Nel volume l’autore e studioso si sofferma sul futuro degli ideali ugualitari
di ANTONIO CARIOTI
Fanno spavento le cifre sulla povertà nel mondo fornite dalle agenzie internazionali. Sono quasi 800 milioni le persone il cui reddito non raggiunge 1,90 dollari al giorno, la soglia minima considerata indispensabile per la sopravvivenza. E ogni anno sei milioni di bambini muoiono prima di raggiungere i cinque anni, colpiti da patologie spesso facilmente curabili con i rimedi medici attuali.
Bisogna aggiungere però che un quarto di secolo fa quei numeri erano ancora più impressionanti. Gli abitanti della Terra sotto la soglia di povertà assoluta nel 1990 erano quasi due miliardi, in un pianeta che ospitava poco più di cinque miliardi di esseri umani contro i quasi 7,5 miliardi di oggi, quindi la percentuale degli affamati era di gran lunga più alta. Quanto alla mortalità infantile, faceva ogni anno 12,6 milioni di piccole vittime, il 150 per cento in più di oggi.
Si tratta peraltro di una situazione assai variegata. Ai consistenti progressi ottenuti dalla Cina e dall’India nella lotta alla miseria corrispondono le persistenti difficoltà dell’Africa nera, aggravate dalle conseguenze dei mutamenti climatici, per non parlare delle terre funestate da conflitti sanguinosi: Afghanistan, Siria, Yemen, Somalia... E nei Paesi ricchi dell’Occidente si registra una minacciosa crescita del disagio, dovuta anche all’agguerrita concorrenza industriale di popolazioni asiatiche ansiose di migliorare il proprio tenore di vita.
Rispetto a questo complesso panorama di luci e ombre, Luciano Canfora concentra la sua attenzione sui lati oscuri. E nel breve saggio La schiavitù del capitale (il Mulino), da oggi in libreria, mette in rilievo i problemi di una fase storica in cui i poteri economici sembrano avere mano libera nel perseguire profitti sempre più elevati, mentre le ideologie egualitarie segnano il passo. Infatti la conversione della Cina dal comunismo al capitalismo (come peraltro quelle di molti Paesi dell’Est europeo, dalla Slovenia al Baltico) ha fatto registrare notevoli successi, mentre i partiti socialisti e progressisti occidentali appaiono in sofferenza. A farsi carico del malessere determinato dalla crisi economica sembrano assai più attrezzati i rappresentanti del populismo di destra, che si contrappongono alla globalizzazione in chiave di chiusura nazionalista e autarchica, spesso apertamente xenofoba.
Canfora giudica con estrema severità le classi dirigenti che hanno gestito le maggiori potenze mondiali dagli anni Ottanta in poi. Fa sua per esempio la critica al sistema di governo degli Stati Uniti «considerato, non a torto, elementar-primitivo per quanto attiene al livello mentale del ceto politico ed ai modi di esplicazione della lotta politica, nonché troppo profondamente compenetrato con la grande malavita organizzata». Ma ancora meno indulgente si mostra verso il tentativo di riformare l’Unione Sovietica compiuto da Mikhail Gorbaciov e dai suoi collaboratori, presentati come «un gruppo dirigente inetto e forse in parte infiltrato». Riscuote invece la sua stima la figura di Papa Francesco: lo difende a spada tratta dagli attacchi che gli sono stati rivolti sin dagli esordi del pontificato per il suo richiamo all’«utopia della fratellanza» contro l’esaltazione degli istinti egoistici.
Nel complesso Canfora presenta il capitalismo attuale come il proverbiale apprendista stregone, incapace di controllare i processi tumultuosi che ha messo in moto. Lo preoccupano fenomeni come il degrado dell’ambiente naturale, la persistenza della schiavitù (si calcolano in circa 35 milioni, nel mondo intero, gli individui ridotti in condizione servile), l’esplosione dell’integralismo islamico fanatico e violento. È tuttavia convinto che la spinta all’affermazione dell’uguaglianza tra gli individui resti il motore principale della vicenda umana. E che tornerà a manifestarsi in forme oggi difficili da prevedere, perché la «fine della storia» era soltanto una favola inventata da narratori mediocri.
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