Contro la retorica della
comunicazione
Nel nostro percorso sulla Retorica siamo passati, per dirla secondo la classificazione fatta da Roland Barth, dal "bello scrivere" alla " scienza del ragionamento". Seguendo questo filo, continuiamo il nostro viaggio nella galassia “Retorica”
con questo saggio del filosofo sociologo Michele Loporcaro, lo facciamo per
dare conto di come da Aristotele ad oggi il pensiero si sia evoluto al punto da diventare scienza che
valuta l'etica e i guasti della retorica. Retorica che è comunicazione, informazione,
trasmissione, divulgazione … manipolazione. Questo
saggio corrisponde, con alcune aggiunte e adattamenti, all’intervento alla
tavola rotonda su I volti di Babele. Qualità ed etica della comunicazione,
Pisa, Scuola Normale Superiore (“Dialoghi della Normale”), 18 giugno 2004 del professore Michele Loporcaro.
Ugo
Arioti
Michele Loporcaro
le parole sono importanti
Le parole, a volte, hanno vicende strane.
L’aggettivo ermetico, nella sua accezione traslata, è spiegato sul vocabolario
come ‘enigmatico, incomprensibile’. Originariamente valeva ‘formulato con
linguaggio comprensibile solo agli iniziati’: agli iniziati del culto di Ermete
Trismegisto (Hermes tre volte grandissimo), la divinità che nella tarda cultura
ellenistica i Greci identificarono con l’egizio Thot, dio della scrittura. Le
scritture connesse a questi culti, proverbialmente, dovevano servire a
comunicare per pochi. Qualche tempo fa però lo psico-sociologo statunitense
James Hillman ha lanciato un nuovo significato di ermetico. Entro un discorso
di matrice junghiana, egli parla della nostra come di un’età ermetica,
caratterizzata da un “inquinamento ermetico”. Hermes, il Mercurio dei Romani, è
anche il messaggero degli dèi, il loro ufficiale comunicatore: è questa la
motivazione della nuova accezione del termine ermetico che, all’opposto di
quella tradizionale, vale ‘che comunica’, anziché ‘che non comunica’. Hillman
non è certo il solo ad aver sostenuto che viviamo in tempi di ipertrofia della
comunicazione (l’inquinamento ermetico, nei suoi termini). Anzi, sottolineare
la sovrabbondanza dei flussi di comunicazione è ormai dire una banalità. Si
registrano anche delle reazioni, più o meno pittoresche. Ultimamente, ad
esempio, si è diffusa anche in Italia, irradiata dagli USA, la moda dei quiet
parties: si va in un locale, si paga e ... si sta zitti. Su di un piano più
serio, un’altra reazione a questo straripamento della comunicazione è
costituita dal saggio recente di Mario Perniola Contro la comunicazione. La
comunicazione massmediatica - questa la tesi di fondo - è assurta a chiave di
volta della società contemporanea, almeno in alcuni suoi aspetti centrali, non
ultimo l’agire politico. I black block che distruggono oggetti simbolici
scegliendo per agire la cornice di eventi pubblici con copertura dei media,
così come il capo di partito e di governo che dice e si disdice, afferma e
smentisce, insulta e blandisce giorno per giorno pur di esser presente
costantemente al tg, costituiscono sintomi di questa elevazione dell’atto (e
del flusso) comunicativo a valore in sé, indipendentemente da ogni contenuto.1
Nelle pagine che seguono non tratterò però dello straripamento dei flussi di
comunicazione bensì dello straripamento oggi in atto del termine stesso di
comunicazione, termine che è oggi sovraccarico e si usa, nel discorso pubblico,
come parte di una strategia e di un’ideologia ben precise. Analizzerò questo
straripamento su due fronti, entrambi strategici per una società democratica:
quello dell’informazione (in particolare dell’informazione televisiva) e quello
della formazione (scolastica e universitaria).
2. Comunicazione al posto dell’informazione
La retorica oggi dominante impone il termine di
comunicazione come cifra di molti ambiti della vita pubblica, primo fra tutti
quello dell’informazione. Vediamo anzitutto qual è l’ideologia che soggiace a
quest’espansione e poi quali conseguenze pratiche essa comporti.
