giovedì 29 gennaio 2015

Fotografando i volti in bianco e nero della libertà perduta


"Encerrados" è un viaggio per immagini nelle carceri latinoamericane. Una discesa all'inferno da cui emerge l'umanità dei detenuti: anche i più pericolosi

di ROBERTO SAVIANO



Encerrados non è un libro sulle carceri; è un libro sulla libertà perduta, sulla libertà mai avuta. Se nell'immediato non riuscite a percepire la differenza, è perché magari avrete avuto una vita felice e per voi carcere e assenza di libertà sono concetti che coincidono. Eppure la differenza esiste, ed è tutt'altro che sottile.

Valerio Bispuri ha fotografato prigionieri, ha fotografato celle, ma il suo obiettivo era su altro. Era sulla mancanza di libertà che spesso precede e segue la vita di chi finisce in prigione. La mancanza di libertà, e quindi di scelta, è ciò che ha condannato le migliaia di detenuti che Bispuri ha raccolto con il suo obiettivo. Le carceri in cui è entrato in Argentina, Cile, Uruguay, Brasile, Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela sono tra le più pericolose del continente latino. Lurigancho è il carcere più grande del Sudamerica, si trova a Lima, in Perù, e qui Bispuri ha trascorso lungo tempo. Ospita diecimila detenuti, è una città nella città e in un paese che in questo momento è il primo produttore di coca entrare in questo luogo significa sbirciare nelle viscere dell'inferno. Poi è andato a Penitenciaria, a Santiago del Cile, il carcere più vecchio del continente, costruito agli inizi del Novecento. Qui ha visto e fotografato detenuti ricavare spade da tubature arrugginite in vecchi bagni. 

Poi è stato a Villa Devoto, in Argentina, una delle carceri più pericolose del Sudamerica, proprio dentro la città di Buenos Aires. Poi a Los Teques, a Caracas, in Venezuela, un carcere paradossale ma non per il Sudamerica, lì tutti i detenuti sono armati di coltelli, pistole e hanno una sorta di codice per cui quando un capo esce di prigione sparano sul muro come per festeggiare. A Bogotà, in Colombia, ha visitato Combita, il carcere dove sono rinchiusi ex guerriglieri delle Farc. 

Quelle di Bispuri sono fotografie di città, carceri formicai, carceri dove chiunque è condannato, poliziotti e detenuti. Carceri dove il detenuto sa che la differenza tra lo stare dentro e lo stare fuori è minima, sostanziale certo per fare affari, ma minima sul piano del disagio, della disperazione, finanche del diritto. Dal momento che si è armati, dal carcere in Venezuela si potrebbe forse persino scappare, ma per cosa? Per finire di nuovo dentro? O ammazzati da un rivale? Il carcere infondo dà regole e spesso sospende vendette. 

Il primo reato che riempie le carceri sudamericane è il primo reato che riempie le carceri americane, ed è il primo reato che riempie le carceri europee: la droga. In paesi in cui i cartelli criminali sono fortissimi, a testimoniare quanto la repressione e il proibizionismo non siano stati la strada giusta, quanto le politiche repressive siano state fallimentari. Poi ci sono le truffe, ma prima delle truffe omicidi, stupri, furti. Bispuri è stato anche in carceri femminili. Ha trovato e fotografato storie di donne che hanno ucciso i mariti, spesso ubriachi, per difendersi o semplicemente per stordirli, ma hanno esagerato con i colpi. Madri che hanno ucciso i propri figli. Figli drogati, figli violenti o figli innocenti e a essere ubriache e drogate erano loro. 

Eppure ciò che colpisce, in tutto questo bianco e in tutto questo nero, è forse la mancanza di disperazione finale, ciò che mi ha sempre colpito sono le percentuali di suicidi in questi inferni, percentuali bassissime se paragonate a quelle dei suicidi nelle carceri nordamericane ed europee. Nessuno si uccide in Sudamerica. E Bispuri, in fondo, è riuscito con il suo talento di fotografo a raccontare queste vite fatte di resistenza alla morte. Resistenza che spesso diventa indolenza  -  guardate i volti!  -  , questi uomini e queste donne non sembrano voler insorgere, sembrano piuttosto resistere come legni, come stalattiti. Pelle, calli, gocce di sudore e ancora gocce di sudore. 

Nel carcere di Mendoza, Valerio Bispuri chiede di poter entrare nel Padiglione 5, dove sono reclusi i detenuti argentini più pericolosi, dove nemmeno le guardie vanno più, loro si fermano e lasciano a distanza cibo, detersivi e lenzuola. Bispuri chiede di entrare: ottiene il permesso da direttore e guardie, ma gli fanno firmare un documento in cui c'è scritto che si assume tutta la responsabilità di quella decisione. Valerio entra da solo, nessuno lo accompagna. Entra e gli tremano le gambe. C'erano novanta detenuti, i più feroci di tutti ma a lui non è torto un capello. Non solo, lo accolgono commossi, gli indicano cosa fotografare e gli chiedono di documentare le terribili condizioni in cui erano costretti a scontare la loro pena, in cui erano lasciati sopravvivere. Lo accompagnano poi all'uscita e si fanno promettere che avrebbe pubblicato quelle foto. 

E Valerio Bispuri lo ha fatto, le ha esposte, e così agli occhi degli argentini, grazie a lui e ad Amnesty International, finalmente il Padiglione 5 ha smesso di essere la gabbia delle bestie feroci ed è diventato uno scempio, una vergogna, segno, testimonianza di disumanità, ma non dei detenuti, piuttosto dello Stato. Criminali responsabili di delitti violenti che vivono in un crimine che è più grande di tutti i loro messi insieme, perché è un crimine di Stato. La prigione che diventa tortura, come del resto avviene anche nella maggioranza delle carceri italiane, nel silenzio e nell'indifferenza generali. Dopo la pubblicazione di queste foto, il Padiglione 5 del carcere di Mendoza è stato chiuso. Non è stato chiuso perché ha denunciato l'abiezione di quel luogo, molti argentini volevano che quei detenuti soffrissero le peggiori pene possibili. È stato chiuso perché Bispuri ha mostrato l'orma umana in quelle persone e quando riconosci te stesso nell'altro, il peggiore altro possibile, forse riesci a capire che la sua umiliazione è la tua. Questo, e molto più, può la fotografia, arte maggiore, sguardo sul mondo.

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