giovedì 6 febbraio 2014

Petru Fudduni


Petru Fudduni:
un poeta popolare nella Palermo del XVII secolo

 


Poeta palermitano arguto e salace, di notevole rinomanza popolare, Petru Fudduni (o Pietro Fullone che sia) visse nel XVII secolo, svolgendo l’umile mestiere di tagliapietre (o meglio: di intagliatore di pietre), nel quale eccelse. Fu anche, per qualche tempo, marinaio in una nave regia. La pietra si attaglia alla fierezza del suo temperamento ed egli stesso ne fece qua e là riferimento, peraltro esplicitamente cantandola in una poesia che comincia «O petra disprizzata». La perizia nel suo abituale lavoro non gli consentì una vita agiata, ma la povertà non lese mai la sua dignità né depotenziò la sua ironia e il suo esprit moqueur. Della sua vita si conosce poco e quel che si conosce è in parte impreciso o incerto, tanto da prestarsi alle più svariate interpretazioni. Resta ignota, ad esempio, la data di nascita (si suppone nel 1600 o nei primissimi anni del secolo) e, in quanto alla famiglia di provenienza, si hanno contrastanti notizie: forse era figlio d’ignoti o, più credibilmente, il terzo di sette figli sopravvissuti (di una prole di nove) di un tal Alfio Fullone, catanese, e della palermitana Ninfa Tuzzolino. Della sua morte si conosce invece l’esatta data: il 22 marzo del 1670 e il luogo in cui fu sepolto: la chiesa di Santa Maria dell’Itria. Se ne ignorano le fattezze. La sua esistenza è stata attraversata (se ne trovano riscontri nelle sue opere) da due rilevanti avvenimenti nella storia della città e dell’isola. Il primo riguarda la grave pestilenza che insorse nel 1624, anno in cui furono rinvenute, sul Monte Pellegrino, le ossa di una santa vergine, Rosalia, che indusse i palermitani a considerare dovuta a sua intercessione la cessazione del morbo nel corso del 1625. Durante tale epidemia morì una sorella del poeta: Cristina. Il secondo avvenimento riguarda la rivolta popolare palermitana del 1647, guidata da un «Masaniello» locale: il battiloro Giuseppe D’Alesi, la cui testa finì su una picca. Il suo cognome pare piuttosto un soprannome: «Fudduni», da “foddi”, letteralmente «gran folle», pazza. E dato che stravagante e bizzarro fu davvero il personaggio, se ne possono cavare alcune considerazioni: se «Fudduni» fosse cognome, sarebbe la migliore illustrazione del nomen omen dei latini; se fosse soprannome, non potrebbe che derivare dalla personalità del soggetto, dal suo modus essendi, nel qual caso risulterebbe ignoto anche il vero nome, assieme alle origini e alla data di nascita. Egli stesso si presenta così: Iu su’ lu Petru chiamatu Fudduni; […] fudduni nun è foddi né minnali. Tali asserzioni non sciolgono l’enigma: se da un lato egli dice di essere quel Pietro «chiamato» Fudduni (il verbo lascerebbe pensare al nomignolo), dall’altro soggiunge che «fudduni» non va inteso né come «folle» né come «stupido», il che lascerebbe supporre che quello fosse realmente il suo cognome. Altra ipotesi è che egli si chiamasse «Fullone» e che il popolino, a principiare da lui stesso, avesse tradotto semplicemente in dialetto, secondo consuetudine. Ma c’è chi sostiene il contrario, cioè che egli fosse stato appellato «Fullone» quando era stato chiamato a far parte, come poeta, di alcune accademie (in particolare quella dei Riaccesi) e che sarebbero stati gli stessi accademici a tradurre dalla parlata siciliana quel cognome (o soprannome che fosse), quasi a volerlo nobilitare. Prevale l’idea, tra i gli studiosi della sua biografia, che si trattasse di un autodidatta di genio, dalla personalità complessa, che – come ebbe a sostenere Calogero Di Mino – fosse «capitato nel labirinto di abati di monaci e di accademici». «Poeta senza lettere ma di grande ingegno » dice Vincenzo Auria), persona che «ruditer legeret scriberetque» (Antonio Mongitore). I suoi testi, in gran parte tramandati da altri, appaiono intrisi di uno strano misticismo e spaziano in diversi campi dello scibile umano, tanto da rendere condivisibile l’ipotesi avanzata a circa la metà del sec. XIX da Carmelo Piola, il quale, sulla base dei testi e del loro sterminato numero, non esitò ad affermare che il Fudduni non solo non fosse privo «di rudimenti grammaticali e di rettorica», anzi che avesse «non poco conoscenza de’ classici e delle pagine sacre».