2.1. L’ideologia Prendiamo per cominciare una
dichiarazione ricorrente dell’attuale Presidente del Consiglio, proposta ad
esempio nella conferenza stampa di fine anno trasmessa in diretta su Rai 1 il
20 dicembre 2003 ma spesso ripetuta prima e dopo. Il governo - questa la tesi -
ha lavorato bene ma gli italiani glielo riconoscono troppo poco: “Ma è
difficile portare la croce e cantare insieme. Ecco, noi probabilmente non
abbiamo fatto comunicazione abbastanza bene.” Qui comunicazione sta in uno dei
significati che i dizionari correnti dell’italiano ancora non registrano, ma
che è sempre più presente nel discorso pubblico. La comunicazione al pubblico
da parte di un’azienda, insegnano i manuali di marketing, si articola in
pubblicità e promozione. Dunque, sovrapponendo il linguaggio dell’azienda a
quello delle istituzioni politiche, l’idea di comunicazione
pubblicitaria/promozionale è veicolata, tout court, dal termine comunicazione.
Il governo non ha fatto abbastanza pubblicità/promozione.2 Poiché però qui
parliamo di politica, e dunque di “pubblicità/promozione” per un obiettivo
politico, il mantenimento del consenso al potere costituito, da “comunicazione”
passando per “pubblicità/promozione” si arriva a “propaganda”. Questi sono
dunque, alla fin fine, i termini estremi dell’equazione instaurata da quest’uso
terminologico: comunicazione = propaganda. Quest’uso del termine comunicazione
da parte del detentore del potere esecutivo poggia su di una concezione
politica alternativa a quella della moderna democrazia che, come si sa, ha
origine coll’Illuminismo. C’è la distinzione dei tre poteri esecutivo,
legislativo e giudiziario (nello Spirito delle leggi di Montesquieu, 1748), ai
quali si aggiunge il quarto potere, il potere dell’informazione. Anche il
giornalismo moderno nasce con l’Illuminismo, con il cristallizzarsi di quella
che Habermas ha chiamato la sfera pubblica borghese.3 Nella sfera pubblica,
l’informazione giornalistica riferisce sugli eventi - in particolare gli eventi
politici - e aiuta con ciò la formazione di una pubblica opinione. In questo
modello ideale, dunque, così dovrebbero funzionare le cose: chi governa governa
e chi fa informazione (ed è detentore del quarto potere) informa l’opinione
pubblica che poi a sua volta, in base a questa informazione, decide se votare
per quel governo. Ma dietro l’uso di comunicazione da parte dell’attuale
Presidente del Consiglio, abbiamo detto, c’è un’altra visione: è il governo che
detiene il potere di far sapere ai cittadini che cosa ha fatto e come. Esso
esercita questo potere attraverso una comunicazione pubblica che può essere
spacciata (e viene in effetti spacciata) per informazione ma che non risponde
alla definizione di informazione che si è appena ricordata, di matrice
illuministica. Non c’è spazio, in questa visione alternativa, per un’istanza
indipendente, un quarto potere dell’informazione: c’è la comunicazione del
governo, cioè la propaganda. Ogni informazione di altro segno è mal tollerata,
com’è in generale mal tollerato ogni elemento funzionale all’equilibrio dei
poteri. Infatti, nella stessa conferenza stampa ora citata, oltre a varie
osservazioni poco lusinghiere all’indirizzo dei poteri giudiziario e
legislativo (si sa quel che Berlusconi ripete periodicamente della
magistratura, mentre i lavori parlamentari sono dipinti come una perdita di
tempo incompatibile con l’efficienza dell’”azienda Italia”), il premier
apostrofa la giornalista di un quotidiano d’opposizione dicendole che “dovrebbe
vergognarsi di scrivere per il giornale per cui scrive”. Quello stesso
quotidiano, in quei mesi, denunciava un tentativo di strangolamento finanziario
ad opera della maggior concessionaria italiana di pubblicità, parte dell’impero
finanziario dell’imprenditore-premier. Ma sempre nella stessa conferenza
stampa, il Presidente del Consiglio dava, di questa e altre crisi finanziarie
degli organi d’informazione, una lettura diversa. I giornali in Italia sono in
crisi perché “si sono allontanati da quello che pensa la maggioranza degli
italiani. Allora, poi non si lamentino se perdono quote di mercato. È la
conseguenza di scelte editoriali sbagliate”. Il problema dell’informazione in
Italia, dunque, è che il paese ha, secondo il Presidente del Consiglio,
titolare di un impero radicato nel settore, dei “giornali elitari” (quelli che
lui non possiede), mentre “bisognerebbe far giornali diversi, che possano
rappresentare la maggioranza”. S’intende, la maggioranza che, orientata dai
mezzi d’informazione non elitari (quelli da lui controllati), sostiene l’esecutivo
in carica. Ecco dunque che cosa dev’essere in quest’ottica l’organo
d’informazione: “Dev’essere un pianoforte sul quale il Governo possa suonare”.
