Nel raccontare e scrivere della filosofia
contemporanea e dei grandi interrogativi, non abbiamo potuto evitare “l’inciampo”,
siamo precipitati nell’ontologia Deluziana e nel post platonismo di Foucault.
Questo libro di Monia Andreani è stato lo scivolo che ci ha condotto all’etica
e alla politica tradotti dalla maieutica della riflessione e dal valore e
articolazione sinottica delle differenze.
Ugo Arioti
Monia Andreani: Il terzo
incluso. Filosofia della differenza e rovesciamento del platonismo.
È possibile emancipare la filosofia dal suo
statuto disciplinare e dalla settorializzazione dei suoi domini d’indagine, per
attingere al flusso vitale da cui si è posseduti quando si viene “chiamati”
alla riflessione? Il libro di Monia Andreani attualizza tale possibilità nel testo - ovvero nel contenuto della
tesi “forte” sostenuta dall’autrice - e attraverso il testo nel suo farsi
rappresentazione dell’esperienza di pensiero. La rappresentazione costituisce
non solo una modalità ma uno snodo concettuale che traccia lo sviluppo di tutta
l’argomentazione, conducendoci in un’immersione nella storia della metafisica.
La tesi dell’autrice è condensata nel titolo che articola un
chiasmo tra due versanti. Da una parte, viene intessuta la trama della
“filosofia della differenza” intesa come piano comune su cui si stagliano tre
personalità eminenti della filosofia francese contemporanea, ovvero Deleuze,
Derrida e Foucault. Dall’altra, “Il libro intende mostrare che Deleuze, Derrida
e Foucault non si limitano a lavorare per una fine della metafisica attraverso
il rovesciamento del platonismo, ma assumono alcuni elementi aporetici del
pensiero platonico […] e li radicalizzano in una nuova interpretazione” (p.12).
I filosofi della differenza innescano un rapporto con il testo platonico che si
emancipa dall’indagine filologica e si lancia in un corpo a corpo con
l’autorità teoretica che si trova all’origine della metafisica, scandagliandola
archeologicamente. Si profila così – riprendendo Bergson - la possibilità di
superare l’impasse della
questione sull’autenticità dell’origine e di accostarsi alle sorgenti
dell’indagine filosofica per interrogarsi non più sui Greci ma con i Greci.
I tre capitoli in cui è strutturato il testo promuovono una
maieutica della riflessione che s’incarna nel concetto di differenza e ne
dispiega la portata, giungendo a sancire l’inscindibilità di ontologia ed
etica. “È infatti il terzo, come elemento a se stante rispetto al due della
divisione, il punto centrale di articolazione del concetto di differenza. […]Il
Terzo che emerge dalla lettura rovesciamento di Platone compiuta dai filosofi
della differenza, ha una caratterizzazione espressamente ontologica, perché in
esso trova spazio il concetto di differenza come divenire della differenza, flusso
evenemenziale dell’essere […]E questo Terzo ha anche un carattere etico perché,
soprattutto con la riflessione foucaultiana, si evidenzia in esso la
possibilità di una trasformazione interiore del soggetto in relazione al
rapporto tra modi di soggettivazione operanti in una certa epoca e la
soggettività individuale” (p. 13).
Il primo capitolo entra nelle pieghe dei dialoghi platonici
attraverso la decostruzione intrapresa da Derrida, per reperire l’innescarsi
del simulacro nelle tracce testuali caratterizzate da un’ambivalenza semantica
irriducibile alla logica binaria. La torsione semantica impressa da Derrida al
concetto di differenza fa leva sull’esempio paradigmatico della scrittura come Pharmakon, attraverso cui si
gioca la strategia della decostruzione che, individuando nel simulacro
“quell’elemento che s’inserisce come terzo in una situazione equilibrata” (p.
31), “sale fino alla vetta della teoria platonica per entrare fino al cuore del
metodo dialettico e della conformazione ontologica” (p. 38). Risalendo il
sistema di opposizioni del pensiero platonico, Derrida rileva le connotazioni
di “luogo, spazio, regione/materia” assunte dalla Khora platonica, introdotta come terzo genere tra modo
delle idee e realtà sensibile. Si traccia così il renversement del platonismo che investe lo statuto
del simulacro e ne promuove l’insorgere comeévénement, su cui s’innesta l’operazione di
déplacement compiuta da
Deleuze. Quest’ultimo interviene sulla e nella dialettica platonica,
introducendo un elemento fisico che fa stagliare il concetto di differenza
dalle coordinate dello spatium “quale teatro di ogni metamorfosi o
cambiamento, di ogni divenire” (p. 97). Il discorso di Derrida e quello di
Deleuze s’intrecciano nella dinamica di una spirale che, attraverso la contiguità
terminologica dei concetti forgiati, procede ad una genealogia progressiva dei
paradigmi concettuali della filosofia. In quest’ottica emerge la potenza delle
metafore platoniche, nelle quali il mito non si riduce a semplice modalità
espositiva ma attinge alla rappresentazione dei parametri etici in base ai
quali sono riplasmate le questioni ontologiche. La Chôra ne è l’esempio paradigmatico poiché
“sfugge alla funzionalità dialettica, sfugge alla rappresentazione dialettica
familiare” costituita dal rapporto tra il padre (eidos) e il figlio
(fenomeno). Rispetto a questo rapporto duale e patrilineare l’elemento
femminile rappresentato dalla Chôra è funzionale ma estraneo a livello
teoretico (p. 99).
