mercoledì 17 luglio 2013

Zetas l’orgia del potere narcos di Roberto Saviano


Zetas l’orgia del potere narcos

È il cartello messicano più potente. Un’organizzazione militare che tortura e uccide. Ora il suo leader, Miguel Treviño Morales, è stato arrestato

Quando ascoltate le discussioni sui destini del nostro tempo, su chi li determina, su multinazionali e governi raramente sentirete nominare il loro nome. Eppure i Los Zetas sono tra le aziende moderne più influenti, certamente una delle strutture imprenditoriali e militari più feroci e efficienti. Raramente arrivano sulle prime pagine italiane, raramente i telegiornali europei si occupano di loro: eppure sono i sovrani della cocaina, sono responsabili insieme agli altri cartelli messicani di una vera e propria guerra civile, settantamila morti in dieci anni, 80 giornalisti uccisi e 17 scomparsi. Ora il vertice di quest’organizzazione messicana è stato arrestato. Miguel Angel Treviño Morales detto «El Z40» era il capo della più nuova e indecifrabile delle mafie. Uomo capace di saldare capacità di investimento imprenditoriale e finanziario con una meticolosa ossessione militare. Era conosciuto per la tecnica dello «stufato»: ordinava di mettere i suoi nemici nei barili di benzina e poi li bruciava vivi. Era temuto perché faceva sopraggiungere la morte procurando il maggior dolore possibile a chiunque si ponesse contro i suoi affari. I Los Zetas mettono in conto di perdere ciclicamente i loro capi, anzi è un bene che al vertice si duri poco per permettere ai propri uomini di rivaleggiare e quindi guadagnare sempre di più per primeggiare.


Il loro fondatore Arturo Guzmán Decena, “El Z1”, venne ammazzato nel 2002 in un ristorante di Matamoros, roccaforte del gruppo. La leadership passò a Heriberto Lazcano Lazcano detto “El Lazca”. Spietato e disciplinato, rafforzò il gruppo, affiliò centinaia di persone, strutturò l’organizzazione rendendola capace di poter corrompere chiunque. Nell’ottobre del 2012, El Lazca che adorava il baseball andò da latitante a guardare la sua squadra allo stadio di Progreso. Arrivò una telefonata anonima alla Marina militare messicana i soldati andarono a prenderlo, scoppiò una sparatoria e il capo dei Los Zetas fu ucciso. Il cadavere del Lazca sparì dall’obitorio ancora prima che potessero essere fatti i test del Dna, che avrebbero confermato o meno la sua identità: era davvero El Lazca l’uomo ucciso tra le tribune di uno stadio o non era lui? Perché il corpo di un cadavere era stato rapito? Forse solo per alimentarne la leggenda, che un capo Zetas non muore mai. E mentre in Messico e negli Usa ci si chiedeva se El Lazca fosse davvero morto o quel cadavere non fosse lui al vertice del gruppo era già salito un nuovo leader. Proprio lui, Miguel Angel Treviño Morales, “El Z40”. Era entrato da piccolo nel gruppo, poco più che adolescente, Treviño Morales era presto diventato capo della plaza di Nuevo Laredo con il compito di contrastare l’avanzata del Cartello di Sinaloa in quella zona, poi fu mandato in missione in Guatemala per eliminare concorrenti locali e infine i suoi buoni risultati sul campo lo avevano portato alla promozione a comandante nazionale.


Dopo la caduta di Lazcano, quindi, Treviño sembrava il sostituto perfetto per guidare il Cartello. Le autorità americane lo pedinavano da tempo e su di lui avevano messo una taglia da 5 milioni. Accusato di narcotraffico e detenzione illegale di armi, Treviño Morales coordinava spedizioni di tonnellate di cocaina e marijuana ogni settimana dal Messico agli Stati Uniti attraverso il Guatemala, e riportava indietro sulla stessa rotta milioni di dollari, che poi riciclava servendosi anche delle più importanti banche americane. Il 12 giugno 2012, gli agenti federali statunitensi arrestarono sette persone, tra le quali c’era anche un pezzo grosso, José Treviño Morales, il fratello di Miguel. José negli Stati Uniti figurava come imprenditore dedito a un’attività molto apprezzata negli stati del Sud: allevava cavalli da corsa e li faceva partecipare, e spesso vincere, alle gare più importanti.


Tramite quest’attività, riuscì a riciclare milioni di narcodollari attraverso i conti della Bank of America negli Stati Uniti. (La Banca ora sta collaborando con l’Fbi.) Ma per capire meglio di cosa stiamo parlando bisogna fare un lungo passo indietro.


Messico 1999. Sulla testa del capo del Cartello del Golfo, Osiel Cárdenas Guillén, a quel tempo uno dei cartelli più forti del narcotraffico messicano, pendono due taglie: una ufficiale da 2 milioni di dollari stanziata dall’Fbi, l’altra ufficiosa ma altrettanto seria stanziata dai suoi più acerrimi rivali, i capi di Juárez e Sinaloa, disposti a pagare 1 milione di dollari pur di vederlo morto.