Sono parole tratte da un articolo apparso sulla Rhein-Mainische Volkszeitung il
16 marzo 1933, dieci giorni dopo le elezioni che dànno ad Adolf Hitler la
maggioranza parlamentare.4 Quella svolta comportò, com’è noto, molte “riforme
istituzionali” (il che fra parentesi dovrebbe suggerire che il “riformismo”, di
per sé, non è un valore indipendentemente dai contenuti: bisogna vedere quali
riforme). Ad esempio, fu istituito il “Ministero del Reich per l’illuminazione
del popolo e la propaganda” del quale, con legge dell’ottobre 1933
(Schriftleitergesetz), tutti i giornalisti del paese diventano dipendenti,
sottoposti al potere disciplinare del ministro, il Dottor Paul Joseph Goebbels.
Questa, dunque, è l’ottica del potere, che traspare dietro l’uso del termine
comunicazione da cui siamo partiti, oggi corrente nel discorso pubblico in
Italia. Si delinea con tutta evidenza un totalitarismo, nelle forme aggiornate
della società dello spettacolo. La tv vi tiene, naturalmente, un posto
centrale. È evidente, allora, che gli operatori del settore, nel servizio
pubblico, se vogliono sopravvivere debbono adeguarsi, nell’ideologia e nella
prassi. Vediamo dapprima l’ideologia (della
“comunicazione/propaganda/pianoforte”), con l’aiuto di un altro esempio. Il 23
marzo 2004 un alto funzionario RAI tiene in un’università italiana una
conferenza su Comunicare il territorio.5 Vi si magnifica la tv e il tg: il
variopinto tg di oggi è meglio del grigio notiziario di ieri. L’informazione
televisiva ha profittato, insomma, di una sorta di evoluzione della specie. Non
manca, nella conferenza, la risposta alla obiezione ricorrente sul potere
manipolativo della tv, risposta così concepita. Contrariamente a quel che si
crede, non è vero che la tv disponga di un “potere informativo assoluto”. Come
prova è addotto l’esito delle elezioni spagnole del marzo 2004: dopo gli
attentati di Madrid, la gente non ha votato come voleva il governo perché il
governo non è riuscito a “comunicare” la sua versione. Dunque, il fatto che il
governo non sia riuscito a “comunicare” la versione a sé più favorevole è
citato come prova della non esistenza di un potere informativo assoluto della
tv. Torna anche qui l’equazione fra comunicazione (propagandistica, da parte
del potere esecutivo) e informazione che è fatta propria in generale,
nell’Italia di oggi, dal giornalismo televisivo.6 Questo, rispetto al potere
politico, è notoriamente molto meno autonomo non solo di quanto, idealmente,
vorrebbe il modello del quarto potere ma anche, più modestamente, di quanto non
accada in altri paesi.7
2.2. La prassi Quanto alla prassi degli
operatori del settore nell’Italia contemporanea, anch’essa è in linea con
l’ideologia della comunicazione come propaganda (al posto dell’informazione)
che permea in modo capillare la presentazione delle notizie nei tg italiani
contemporanei. Lo si vede analizzandone la retorica, come ho fatto in un libro
recente.8 Primo fatto da notare è che ci sono tendenze condivise
internazionalmente: tutti i notiziari televisivi del mondo - nota la
bibliografia massmediologica - tendono alla drammatizzazione (o
teatralizzazione), alla emozionalizzazione (o patetizzazione) ed alla
“fictionalizzazione” (o “finzionalizzazione”). Perché questo accada è presto
spiegato: per la natura stessa del mezzo. La tv, incentrata sull’immagine in
movimento, richiede uno spettatore. Dunque, le sue potenzialità sono in primo luogo
potenzialità di spettacolo. Si determina dunque un piano inclinato verso la
spettacolarizzazione, del quale fornisce un’analisi tristemente inconfutabile,
nel suo Divertirsi da morire, Neil Postman.9 Ma in questo panorama condiviso
internazionalmente, il tg italiano si distingue. Cominciando da due