Nel secondo capitolo, viene messo “in risalto il tema della
differenza sviluppata come terzo elemento tra i dualismi metafisici attraverso
l’articolazione del concetto di vita”. Monia Andreani ramifica il bagaglio
concettuale del pensiero deleuziano per sottolineare, in polemica con il
“personalismo” critico di Alain Badiou, che “invece di nominare la riflessione
deleuziana ontologia vitalista, è più opportuno parlare di vitalismo
ontologico. Infatti nello spazio ontologico deleuzeano il concetto di vita
prende il posto principale”. Attraverso il concetto di vita, condensato
nell’intraducibilità dell’espressione une
vie, il pensiero critico deleuzeano sviluppato a partire dalle prospettive
di analisi sui testi platonici aperte da Nietzsche e assunte da Heidegger e
indirizzato all’oltrepassamento della metafisica, si specifica come ontologia
dell’immanenza. A tale proposito Deleuze riprende proficuamente anche il
concetto bergsoniano dell’élan vital. “Una vita è l’espressione forte
dell’immanenza, è l’immanenza stessa, che si scopre come amore per la terra,
per la superficie, per gli elementi di connessione tra dentro e fuori, per la
pelle come termine terzo, per una non separazione tra organico e inorganico,
nel piano d’immanenza. […]Non è nella suddivisione prettamente duale che si
apre tra individuale e universale che si situa questo evento terzo che è
l’avvento di una vita singolare” (p. 149). La prospettiva introdotta dal piano
d’immanenza si dipana come possibilità di pensare l’esperienza reale, evitando
l’errore kantiano di portare le condizioni dell’esperienza sensibile oltre il
condizionato. Il piano d’immanenza è l’orizzonte in cui il vissuto emerge come
una ferita attraverso cui la virtualità si attualizza nell’esperire
dell’individuo.
L’ontologia deleuzeana fa appello a Nietzsche e alla riflessione sulla coscienza impersonale inaugurata da Sartre, per fendere il centro nevralgico del pensiero metafisico costituito dallo statuto del soggetto. Attraverso la terminologia della fisica, mutuata dal pensiero di Simondon, il soggetto viene ripensato nei termini di un’eterogenesi in divenire che fa spatium all’individuo, inteso come espressione di una vitalità impersonale che s’incarna nelle pieghe dell’essere, fatte dei movimenti dispiegati dagliévénements. “Da un punto di vista teorico il dopoguerra ha segnato l’impossibilità di pensare alla vita senza misurarsi con la questione connessa alla biopolitica in quanto politica che si occupa espressamente della gestione della vita. […] L’approccio deleuzeano si situa nell’alveo del più complesso rapporto di carattere ontologico tra virtuale e attuale che inserisce la vita organica ed inorganica nel rigore del pensiero dell’essere come radicalmente immanente. La vita per Deleuze è neutra non nel senso di un’astrazione o generalizzazione, è neutra perché sta altrove rispetto alla concettualizzazione di soggetto e oggetto, ad ogni soggettivizzazione o oggettivizzazione di soggetto e oggetto, ad ogni soggettivizzazione o oggettivizzazione dell’agire rispetto ad essa” (p. 152).
L’ontologia deleuzeana fa appello a Nietzsche e alla riflessione sulla coscienza impersonale inaugurata da Sartre, per fendere il centro nevralgico del pensiero metafisico costituito dallo statuto del soggetto. Attraverso la terminologia della fisica, mutuata dal pensiero di Simondon, il soggetto viene ripensato nei termini di un’eterogenesi in divenire che fa spatium all’individuo, inteso come espressione di una vitalità impersonale che s’incarna nelle pieghe dell’essere, fatte dei movimenti dispiegati dagliévénements. “Da un punto di vista teorico il dopoguerra ha segnato l’impossibilità di pensare alla vita senza misurarsi con la questione connessa alla biopolitica in quanto politica che si occupa espressamente della gestione della vita. […] L’approccio deleuzeano si situa nell’alveo del più complesso rapporto di carattere ontologico tra virtuale e attuale che inserisce la vita organica ed inorganica nel rigore del pensiero dell’essere come radicalmente immanente. La vita per Deleuze è neutra non nel senso di un’astrazione o generalizzazione, è neutra perché sta altrove rispetto alla concettualizzazione di soggetto e oggetto, ad ogni soggettivizzazione o oggettivizzazione di soggetto e oggetto, ad ogni soggettivizzazione o oggettivizzazione dell’agire rispetto ad essa” (p. 152).
