Petru
Fudduni:
un poeta popolare nella Palermo del XVII secolo
un poeta popolare nella Palermo del XVII secolo
Poeta palermitano arguto e salace,
di notevole rinomanza popolare, Petru Fudduni (o Pietro Fullone che sia) visse
nel XVII secolo, svolgendo l’umile mestiere di tagliapietre (o meglio: di
intagliatore di pietre), nel quale eccelse. Fu anche, per qualche tempo,
marinaio in una nave regia. La pietra si attaglia alla fierezza del suo
temperamento ed egli stesso ne fece qua e là riferimento, peraltro
esplicitamente cantandola in una poesia che comincia «O petra disprizzata». La
perizia nel suo abituale lavoro non gli consentì una vita agiata, ma la povertà
non lese mai la sua dignità né depotenziò la sua ironia e il suo esprit
moqueur. Della sua vita si conosce poco e quel che si conosce è in parte
impreciso o incerto, tanto da prestarsi alle più svariate interpretazioni.
Resta ignota, ad esempio, la data di nascita (si suppone nel 1600 o nei
primissimi anni del secolo) e, in quanto alla famiglia di provenienza, si hanno
contrastanti notizie: forse era figlio d’ignoti o, più credibilmente, il terzo
di sette figli sopravvissuti (di una prole di nove) di un tal Alfio Fullone,
catanese, e della palermitana Ninfa Tuzzolino. Della sua morte si conosce
invece l’esatta data: il 22 marzo del 1670 e il luogo in cui fu sepolto: la
chiesa di Santa Maria dell’Itria. Se ne ignorano le fattezze. La sua esistenza
è stata attraversata (se ne trovano riscontri nelle sue opere) da due rilevanti
avvenimenti nella storia della città e dell’isola. Il primo riguarda la grave
pestilenza che insorse nel 1624, anno in cui furono rinvenute, sul Monte
Pellegrino, le ossa di una santa vergine, Rosalia, che indusse i palermitani a
considerare dovuta a sua intercessione la cessazione del morbo nel corso del
1625. Durante tale epidemia morì una sorella del poeta: Cristina. Il secondo
avvenimento riguarda la rivolta popolare palermitana del 1647, guidata da un
«Masaniello» locale: il battiloro Giuseppe D’Alesi, la cui testa finì su una
picca. Il suo cognome pare piuttosto un soprannome: «Fudduni», da “foddi”,
letteralmente «gran folle», pazza. E dato che stravagante e bizzarro fu davvero
il personaggio, se ne possono cavare alcune considerazioni: se «Fudduni» fosse
cognome, sarebbe la migliore illustrazione del nomen omen dei latini; se
fosse soprannome, non potrebbe che derivare dalla personalità del soggetto, dal
suo modus essendi, nel qual caso risulterebbe ignoto anche il vero nome,
assieme alle origini e alla data di nascita. Egli stesso si presenta così: Iu
su’ lu Petru chiamatu Fudduni; […] fudduni nun è foddi né minnali. Tali
asserzioni non sciolgono l’enigma: se da un lato egli dice di essere quel
Pietro «chiamato» Fudduni (il verbo lascerebbe pensare al nomignolo),
dall’altro soggiunge che «fudduni» non va inteso né come «folle» né come
«stupido», il che lascerebbe supporre che quello fosse realmente il suo cognome.
Altra ipotesi è che egli si chiamasse «Fullone» e che il popolino, a
principiare da lui stesso, avesse tradotto semplicemente in dialetto, secondo consuetudine.