osservazioni banalissime, in nessun altro paese come in Italia occupano tanto
spazio, nel tg, le interviste ai parenti delle vittime di eventi luttuosi e le
dichiarazioni degli uomini politici, specie di governo, in cui questi - senza
contraddittorio - sviluppano loro argomenti. Entrambi questi espedienti vanno
in direzione della teatralizzazione, tendenza che si riscontra dovunque. Ma se
in Italia ciò accade in misura maggiore è anche perché ci sono delle caratteristiche
strutturali della retorica del nostro tg, specifiche dell’Italia che spingono
in questa direzione.10 Una caratteristica centrale è la frequenza - direi
ossessiva - con cui la voce del cronista assume nel proprio testo - non
riportando come citazione esplicita - le parole dei personaggi di cui
riferisce. Facciamo qualche esempio: Tg 1 h.20, 13.1.2002. Il Papa, battezzando
venti bimbi nella Cappella Sistina, commenta bonariamente il pianto dei
neonati. Il servizio prosegue: “Qualche piantolino anche fra fratellini e
sorelline più grandicelli”. Quattro sostantivi, quattro diminutivi. Perché? La
mamma usa, coi bimbi, quello che i linguisti chiamano baby talk (“su, da’ la
manina a mammina”). Così il vaticanista, per parlare dei bimbi, assume le parole
(al diminutivo) che la mamma direbbe nella vita d’ogni giorno. Altro esempio:
Tg 1 h.20, 8.6.2003. Servizio al tg domenicale su incidenti mortali al ritorno
dalla discoteca: “Era poco prima di mezzanotte. La serata del sabato ancora
lunga per divertirsi”. Non si tratta, ovviamente, di una considerazione
oggettiva: è dal punto di vista delle vittime che la serata del sabato doveva
essere “ancora lunga per divertirsi”. Questo tipo di effetti testuali è di
solito rubricato alla voce “vivacizzazione stilistica”: è il nuovo tg, dice il
dirigente RAI, non più il vecchio, grigio notiziario. Ma in realtà questo stile
di presentazione delle notizie ha implicazioni ben più profonde. La ripresa
delle parole dei personaggi crea un effetto che in narratologia si chiama di
“discorso indiretto libero”. Come nei Malavoglia del Verga, il narratore prende
le parole dei personaggi della comunità: si nasconde così la voce del
narratore, che si dissolve in quella dei personaggi assumendone il punto di
vista. Il discorso indiretto libero, si dice tecnicamente in linguistica, crea
una ambiguità enunciativa: ossia, il lettore non sa più a chi attribuire la
responsabilità delle parole che legge, se al narratore o al personaggio. È
questa, dunque, una caratteristica saliente della voce narrante del tg
italiano: essa fa, in misura assolutamente ignota all’estero, discorso
indiretto libero. La conseguenza strutturale - che è anche una conseguenza
politica - è che al telespettatore non viene mai dato, sull’evento, un punto di
vista esterno ed autonomo, dichiarato come tale: il punto di vista
dell’operatore dell’informazione che dovrebbe garantire distanza critica e
veridicità. Si abitua, al contrario, il telespettatore ad un’informazione il
cui punto di vista sembra disciogliersi nell’oggetto della notizia,
un’informazione che prende il punto di vista di chiunque. Può trattarsi delle
mamme, delle vittime dell’incidente stradale ma anche di categorie meno
innocue: Tg 1 h.13.30, 27.2.1995. “Uccisi due coniugi a Corleone. Forse avevano
visto qualcosa che non dovevano vedere”. Anziché dire “forse testimoni di un
delitto”, il cronista preferisce “colorire” il pezzo: per farlo utilizza però
parole che sono del codice mafioso. Riferendo della mafia, il tg italiano lo fa
sistematicamente: ed ecco che spuntano nei servizi il pizzo, i pandamenti, gli
uomini di rispetto e altri termini tecnici dell’organizzazione mafiosa. In
questo modo, la voce del tg italiano segnala di non essere un’istanza autonoma.
