Tarantola ballerina
Tante donne, la
cui vita di fatica, segregazione e avvilimento trovava una via d’uscita in un
morso doloroso di Tarantola, ma salvifico, inquietante, compensativo di tante
dolorose microfratture. Quel morso che sospendeva la quotidianità, il tedio, lo
sconforto, che significava una fuga in un “non luogo”, di trans, ecstasy,
estraniazione.
Filippo D’Arpa nel 2001 scrive Tarantola
ballerina,
un giallo storico ambientato nella Sicilia del Settecento e incentrato sul
personaggio di Giovanni Della Valle, capitano di polizia nobile ma illuminista
Le tarantole ballerine un tempo furono persone che rifiutarono il segno
di omaggio a Gesù Cristo mentre, il giorno del Corpus Domini, passava la
processione del sacramento. Trasformate in arge, vollero vendicarsi rendendo
mortale il loro morso, ma Gesù Cristo mitigò le conseguenze di questa
ritorsione: la loro puntura non avrebbe provocato la morte, ma il ballo e tre
giorni di festa.
Le arge hanno un sesso, che è sempre femminile, hanno uno stato civile,
una condizione sociale precisa e un paese di provenienza. Chi è posseduto balla
e personifica ritualmente la sua argia particolare, con la sua particolare
vicenda. (tradizione sarda)
TARANTA,
ovvero di quell’animale simbolico e mitologico che con il suo pungiglione
(oistròs greco) inietta un veleno.
Le prime
testimonianze documentate e immagini del tarantismo pugliese risalgono al
Medioevo; fra il ’600- 700 alcuni medici di scuola napoletana (cit. Baglivi,
Serao, Epifanio Ferdinando), si interessarono alla sintomatologia del
tarantismo, definendola come uno stato tossico derivante dalla puntura di un
insetto o dal morso di un ragno o di un serpente, oppure considerandola come
una forma di disordine psichico, dunque come malattia.
Solo nel 1959 lo studioso napoletano Ernesto De Martino, con un’equipe costituita da uno psichiatra, uno psicologo, un antropologo, un etnomusicologo, ed un assistente sociale, condurrà un’indagine sul campo intervistando diciannove tarantolati e giungendo alla conclusione che il tarantismo sia da definirsi come “simbolo mitico-rituale in cui confluiscono alcuni conflitti latenti dell’inconscio”.
Solo nel 1959 lo studioso napoletano Ernesto De Martino, con un’equipe costituita da uno psichiatra, uno psicologo, un antropologo, un etnomusicologo, ed un assistente sociale, condurrà un’indagine sul campo intervistando diciannove tarantolati e giungendo alla conclusione che il tarantismo sia da definirsi come “simbolo mitico-rituale in cui confluiscono alcuni conflitti latenti dell’inconscio”.
La musica
e la danza mettono in atto nei soggetti tarantati o tarantolati (non e’ un caso
che si tratti soprattutto di donne), un meccanismo di catarsi, di liberazione,
di rinascita. Inizialmente la terapia musicale viene svolta a domicilio da una
piccola orchestra costituita da un violino, un tamburello, una chitarra. La
rilevanza sociale di questi eventi e’ enorme.
I familiari delle “tarantolate” subiscono spesso con grande apprensione o vergogna queste manifestazioni. L’intera comunità ne diviene partecipe, contribuendo anche con offerte in denaro, indispensabili per il pagamento dei musicisti che “scazzichino” (stuzzichino) la taranta.
Solo in un secondo momento la Chiesa, volendo controllare questo tipo di processo, che poteva assumere, in alcuni frangenti, una dimensione eccessivamente violenta o volgare, cercherà di ricondurre tali usanze pagane e popolari sotto I’egidia di San Paolo.
Narra la legenda che il Santo, già scampato miracolosamente al morso di un serpente velenoso a Malta, giunto via mare nel Salento, ottenne ospitalità solo da un popolano di Galatina e, per ringraziarlo della sua generosità, gli trasmise la capacità di guarire la gente dai morsi di rettili o insetti. Alla sua morte tali proprietà taumaturgiche confluirono nell’acqua del pozzo della sua casa. Sappiamo da fonti certe, che su questa abitazione nel 1752 venne costruita dal Signore del posto, Don Nicola Vignola, una Cappella che fu consacrata nel 1793.
I familiari delle “tarantolate” subiscono spesso con grande apprensione o vergogna queste manifestazioni. L’intera comunità ne diviene partecipe, contribuendo anche con offerte in denaro, indispensabili per il pagamento dei musicisti che “scazzichino” (stuzzichino) la taranta.