Ma c’è chi sostiene il contrario, cioè che egli fosse stato appellato «Fullone»
quando era stato chiamato a far parte, come poeta, di alcune accademie (in
particolare quella dei Riaccesi) e che sarebbero stati gli stessi accademici a
tradurre dalla parlata siciliana quel cognome (o soprannome che fosse), quasi a
volerlo nobilitare. Prevale l’idea, tra i gli studiosi della sua biografia, che
si trattasse di un autodidatta di genio, dalla personalità complessa, che –
come ebbe a sostenere Calogero Di Mino – fosse «capitato nel labirinto di abati
di monaci e di accademici». «Poeta senza lettere ma di grande ingegno » dice Vincenzo
Auria), persona che «ruditer legeret scriberetque» (Antonio Mongitore). I suoi
testi, in gran parte tramandati da altri, appaiono intrisi di uno strano
misticismo e spaziano in diversi campi dello scibile umano, tanto da rendere condivisibile
l’ipotesi avanzata a circa la metà del sec. XIX da Carmelo Piola, il quale,
sulla base dei testi e del loro sterminato numero, non esitò ad affermare che
il Fudduni non solo non fosse privo «di rudimenti grammaticali e di rettorica»,
anzi che avesse «non poco conoscenza de’ classici e delle pagine sacre».
Su di lui circola una ricca aneddotica,
riguardante in particolare la sua eccentricità e la sua sagacia. È da supporre
che qualcuna di queste storielle sia frutto di fantasia popolare, quale, ad
esempio, la seguente, intesa a sottolineare la sua – in realtà, formidabile –
memoria: qualcuno gli avrebbe domandato quale fosse «lu megghi muccuni d’u
munnu» (il miglior boccone del mondo) ed egli avrebbe risposto: «l’ovu»
(l’uovo). E dopo un anno, gli avrebbero chiesto: «Fattu cu chi?» (Fatto
con che?) ed egli avrebbe risposto prontamente: «c’u sali» (col sale).
Petru Fudduni non “è” tutto in quell’aneddotica, ma è impossibile, se non a
rischio di perdere di vista il personaggio nella sua interezza, prescindere da
questa, poiché ne emerge un ritratto a tutto tondo, in un misto – ormai
inestricabile – di verità e fantasia. Veritiere possono considerarsi le
numerose, pungenti, argute «risposte» a domande che al Fudduni venivano rivolte
e che egli stesso poi storicizzava, per così dire, nei suoi versi, in quella
parte della sua produzione che va sotto il titolo di «Dubbi» e «Cuntrasti»:
“dubbi” nel senso di quesiti, nati da desiderio di conoscenza, “contrasti”,
nella classica accezione – di matrice medievale e romanza – di certame poetico,
di componimento dialogato in cui si svolga una disputa (talvolta veri e propri
battibecchi, come nel caso di alcuni testi fulloniani). La prima parte del
componimento o «proposta», per lo più di una strofa, conteneva il quesito o la
provocazione che riceveva, la seconda, di analoga struttura e ampiezza, la sua
«risposta». Gli interlocutori erano personaggi ora ricorrenti, come il
«Dottu di Tripi», ora (e più frequentemente) occasionali: popolani (ad es. un
“picuraru”) o di medio ceto (ad es. quattro capitani di Messina) o
aristocratici (ad es. una “Principissa”); numerosi sono altri poeti che, con
quelle interrogazioni, volevano mettere alla prova la saggezza del Fudduni o la
sua prontezza e capacità di reazione o, più probabilmente, metterlo in
imbarazzo, qualcuno, carico di albagia puntava addirittura ad offenderlo e
mortificarlo. Petru non si lasciava cogliere in fallo e, quando avvertiva
intenti polemici o un sostrato offensivo, rispondeva – è il caso di dire – per
le rime. Maestro dell’ottava, il Fudduni ne fa un modello di concisione, in
quanto se ne serve per le sue «risposte» fulminee e icastiche; preferisce la
terzina, sul modello dantesco, nei testi di maggior impegno tematico. Poeta
“popolare”, dunque, e raffinato, meritevole di ancor più alta considerazione,
capace di ben interpretare l’animus del popolo in generale e palermitano
in particolare. E i palermitani lo ricordano con inalterata simpatia, da una
generazione all’altra, considerandolo come il poeta per eccellenza, un
prototipo di poeta, oltre che come parte viva di se stesso, espressione del suo
senso di libertà e della sua ansia di giustizia e di affrancamento dalle
soperchierie di qualsiasi provenienza. Un tandem del “Genio” della città o sua
stessa rappresentazione, in una rinnovante contemporaneità, resa più salda e
palpitante da leggendarie valenze di tempi trascorsi.
Occhi, non
siete miei se non piangete.
Fonte:Lucio
Zinna (Literary.it)
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