Segnala cioè di essere costituzionalmente inadatta a svolgere la funzione di
quarto potere. E in effetti, se prende le parole di tutti, anche dei
delinquenti, tanto più il tg prenderà le parole del potente di turno Per fare
un solo esempio, così accade sistematicamente per l’autopresentazione di Silvio
Berlusconi come “amico” personale dei grandi della scena internazionale, che
non è un dato oggettivo ma è parte della strategia di “comunicazione” del
personaggio, al cui punto di vista il tg aderisce pedissequamente riprendendone
le parole: Tg 1 h.13.30, 20.7.2003: “di ritorno dal ranch dell’amico Bush, il
presidente dovrà dunque ...”. Tg 1 h.20, 30.5.2003: “nei suoi frequenti
incontri con l’amico Vladimir Putin, il Presidente del Consiglio Berlusconi
...”. Da questa voce narrante-spugna - anziché istanza indipendente - parte un
piano inclinato che passa per la diretta cessione di parola (dichiarazione in
video) e arriva fino alla sostituzione materiale del tg con la conferenza
stampa governativa. Quella del 20.12.2003, citata in apertura, si è infatti protratta
invadendo la fascia oraria del Tg 1 (h. 12.00 - 14.05), senza preavviso in
palinsesto. Se volessimo documentare come questa voce narrante-spugna si presti
alla manipolazione politica, l’attualità italiana ci offrirebbe materiale
abbondantissimo. CIterò un solo caso recente. Nel dicembre 2004 vengono emesse
le sentenze di primo grado dei due processi che, a Milano e a Palermo, vedono
imputati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri: Tg 1 h.20, 17.12.2004. Notizia
d’apertura: Dell’Utri condannato a nove anni. Intervista a Dell’Utri, che
dichiara tra l’altro: “La giustizia non è di questo mondo”. Nessuno fra i
cronisti che lo incalzi chiedendogli, ad esempio, se per caso non si crede Gesù
Cristo. Anzi, l’intervistatrice prosegue chiedendo: “Questa sentenza, quanto
potrà pesare nel suo futuro politico?”. E Dell’Utri: “Nulla”. Nessuno che
ribatta o commenti, né nel quadro dell’intervista, né in studio. Risultato: il
tg mandando, in onda simili dichiarazioni senza alcun distanziamento accredita
questo punto di vista; non importa una condanna, si può restare al potere. Si
noti che la stessa edizione del Tg 1 ha in scaletta un servizio del
corrispondente da Londra, Antonio Capràrica. In effetti, chi abbia visto
qualche tg straniero sa che quel giorno c’è una notizia importante da dare: s’è
dimesso il ministro Blunkett, accusato di aver abusato della sua posizione per
facilitare l’ottenimento del visto per la bambinaia extracomunitaria della
propria amante. Ma se di questo parlano i tg, diciamo, svizzeri, il nostro si
distingue. Inizia il servizio di Capràrica, che parla di tutt’altro. Non del
ministro dimissionario bensì di un... raduno di Babbi Natale in Galles,
degenerato in maxirissa. E termina il servizio indossando barba finta e
berretto rosso. Cioè facendo, absit iniuria verbo, il buffone: il buffone di
corte. Meglio fare del varietà, perché il varietà aiuta a sostituire - in
questo caso e in generale - una notizia che è meglio non dare agli italiani.