Il terzo capitolo legge nell’ontologia del vitalismo deleuzeano la
germinazione del discorso etico che si sviluppa a partire da un’etologia del
divenire animale, improntata sull’operatività del concetto – debitore
dell’esperienza di Artaud - di Corpo
senza Organi. “Lo spazio dell’etologia è quello in cui è possibile
decifrare i movimenti di velocità e di lentezza che caratterizzano le
concatenazioni dell’espressione della vita impersonale, le possibilità di vita
in gergo propriamente deleuzeano. E possibilità di vita non significa qualcosa
che si potrebbe ravvisare subito come una scelta volontaria del soggetto, un
atto da portare a termine come potrebbe essere una scelta professionale, ma
significa, uno spazio di concatenazione dell’espressione della vita
impersonale. […] L’etologia non è una morale ma è un’etica nel senso
spinoziano, etica della pura immanenza, etica delle possibilità di vita”. Monia
Andreani sviluppa la tesi secondo cui la riflessione di Deleuze fornisce i
parametri ontologici per pensare l’etologia come etica, fornendo a Foucault il
versante in cui innestare il tema dell’ontologia critica. Anche Foucault
infatti persegue l’oltrepassamento del dualismo, affidando alla critica
dell’ontologia il compito di emancipare il soggetto dall’opposizione tra
interiorizzazione e normalizzazione di sapere, potere e moralità. “L’ontologia
critica è basata sulla tematica del soggetto umano inteso in senso
antropologico piuttosto che in senso metafisico quale soggetto di verità o in
senso gnoseologico e critico”.Foucault riprende dai testi di Deleuze e Guattari
l’interesse per il legame tra la questione dell’essere e le forme di
soggettivizzazione, distinguendosi da Deleuze per la priorità riconosciuta alla
dimensione etico-politica assunta nei legami rilevati tra verità, soggetto e
potere. In particolare, negli ultimi studi - dedicati all’analisi delle
pratiche di soggettivizzazione nell’antichità - Foucault riprende dal pensiero
di Deleuze la centralità della questione del doppio implicita nel pensiero
critico, inteso come disposizione del soggetto ad interrogarsi sulle condizioni
di possibilità della soggettività stessa. “Il pensiero stesso, attaccato al
proprio impensato in modo imprescindibile, è alla stessa stregua dell’uomo, un
doppio, un raddoppiamento dicotomico, ripiegato in sé come oggetto problematico
per i pensatori coraggiosi”. La prospettiva di Foucault si specifica così nel
senso di “un’analitica della finitudine” pronta “a scovare tutte le situazioni
in cui il doppio si mostrava o veniva celato nei diversi paradigmi di verità
dei saperi disciplinari cresciuti intorno all’uomo” (p. 215).
La panoramica appena condotta sottolinea le tesi contenutistiche
sostenute dall’autrice, ma il percorso intessuto da Monia Andreani non si
limita ad articolare gli snodi concettuali che modulano i legami tra gli
autori. In controluce si disegna un ulteriore chiasmo: quello tra la trama
della filosofia come possibilità dell’esperienza di pensiero e la storia della
metafisica come istituzione e messa in crisi della dualità tra soggetto ed
oggetto del pensiero. Derrida introduce sulla soglia della scrittura come
modalità strutturale che segna la nascita disciplinare della filosofia e plasma
la norma del pensiero dialettico. La forma linguistica non è semplice
contenitore ma catalizzatore dell’interrogazione sulla materia in cui s’incarna
la prospettiva dell’ontologia.
