, era
ancora nubile. Alta, giunonica e allegra era, delle zie e delle signore
presenti, la mia preferita. I bambini non hanno preconcetti, sono animali che
cercano anime e non fanno compromessi con nessuno. Istintivamente, zia Ciccina
mi faceva simpatia e mi rifugiavo tra le sue braccia amiche quando dovevo
sfuggire a un liscia busso di mia madre.
Così provai con lei. Dapprincipio ebbe un
sussulto, come una molla, le sue gambe si serrarono, poi le apri dolcemente
lasciando che le mie manine avide e senza vergogna le attraversassero tutta l’epidermide
fino al merletto delle mutande di pizzo che stretto tra pollice e indice
strisciando tra i polpastrelli succhiai come fosse la seta lasciva del
lenzuolino che mi copriva d’estate. Ricordi
come pietre e pietre come ricordi. Quel sottoposto era zona franca. Le donne
sopra continuavano le loro amabili conversazioni e io sotto le mie prime
esplorazioni dell’universo femminile. Credo che all’inizio l’immensità infinita
ricca di stelle e galassie e comete fosse proprio un corpo di donna. Questa,
naturalmente, è un ipotesi di lavoro che ho consolidato nel tempo, tra i quindici e
i diciotto anni, poi ho continuato a crescere secondo la cultura religiosa
cattolica e romana dei miei genitori. Dio è uomo, il figlio di Dio è uomo, lo
Spirito Santo è declinato al maschile. Ci resta, per fortuna, la Madonna, ma la
sua provenienza è terrena dicono le Sante Scritture. Allora? Allora ero un mocciosetto
che metteva le mani dovunque e non capiva la paura, la rinuncia, la prevenzione
dei rischi, le donne e gli uomini. Per me erano tutti soggetti con cui giocare.
Ero io che stabilivo le regole, a loro era lasciato solo di modificarle
leggermente a secondo dei casi, ma senza stravolgere le mie mosse.
La zia Ciccina, graziosa come sempre,
lasciava che io lambissi e sfiorassi le sue bellissime gambe e lo faceva, ora,
con la massima disinvoltura. Ebbi ancora un brivido leggero e, penso, dovette
piacermi perché questo mi aveva fatto capire una cosa fondamentale: Rosa e la
zia Ciccina , entrambe, erano donne.
Peccato avrei volentieri continuato a
giocare con Rosa al medico e il malato. In quel gioco infantile era lei che
manteneva su di me una maggiore attività curativa e benefica, ma ormai lei
faceva parte del “circolo della conversazione femminile del piano di sopra”! Cosa che mi lasciò, per alcuni versi, interdetto,
per altri indifferente, tanto stando sotto io continuavo ad avere il controllo
della situazione e col tempo, sapevo inconsciamente, avrei trovato nuovi giochi
da fare con le Signore. Resta comunque il bellissimo ricordo di quelle carezze
tanto apprezzate allora quanto ora che mi danno serenità e gioia e mi
trasmettono ancora, attraverso un brivido sulla schiena, l’intensità dell’amore
delle donne.
Pensieri bambini ed adulti sapientemente mescolati nel segno di un amore che non può finire mai! Mi piace! Laura
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