Che un ministro si dimetta per l’accusa di abuso di ufficio in una questione di
poca importanza (è il principio che conta) è una notizia che è meglio non
diffondere nello stesso tg in cui si riportano senza distanziarsene le
dichiarazioni ora citate del parlamentare appena condannato per connivenza
colla mafia, e pochi giorni dopo che i giudici hanno riconosciuto che il primo
ministro in carica ha corrotto il magistrato romano Renato Squillante
facendogli versare dal suo avvocato Cesare Previti, nel marzo 1991, 434.404
dollari. Il reato è prescritto: solo per questo Berlusconi non viene
condannato. Ma il Tg 1 delle h.20, il 10.12.2004, dice semplicemente, come
notizia d’apertura: “Berlusconi assolto”. Dà poi la parola ai suoi avvocati,
che s’incaricano di dire che l’assoluzione è una vittoria sulla “magistratura
politicizzata”, che perseguiva - sostengono - suoi fini di parte. Anche questo
rientra, si sa, nelle strategie di comunicazione del potente impreditore
pluri-inquisito.
3. Comunicazione al posto della formazione
L’avere un’informazione televisiva che è in realtà comunicazione
propagandistica è un fatto grave, per una società democratica. E non sembra di
scorgere nell’Italia di oggi una resistenza efficace. Da dove dovrebbe venire,
questa resistenza? Da una pubblica opinione degna di questo nome: cioè, dotata di
senso critico. E come si forma e si diffonde il senso critico? Con una buona
scuola, di ogni ordine e grado. Al tema ho dedicato su Proteo un precedente
intervento.11 Qui aggiungo considerazioni di due ordini, che documentano come
l’etichetta (e la retorica) della comunicazione sia in via di straripamento,
con risultati a mio parere gravi, anche su questo fronte.
3.1. La comunicazione: i mezzi e i fini La prima
osservazione riguarda i mezzi di comunicazione. Su questi oggi, nella scuola e
nell’università, c’è una grande enfasi. Il recente testo di legge sul riordino
dei cicli scolastici (Riforma Moratti) menziona infatti, come primo contenuto
specifico della formazione nella scuola primaria, “l’alfabetizzazione
informatica”. Il che vuol dire, in concreto, far passare ore ai bambini delle
elementari davanti al video anziché davanti ai libri. Anche all’università, in
Italia e non solo, è in atto una forzata “ri-alfabetizzazione” del ceto
intellettuale. La strategia è evidente: da un lato lo si impegna sempre più con
compiti diversi dall’insegnamento e dalla ricerca (burocratizzazione);
dall’altro si mira a sottrargli progressivamente la prospettiva d’una
sussistenza assicurata, che sola ne può garantire l’indipendenza materiale e
morale (precarizzazione); infine, mentre si tagliano i bilanci bloccando le
assunzioni e riducendo i posti di ruolo, si deviano d’altra parte ingenti
risorse in direzione delle cosiddette “nuove forme di didattica”, facenti perno
sulle “nuove tecnologie”. Può così accadere, per dare un’idea, che si riunisca
un giorno d’inizio 2005 - diciamo, come nei romanzi russi, nella città di P***
- un consorzio costituito da accademici dipendenti delle università pubbliche
italiane per la confezione di corsi di studio e il conferimento di diplomi a distanza
(con didattica e verifiche esclusivamente telematiche), e che ognuno dei
collaboratori (decine) riceva per la riunione (durata due ore) un gettone di
presenza di 250 euro, quando lo stipendio iniziale di un professore associato è
intorno ai 1800 euro mensili. Ma il problema non è solo d’ordine materiale: è
d’ordine intellettuale. È che il sistema della formazione (la scuola e
l’università) tende a concentrare l’attenzione su questi mezzi a scapito di
altro: a scapito, in particolare, dei contenuti culturali che dovrebbero essere
studiati e mediati; e, più in generale, a scapito del senso critico. Che cosa
vuol dire? Ad esempio che i mezzi vengon fatti diventare, surrettiziamente e
del tutto acriticamente, fini. Capita sempre più spesso, all’università, di