Attraverso la riflessione derridiana si
ritaglia lo spazio incolmabile della terzietà che permette il rapporto
semiotico. In tale spazio s’inserisce il lavoro di Deleuze sulla logica degli
Stoici da cui emerge il carattere di événement proprio di un “incorporeo” che agisce
tra mondo e linguaggio. Deleuze ritrova nelle dinamiche del senso la
definizione dei parametri del pensiero. “Nel corso della tradizione metafisica
tra buon senso e senso comune vi è stato un legame molto particolare segnato
dal fatto che ciascuno dei due costituiva l’altra metà dell’ortodossia di
pensiero. […] La manifestazione della filosofia per Deleuze è il paradosso e
non il buon senso, la filosofia tenta di pensare il non pensabile creando un
paradosso che è il suo pensiero più alto” (pp. 90-91). Il pensiero diviene
messa in scena della riflessione e che ci offre la possibilità di trovare in
ogni contemporaneità lo spazio per pensare il confronto con l’autorità della
tradizione, poiché “Deleuze si pone l’obiettivo di liberare la differenza,
imbrigliata nella gogna dell’immagine metafisica, attraverso un percorso di
rovesciamento del teatro filosofico.[…] Dentro questo teatro, grande gioco di
personalità della metafisica da Platone a Kant, passando per Descartes, s’impone
la regia deleuzeana che sovverte l’immagine di pensiero, costituita attraverso
la rappresentazione concettuale classica. Mimetizzando la rappresentazione
attraverso un sovvertimento interno al processo logico della rappresentazione,
Deleuze mostra la maschera che c’è dietro ad ogni filosofo, per creare così i
suoi personaggi concettuali, per dare un sommovimento alla storia del pensiero
occidentale” (pp. 107-108).
Il renversement operato sui testi platonici, fornisce
come un crinale - immanente e non trascendente, orizzontale e non verticale –
dal quale sporgerci per vedere i “mille piani” della storia della filosofia,
aperti dal piano d’immanenza deleuzeano. Quest’ultimo non è un’ulteriore
griglia interpretativa ma piuttosto una condizione di senso che agisce come un
“taglio nel caos”. “I primi filosofi, come scrivono Deleuze e Guattari, hanno
instaurato un piano-setaccio che hanno chiamato Logos, di cui la ragione non è
che un concetto. Di piani d’immanenza ce ne sono molti e si susseguono non nel
senso di un superamento, quanto nel senso di una molteplicità di tagli
spaziali, di possibilità di creazione di concetti. […]Nell’orizzonte costituito
dal piano d’immanenza, il movimento è infinito pur non assumendo le
caratteristiche spazio-temporali. Pertanto orientarsi nel pensiero non è porre
un soggetto di fronte a un oggetto – dove soggetto e oggetto non possono essere
che concetti – non è prendere una posizione di fronte ad un pensiero, ma è
propriamente un muoversi del pensiero stesso” (pp. 124-125). Partendo da tale
riconoscimento, “Deleuze s’impegna a cercare un modo del pensiero che non sia
connesso con la rappresentazione metafisica, ma che abbia il senso forte e
pieno dell’immanenza assoluta, della virtualità, e abbia quindi la possibilità
di cogliere questi strani oggetti dell’essere che sono le singolarità
preindividuali” (p. 143). Deleuze libera le potenzialità dell’interrogazione
ontologica sottolineando che “per seguire con il pensiero il mondo delle
singolarità occorre uscire dalle strade battute ed immergersi nella vastità di
un pensiero che non ha coordinate fisse, perché ha perso i punti fermi di
soggettivo e oggettivo trasformandosi nel mondo dell’On e del "si" impersonale, un
vasto e profondo mare dalle cui profondità si può risalire solo con gli occhi
arrossati” (p. 145).
Le problematiche gnoseologiche non restano però sul piano teoretico, ma rivelano la loro incidenza propriamente etica e politica attraverso il tournant platonicien ripreso da Foucault: “La scelta che secondo Foucault rimane aperta per un’interrogazione filosofica è quella di optare per una filosofia critica che sia una filosofia analitica della verità oppure per un pensiero critico tout court che prenda la forma di un’ontologia storica di noi stessi, di un’ontologia dell’attuale. […] Foucault scrive che l’obiettivo dell’ontologia storica di noi stessi è quello di rispondere a tutte le domande relative alla costruzione del soggetto dal lato del sapere, da quello del potere e da quello della costruzione morale” (p. 219). Sostenendo che “la filosofia, a partire da Platone, è una filosofia teatrale, di proscenio, fondata sulla scelta morale di definire una verità a fondamento del reale” (p. 24), Monia Andreani innesta il secondo versante del rilievo in sottotraccia nel suo excursus argomentativo: il pensiero considerato nell’articolazione tra rappresentazione ed esperienza di pensiero. La prima opzione è quella del soggetto della metafisica, un soggetto che si sceglie come verità che garantisce la determinazione della realtà. La seconda è quella di una soggettività che vivendosi come differenza dall’opposizione duale, salvaguardi lo spazio - terzo – di un rapporto irriducibile con l’alterità.
La differenza vista come superamento della metafisica, ma anche come un reversibile e dialogato rapporto di crescita del post platonico.
RispondiElimina