Osiel, forse per la prima volta in vita sua, è spaventato. Vede nemici ovunque e deve proteggersi. Decide quindi di comprarsi non un semplice braccio armato, ma un vero e proprio esercito. Sceglie infatti soldati corrotti e disertori del corpo d’élite dell’esercito messicano, il Gafe, Grupo Aeromóvil de Fuerzas Especiales. Ironia della sorte, il Gafe aveva proprio il compito di appoggiare la lotta al narcotraffico. Gli uomini del Gafe sono tipi tosti: sono stati plasmati sul modello delle forze armate statunitensi e addestrati da specialisti in tattiche sovversive di Israele e Francia e dai temibili Kaibiles guatemaltechi. La più grande potenza antinarcos quindi decide di passare dall’altra parte e diventare narcos. Conviene di più e concede più potere. Tra questi Rambo messicani c’è il tenente Arturo Guzmán Decena, che con altri trenta disertori, si iscrive al libro paga di Osiel. Nasce così l’esercito privato del Cartello del Golfo e viene battezzato Los Zetas, perché Z era il codice usato dai soldati del Gafe per comunicare tra di loro via radio o forse secondo alcuni perché è semplicemente la lettera più famosa della storia messicana, la Z di zorro.


Ma non basta “l’esercito del narco” a salvare Osiel dalla sua fine: il 14 marzo 2003 viene arrestato dall’esercito messicano nella sua roccaforte e rinchiuso in un carcere di massima sicurezza. Los Zetas sentono il vuoto di potere all’interno del Golfo e cominciano a esibire velleità di emancipazione sempre più evidenti, fino ad arrivare al distacco inevitabile e definitivo nel febbraio 2010, quando si schierano contro i loro precedenti capi, al fianco dei loro antichi rivali.


Los Zetas incorporano gli aspetti più spietati delle organizzazioni criminali: hanno preso il peggio dei paramilitari, il peggio della mafia, il peggio del narcotraffico. Dal punto di vista militare è difficile competere con loro: usano giubbotti antiproiettile, alcuni indossano caschi in kevlar e il loro arsenale comprende fucili d’assalto AR-15 e migliaia di cuernos de chivo (corni di capra, come vengono chiamati gli AK-47 in Messico), pistole mitragliatrici MP5, lanciagranate, granate a frammentazione come quelle utilizzate nella guerra del Vietnam, missili terra-aria, maschere antigas, apparecchi per la visione notturna, dinamite ed elicotteri. Quando conducono le operazioni, si vestono con abiti scuri, si tingono il volto di nero, guidano Suv rubati e spesso indossano le uniformi della Polizia federale o dell’Agenzia federale investigativa.


Il livello di professionalità degli Zetas è altissimo, così come le loro abilità tecnologiche: usano moderni sistemi per le intercettazioni, segnali radio criptati, preferiscono Skype ai normali telefoni. Al loro interno vige un’organizzazione gerarchica molto rigida. Ogni piazza ha il proprio capopiazza e il proprio contabile, il quale gestisce le finanze della cellula criminale, che oltre alla droga sfrutta diverse nicchie dell’economia criminale: furti, estorsioni, sequestri. Secondo fonti messicane e statunitensi, al loro interno esiste una precisa divisione di ruoli: ci sono las Ventanas, le Finestre, ragazzini con il compito di lanciare l’allarme quando individuano poliziotti che ficcano il naso nelle zone dello spaccio; los Halcones, i Falchi, che si occupano delle aree di distribuzione; los Leopardos, i Leopardi, prostitute addestrate per estorcere preziose informazioni ai clienti; los Mañosos, i Furbi, addetti all’armamento; e poi c’è la Dirección, cioè il Comando, la mente del gruppo. Un’organizzazione piramidale ed efficiente che non ha nulla da invidiare a quella delle mafie italiane, ma che in più si unisce a una struttura orizzontale, perché gli Zetas, a differenza degli altri cartelli, si presentano come cellule sparse per il Paese, e ogni cellula ripropone lo stesso Dna, la suddetta struttura.


Il centro del loro potere economico risiede nella città di confine di Nuevo Laredo, nello stato di Tamaulipas, ma ormai, con le loro cellule, sono sparsi per tutto il Paese, sulla costa del Pacifico, negli stati di Oaxaca, Guerrero e Michoacán, a Città del Messico, lungo la costa del Golfo, negli stati di Chiapas, Yucatan, Quintana Roo e Tabasco. A Nuevo Laredo hanno il controllo totale del territorio, con sentinelle e posti di blocco in aeroporti, stazioni degli autobus e strade principali. La loro è una dittatura criminale le cui leggi sono le estorsioni, i decreti sono i sequestri e le torture, e la Costituzione è composta da decapitazioni e smembramenti. Spesso politici e poliziotti diventano gli obiettivi dei killer del cartello allo scopo di intimorire il governo e dissuadere i cittadini dall’assumere cariche istituzionali. E chi non rispetta le loro leggi viene eliminato.