sentire conferenze che si pretendono di una disciplina (nel mio caso, di
linguistica o di filologia) e che invece si limitano ad esporre il
funzionamento di una banca dati informatizzata (o, addirittura, di un progetto
di banca dati: per un curioso slittamento semantico, progetto tende ormai a
sostituire lavoro). Ora, una banca dati è una cosa bellissima e utilissima: ma
è uno strumento, è una scatola, sia pure digitale. Ebbene, abbiamo sempre più
colleghi che si autodeportano in campi di rieducazione virtuali in cui
disimparano a fare i linguisti, i filologi, disimparano la loro competenza
specifica, per dedicarsi esclusivamente a costruire scatole. E la cosa
agghiacciante è che lo fanno volentieri, remunerati dalla gratificazione
sociale ed economica (s’è detto) che questo riorientamento procura loro. Dove
hanno fallito Pol Pot e la rivoluzione culturale cinese, riesce la retorica
della comunicazione: tutti i professori, soprattutto gli umanisti, a costruire
scatole e a insegnare a costruire scatole. Ma se anche i mezzi di comunicazione
non diventassero dei fini - come invece innegabilmente oggi succede -
bisognerebbe stare attenti lo stesso. I mezzi di comunicazione non sono neutri.
Il mezzo, secondo il motto di Marshall McLuhan, è il messaggio.12 O, come
precisa Neil Postman, i mezzi di comunicazione sono metafore che organizzano il
mondo per noi e determinano i contenuti della nostra cultura, contenuti che
all’osservatore ingenuo paiono invece autonomi.13 Che vuol dire questo? Che non
possiamo illuderci di mediare/comunicare alle prossime generazioni gli stessi
contenuti culturali con mezzi di comunicazione totalmente diversi. Altro è
formare le nuove generazioni coi libri, con l’addestramento alla lettura. Altro
è metterle davanti a un video. La prima operazione è - di per sé, per il mezzo
- un addestramento alla razionalità, allo spirito critico, all’analisi.
Biologicamente, è una ginnastica delle sinapsi. La seconda operazione, con la
permanenza davanti al video programmata oggi per i bambini fin dalla seconda
elementare e fortemente incentivata, ideologicamente ed economicamente, sino
all’università, è costituzionalmente proprio l’opposto. Si dice che è
necessario, perché così la scuola rispecchia gli equilibri oggi mutati nel
mondo esterno. È un ragionamento fallace: così la scuola rinuncia a proporre un
modello suo proprio, culturalmente autonomo, e si asservisce a dinamiche
economiche esterne.
3.2. Comunicazione e
formazione: la specificità umana La seconda osservazione ci riporta
direttamente al tema iniziale dello straripamento dell’etichetta comunicazione,
straripamento che è in atto anche sul fronte della formazione e anche qui
ricopre processi non positivi. L’etichetta di comunicazione è, in quest’ambito,
il travestimento (ma il velo è sottile) della parola d’ordine
dell’economicismo: non a caso quest’etichetta è oggi pesantemente opzionata
dalla retorica aziendalista, come s’è visto al §2. La prima grande perdente è
la formazione umanistica. È qui infatti che la comunicazione si espande, fatalmente
a danno di altre etichette, in un gioco a somma zero. Mi spiego. Se si fa un
corso di laurea in “Comunicazione nella società della globalizzazione” o in
“Comunicazione pubblica, sociale e d’impresa”, questo va benissimo per degli
studi d’economia. Ma il problema è che questi corsi di laurea fioriscono in
quelle che una volta erano le Facoltà di lettere. Se oggi anziché “Storia
dell’arte” si fa in queste facoltà “Comunicazione artistica”, ci si uniforma al
seguente principio e si dà il seguente messaggio: qui non facciamo (più) cose
inutili e gratuite; qui f cose direttamente utili, perché economicamente
funzionali.14 Questo principio e questo messaggio sono problematici per il
sussistere stesso degli studi umanistici. I quali, per inciso, sono il
principale propulsore sociale di quel senso critico, di quella capacità di
analisi che nella nostra società di oggi sempre più fanno difetto, anche agli