Solo in un secondo momento la Chiesa, volendo controllare questo tipo di processo, che poteva assumere, in alcuni frangenti, una dimensione eccessivamente violenta o volgare, cercherà di ricondurre tali usanze pagane e popolari sotto I’egidia di San Paolo.
Narra la legenda che il Santo, già scampato miracolosamente al morso di un serpente velenoso a Malta, giunto via mare nel Salento, ottenne ospitalità solo da un popolano di Galatina e, per ringraziarlo della sua generosità, gli trasmise la capacità di guarire la gente dai morsi di rettili o insetti. Alla sua morte tali proprietà taumaturgiche confluirono nell’acqua del pozzo della sua casa. Sappiamo da fonti certe, che su questa abitazione nel 1752 venne costruita dal Signore del posto, Don Nicola Vignola, una Cappella che fu consacrata nel 1793.
In questo
modo le “tarantolate” per realizzare il rito dovevano recarsi ogni anno a
Galatina in occasione della festa-processione del 29 Giugno in onore di San
Paolo e le offerte venivano consegnate alla Chiesa, richiedendo “la grazia”,
ovvero la guarigione ad opera del Santo.
Da questo momento in poi le “tarantolate” cominciarono ad essere appellate con il nome di “spose di San Paolo” e, in un certo senso, furono legittimate, in comportamenti ed esternazioni, dalla presenza e dalla protezione del Santo stesso.
Da questo momento in poi le “tarantolate” cominciarono ad essere appellate con il nome di “spose di San Paolo” e, in un certo senso, furono legittimate, in comportamenti ed esternazioni, dalla presenza e dalla protezione del Santo stesso.
Poiché non
sempre era sufficiente realizzare il rito coreutico-musicale una sola volta, le
“tarantate” erano costrette a ripetere periodicamente tale processo, e spesso
tale periodicità era legata alla data della festa di San Paolo, che coincideva
con I’epoca del raccolto estivo, in cui era presumibile che le donne fossero
maggiormente esposte ai morsi del “ragno”.
Talvolta
il rito veniva ripetuto più volte durante lo stesso anno.
I ritmi musicali erano veloci e le danze nervose, sgraziate, frenetiche; il giudice De Simone in un trattato del 1876 descrive addirittura 12 “muedi”, ovvero ritmi, diversi a seconda delle differenti tarante (ballerine, canterine, tristi, mute…).
I ritmi musicali erano veloci e le danze nervose, sgraziate, frenetiche; il giudice De Simone in un trattato del 1876 descrive addirittura 12 “muedi”, ovvero ritmi, diversi a seconda delle differenti tarante (ballerine, canterine, tristi, mute…).
A mi t’ha muzzicatu a bella la tarantola
E t’ha muzzicatu li pedi
Pedi cu pedi mo’ si ni veni
Mo’ si ni veni
Mo si ni va’
Chista è la tarantola
A mi t’ha muzzicatu o bella la tarantola
E m’ha muzzicatu la coscia
Coscia cu coscia mo mi si ‘ncoscia
Gamba cu gamba mi mi si n’ciamma
Pedi cu pedi mo si ni veni
Mo si ni veni mo si ni va
Chista è la tarantola
A mi t’ha muzzicatu a bella tarantola
E m’ha muzzicatu la panza
Panza cu panza mo mi s’avanza
Coscia cu coscia
Gamba cu gamba
Pedi cu pedi
Mo si ni veni
Mo si ni veni mo si ni va
Chista è la tarantola
A mi t’ha muzzicatu a bella tarantola
E m’ha muzzicatu lu pettu
E t’ha muzzicatu li pedi
Pedi cu pedi mo’ si ni veni
Mo’ si ni veni
Mo si ni va’
Chista è la tarantola
A mi t’ha muzzicatu o bella la tarantola
E m’ha muzzicatu la coscia
Coscia cu coscia mo mi si ‘ncoscia
Gamba cu gamba mi mi si n’ciamma
Pedi cu pedi mo si ni veni
Mo si ni veni mo si ni va
Chista è la tarantola
A mi t’ha muzzicatu a bella tarantola
E m’ha muzzicatu la panza
Panza cu panza mo mi s’avanza
Coscia cu coscia
Gamba cu gamba
Pedi cu pedi
Mo si ni veni
Mo si ni veni mo si ni va
Chista è la tarantola
A mi t’ha muzzicatu a bella tarantola
E m’ha muzzicatu lu pettu
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