Nel romanzo della coreana Han Kang, «La vegetariana» (Adelphi), Man Booker International Prize, storia di una donna che rifiuta la carne. Niente sarà più come prima
di IDA BOZZI
Una scelta minuscola di libertà può far deragliare molte vite, o illuminarle. Il libro La vegetariana, vincitore del Man Booker International Prize, della coreana Han Kang (Adelphi, ma la traduzione di Milena Zemira Ciccimarra è dalla versione inglese, pp. 177, e 18), racconta in quale modo. E lo fa affrontando qualcosa che, come in Bartleby, lo scrivano, di Melville, rasenta l’indicibile.
Il plot è semplice: una donna comune, borghese, Yeong-hye, decide dopo un sogno inquietante di non mangiare più carne. A questo punto l’autrice si muove in due direzioni: da una parte divide la vicenda in tre storie i cui narratori sono tre parenti della donna, e dall’altra dà al fatto di non mangiare carne — e poi, via via, più nulla — un significato sempre più radicale. Fa capire al lettore, insomma, che lo «scandalo» non è quello.
Le tre storie sono narrate dal marito, dal cognato-amante e dalla sorella di
Yeong-hye. E mostrano tre modi di rapportarsi prima ancora che alla
protagonista, alla realtà in sé. Il marito: ha sposato la donna per
opportunità sociale e per noia, è irritato dalla sua bizzarria
improvvisa solo perché infrange il ruolo codificato della consorte in
seno a una società patriarcale e tradizionale. Ma quanto è prezioso,
questo narratore, per descrivere il formale, rigido pranzo festivo della
famiglia riunita: una scena in cui il rifiuto di mangiare di Yeong-hye
autorizza violenza, torture, recriminazioni durissime, blandizie oscene,
minacce e abusi. Siamo al corpo della donna come proprietà del padre e,
tramite contratto, del marito.
L’amante: l’autrice affida la seconda narrazione al personaggio del cognato,
marito della sorella. C’è forse da aspettarsi di meglio dall’amore
romantico, per la comprensione della donna e delle sue scelte? L’uomo è
un artista, si innamora alla follia della follia di Yeong-hye ma,
ancora, il suo passaggio è così epidermico che proprio all’epidermide si
ferma. Decide di dipingere la donna, il suo corpo, letteralmente, con
una pittura floreale, le propone di immortalarla (in video) in amplessi
di ogni tipo, conduce con lei un gioco erotico narcisistico che soddisfa
il desiderio del maschio ma spinge il femminile in un isolamento sempre
più freddo, abbandonato e bamboleggiante, glaciale. Come un vegetale,
come un albero: ed è proprio all’«albero Yeong-hye», in fin di vita in
ospedale, senza più interesse al cibo della carne, oltre che alla carne
come cibo, che si accosta l’ultima narratrice.
La sorella: moglie dell’artista, è l’unica a cercar di capire Yeong-hye
nella sua ormai decisa autodistruzione o affermazione. Ma sebbene il
tentativo sia il più affettuoso e intimo, ora anche l’affetto è poca
cosa, buona solo a risolvere i conflitti interiori della sorella
lasciando intatto il dramma cosmico, sovraindividuale, di Yeong-hye.
Resta impressa a lungo, con l’evocazione del buddismo e della sua
impermanenza, l’immagine di Yeong-hye che tenta di trasformarsi in un
albero mettendosi a testa in giù nei corridoi del manicomio. È
straziante che non ci riesca.
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