Il 29 luglio del 2009 alle cinque del mattino due macchine si fermano davanti alla casa del vicecomandante della Polizia intermunicipale di Veracruz-Boca del Río, Jesús Antonio Romero Vázquez: una decina di uomini appartenenti agli Zetas, armati con fucili d’assalto con lanciagranate da 40 mm, fa irruzione in casa. Impiegano meno di cinque minuti per uccidere Romero Vázquez, sua moglie (anche lei ufficiale di polizia) e il figlio di sette anni. Poi danno fuoco alla casa, uccidendo le altre tre figlie. La più grande aveva quindici anni. Gli Zetas, secondo l’inchiesta dell’antimafia italiana, sono in relazione con i nostri boss, le famiglie Coluccio e Aquino di stanza a New York e gli Schirippa in Calabria sono stati i loro primi interlocutori italiani. Oltre a fare affari con loro, delle mafie italiane gli Zetas apprendono la struttura interna, il comportamento dei capi, i metodi d’investimento, i livelli di responsabilità, le regole d’omertà. Senza il know-how di casa nostra sarebbero rimasti solo gangster. Gli Zetas appartengono alla nuova generazione dei cartelli messicani che hanno fatto saltare il vecchio codice di “rispetto” tra i vari cartelli, quello per cui il nemico andava combattuto ma con uso di limiti che mettevano regole ai conflitti. La violenza invece non solo viene usata senza riguardo, ma viene anche ostentata, utilizzata come il migliore dei biglietti da visita.


Quando gli Zetas uccidono sono sadici: picchiano con bastoni o pagaie che hanno la lettera Z a rilievo, in modo da lasciare la loro firma sui cadaveri; decapitano le vittime con la sega elettrica — loro marchio caratteristico — per poi esibire la loro testa e diffondere il terrore. Non c’è limite alla brutalità: a volte i genitali delle vittime vengono tagliati e infilati in bocca, i cadaveri senza testa vengono appesi ai ponti e addirittura una volta la faccia di un uomo fu staccata e cucita sopra un pallone da calcio. Lo smembramento dei cadaveri diventa la sintassi degli Zetas. Fanno sparire i corpi all’interno di tombe già occupate, oppure si sbarazzano dei corpi seppellendoli nei cimiteri clandestini costruiti nelle loro roccaforti o abbandonandoli in fosse comuni. Spesso interrano le loro vittime ancora vive. Oppure le sciolgono nell’acido.


Cadaveri ciondolano appesi ai ponti delle città davanti agli occhi dei bambini, in pieno giorno, corpi decapitati e fatti a pezzi vengono trovati vicino ai cassonetti o abbandonati lungo le strade, spesso lasciati con i pantaloni abbassati per un’ultima umiliazione, narcofosse vengono scoperte nelle campagne con decine di cadaveri ammassati uno sopra l’altro. Le città sono diventate scenari di guerra e in tutto il Messico il codice di condotta della gente è solo uno: la violenza. Ma quella degli Zetas è anche una violenza 2.0. Basta digitare su Youtube “Los Zetas Execution” e comparirà una lista di video postati direttamente dai membri del gruppo. Decapitazioni, soffocamenti, scuoiamenti sono il loro ufficio marketing. Più questi video sono cliccati e diffusi più aumenta il loro prestigio criminale nel mondo. Youtube è il loro vero ufficio stampa. Nell’ultimo periodo gli omicidi più importanti vengono fatti intorno alle 19 per poter finire nei telegiornali messicani ma anche californiani alle 20 e 30, i più seguiti. Il rischio è che un omicidio fatto di mattina o di pomeriggio perda l’apertura del telegiornale la sera perché sopraggiungono altre notizie. La Rete è la cassa di risonanza preferita, ma Los Zetas non disdegnano i vecchi metodi, come gli striscioni — i cosiddetti narcostriscioni — che appendono ai ponti dei paesi e nelle città messicane per intimidire i nemici, trattare con il governo e reclutare nuovi uomini, possibilmente già addestrati: «Il gruppo operativo Los Zetas vuole te, soldato o ex soldato. Ti offriamo un buon salario, cibo e protezione per la tua famiglia. Non soffrire più gli abusi e non soffrire più la fame».


Ma oltre a soldati

esperti, cercano anche ragazzini da plasmare: vengono chiamati Los Niños Zetas, ricevono 500 dollari a settimana per i lavoretti di poco conto, qualche migliaio in più di bonus per uccidere e sgozzare. Rosalío Reta è stato un loro allievo fin dall’età di 13 anni: dopo quattro anni e una ventina di omicidi venne arrestato e senza alcun segno di paura o pentimento disse «Mi è piaciuto farlo, uccidere quella persona. Mi sentivo Superman».

ROBERTO SAVIANO

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