alfabetizzati. Proprio in quanto possessori di queste doti, ieri, i laureati
(ben preparati) in lettere e filosofia si inserivano in tanti ambiti
lavorativi, anche ai livelli più alti. Ora, gli studi umanistici sono scienze
dell’uomo. Ma se occupano quel posto le cosiddette “Scienze della
comunicazione” - se occupano il posto di lettere, filosofia, storia, storia
dell’arte, linguistica ecc. - allora si ha una doppia truffa. La prima truffa è
che in questi corsi di studio - come ha scritto bene Maurizio Ferraris - non si
fanno scienze ma tecniche.15 Che ci vogliono, certo, ma sono sapere applicato:
e se tutte le risorse finiscono lì, si riduce lo spazio per i fondamenti. E si
osservi che questo sbilanciamento verso le tecniche ha una portata ben più
generale: è noto come nell’Italia di oggi anche le facoltà scientifiche
“tradizionali” (aggettivo divenuto di per sé una condanna), come fisica o
matematica, siano in gravissima crisi di reclutamento: nessuno (o quasi) vi si
iscrive più, e non c’è da stupirsi. È il frutto diretto - quanto sia avvelenato
si vedrà in poco tempo, con l’aggravarsi di un declino sociale ed economico già
pienamente in atto - della retorica economicistica alla quale s’è voluta
piegare l’università. La seconda truffa - e torniamo all’ambito umanistico - è
che le cosiddette “Scienze della comunicazione” non possono essere la cifra di
un sapere umanistico per una ragione elementare, direi definitoria: la
comunicazione non distingue l’uomo dagli animali. Anche i cercopitechi
comunicano, anche le api. Dobbiamo studiarli, questi fenomeni, certo, così come
dobbiamo studiare la comunicazione fra gli umani. Ma è assurdo - nonostante
l’entusiasmo di tanti intellettuali per il cosiddetto “inquadramento
zoosemiotico” del linguaggio e della cultura umani16 - farne la cifra del
sapere umanistico, riorientando risorse, energie, docenti e studenti verso il
calderone delle cosiddette “Scienze della comunicazione”.17 La comunicazione
non ci distingue dalle bestie. Dalle bestie ci distinguono la parola (e dunque,
disciplinarmente, la linguistica); ci distingue la riflessione attraverso la
parola (e dunque la letteratura e la filosofia); ci distingue la sedimentazione
di esperienze e riflessione in un percorso razionalmente percepito e concepito
(e dunque la storia). Insomma, dalle bestie ci distingue l’attitudine alla
riflessione gratuita su noi stessi e sul mondo, svincolata dallo scopo
immediato. È di qui che sono nate le arti e le scienze, ed ogni progresso
dell’umanità: da quell’atteggiamento che i Greci chiamavano antibanausico (dove
banausico vuol dire ‘relativo al lavoro manuale’ e, per estensione, ‘utilitaristico’).
Minare la legittimazione sociale di quest’atteggiamento, ecco quel che fa, sul
fronte della formazione, l’economicismo imperante attaccando e snaturando le
sedi che istituzionalmente dovrebbero ospitare la ricerca e la diffusione
gratuita del sapere, ovvero le sedi dell’istruzione pubblica. La retorica della
comunicazione non è che una delle manifestazioni di questo economicismo,
specialmente perniciosa in ambito umanistico. Ma il discorso, si è detto,
riguarda tutti i campi del sapere. La miopia di chi, da posizioni di potere,
reclama che tutto il sapere dev’essere, per esser legittimato, sapere applicato
risulta chiaramente da una semplice considerazione: se oggi abbiamo il computer
- diceva un mio professore (di linguistica, si badi) - è alla fin fine perché
un medico nella Bologna del Settecento si divertiva a far saltare col bisturi
delle rane morte dopo averle scuoiate. L’inutilità sociale ed economica
immediata di questa occupazione non potrebbe esser più evidente. È un buon
argomento da opporre, la prossima volta che sentite il cervello debole di turno
magnificarvi la modernità, la progressività, l’immediata utilità della
“Comunicazione”.
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