Su di lui circola una ricca aneddotica, riguardante in particolare la sua eccentricità e la sua sagacia. È da supporre che qualcuna di queste storielle sia frutto di fantasia popolare, quale, ad esempio, la seguente, intesa a sottolineare la sua – in realtà, formidabile – memoria: qualcuno gli avrebbe domandato quale fosse «lu megghi muccuni d’u munnu» (il miglior boccone del mondo) ed egli avrebbe risposto: «l’ovu» (l’uovo). E dopo un anno, gli avrebbero chiesto: «Fattu cu chi?» (Fatto con che?) ed egli avrebbe risposto prontamente: «c’u sali» (col sale). Petru Fudduni non “è” tutto in quell’aneddotica, ma è impossibile, se non a rischio di perdere di vista il personaggio nella sua interezza, prescindere da questa, poiché ne emerge un ritratto a tutto tondo, in un misto – ormai inestricabile – di verità e fantasia. Veritiere possono considerarsi le numerose, pungenti, argute «risposte» a domande che al Fudduni venivano rivolte e che egli stesso poi storicizzava, per così dire, nei suoi versi, in quella parte della sua produzione che va sotto il titolo di «Dubbi» e «Cuntrasti»: “dubbi” nel senso di quesiti, nati da desiderio di conoscenza, “contrasti”, nella classica accezione – di matrice medievale e romanza – di certame poetico, di componimento dialogato in cui si svolga una disputa (talvolta veri e propri battibecchi, come nel caso di alcuni testi fulloniani). La prima parte del componimento o «proposta», per lo più di una strofa, conteneva il quesito o la provocazione che riceveva, la seconda, di analoga struttura e ampiezza, la sua «risposta». Gli interlocutori erano personaggi ora ricorrenti, come il «Dottu di Tripi», ora (e più frequentemente) occasionali: popolani (ad es. un “picuraru”) o di medio ceto (ad es. quattro capitani di Messina) o aristocratici (ad es. una “Principissa”); numerosi sono altri poeti che, con quelle interrogazioni, volevano mettere alla prova la saggezza del Fudduni o la sua prontezza e capacità di reazione o, più probabilmente, metterlo in imbarazzo, qualcuno, carico di albagia  puntava addirittura ad offenderlo e mortificarlo. Petru non si lasciava cogliere in fallo e, quando avvertiva intenti polemici o un sostrato offensivo, rispondeva – è il caso di dire – per le rime. Maestro dell’ottava, il Fudduni ne fa un modello di concisione, in quanto se ne serve per le sue «risposte» fulminee e icastiche; preferisce la terzina, sul modello dantesco, nei testi di maggior impegno tematico. Poeta “popolare”, dunque, e raffinato, meritevole di ancor più alta considerazione, capace di ben interpretare l’animus del popolo in generale e palermitano in particolare. E i palermitani lo ricordano con inalterata simpatia, da una generazione all’altra, considerandolo come il poeta per eccellenza, un prototipo di poeta, oltre che come parte viva di se stesso, espressione del suo senso di libertà e della sua ansia di giustizia e di affrancamento dalle soperchierie di qualsiasi provenienza. Un tandem del “Genio” della città o sua stessa rappresentazione, in una rinnovante contemporaneità, resa più salda e palpitante da leggendarie valenze di tempi trascorsi.

Occhi, non siete miei se non piangete.

Fonte:Lucio Zinna (Literary.it)

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