ALESSANDRO PONTREMOLI
IL TEATRO SOCIALE
TRA VERITÀ, RAPPRESENTAZIONE ED ETICA
C’è una profonda differenza tra il
teatro che la tradizione occidentale ha identificato come oggetto artistico, e
che ci ha consegnato come unico modello possibile della scena, e le sempre
più numerose esperienze di quel fenomeno che è venuto via via definendosi,
soprattutto all’interno degli studi teatrologici, come teatro sociale. In
più occasioni l’ormai ampia letteratura sull’argomento ha affrontato questo nodo,
ma a mio parere non tutti gli aspetti implicati in tale distinguo, che è
teorico e metodologico anzitutto, ma che ha ricadute notevoli sulla possibile
comprensione dei fenomeni stessi e sulla loro configurazione, sono stati ancora
chiariti. Senza la pretesa di affrontare con sistematicità e completezza la
questione, che nel contesto di questo contributo non sarebbe opportuna, mi
sembra tuttavia importante almeno impostare i dati del problema, da un lato per
innescare una proficua discussione, dall’altro per inaugurare una riflessione
che possa avere in seguito, in altri ambiti, con maggior agio, un adeguato
sviluppo. Nella nostra ricognizione teorica ci avvarremo della riflessione fenomenologica,
così come è stata riproposta da alcuni pensatori contemporanei: fra gli altri
Maurice Merleau-Ponty, Michel Henry,
Jean-Luc Marion. Il teatro, inteso come una delle arti, va collocato
entro le coordinate della più ampia problematica della verità come rappresentazione
(della adaequatio, cioè, fra persona e realtà). Si tratta di un processo
conoscitivo che sottende una precisa visione, secondo la quale la libertà umana
viene decisamente sacrificata: se la realtà del mondo può essere
dominata dall’uomo solo seguendo le
regole della rappresentazione, l’esito di questa azione epistemica è
l’estraneità del mondo al soggetto e del soggetto a se stesso. La logica
formale implicata dalla rappresentazione, riprodotta nel teatro come messa in scena
registica di un testo, di personaggi e di un microcosmo mimetico del mondo, è ancora
quella dell’ideale dell’oggettivismo metafisico, che nel tentativo di valorizzare
la soggettività, di fatto, nella riduzione antropologica propria della
modernità, la aliena, perché assolutizza il processo formale del metodo
e comprime la ricchezza dell’esperienza, che diviene così estranea al dinamismo
conoscitivo della verità. Sulla scorta di J.-L. Marion, la Verità è attingibile
piuttosto come riconoscimento del dato che, vale a dire di una
fenomenalità come donazione, indefinibile, continuamente eccedente, incomprensibile,
soprattutto nel caso del fenomeno saturo. La determinazione più originaria
del fenomeno è la sua donazione, che è sempre al di là della spiegazione e
della soggettività trascendentale: la donazione va infatti messa in relazione
con la ricezione, prima e oltre ogni sua definizione. In altre parole: ciò
che si dona implica anzitutto che lo si riceva. Ciò porta al superamento
dell’istanza che spinge alla ricerca dell’unità di senso dell’oggetto a partire
da una soggettività costituente. Il rapporto fra soggetto e oggetto si spiega,
per Marion, con una relazione di inclusione della libertà del soggetto e della sua
autonomia nella donazione della fenomenalità. Analogamente Merleau-Ponty
parla dell’essere selvaggio come esperienza di inclusione di essere e non essere,
in cui da sempre la persona è implicata nei termini della partecipazione. Al di
sotto dell’opposizione coscienza-oggetto sta la dimensione primordiale della carne,
trama unica che implica un sapere le cose in maniera diversa, attraverso
lo stupore come nuova idea di ragione connessa alla corporeità; cerniera,
inserzione, comunicazione col mondo da cui partire e tornare per cogliere
i diversi strati dell’Essere. Tutto lo spettacolo occidentale, nelle sue forme
consolidate della cosiddetta prosa e del balletto, in altri termini il teatro
incentrato sulla parola e la danza tutta ostensione corporea, non sono
unicamente il frutto, come è stato ampiamente ribadito dagli studi degli ultimi
trent’anni, degli steccati istituiti dalle dicotomie del pensiero platonico,
via via cristallizzate dalla poetica aristotelica e dalla sua ripresa
nell’episteme rinascimentale. Alla base di un teatro che istituisce le sue
forme e basa il suo statuto sul principio della delega, rinunciando
progressivamente alle sue prerogative di partecipazione rituale e di efficacia
palingenetica, sta proprio e
inaspettatamente il concetto di rappresentazione,
meccanismo della conoscenza che, a partire da una presenza, permette
la possibilità di una sua costante ripresentazione e duplicazione tautologica.
A ben vedere è qui in azione una metafisica della presenza, fonte delle
rischiose divisioni contro le quali gran parte del pensiero e molta della
produzione artistica del Novecento si sono scagliati. È, insomma, il teatro
della prepotenza e della separatezza, che abita i teatri stabili, sontuosi
palazzi in cui la tirannide dei pochi soggioga e schiaccia ogni tentativo dei
molti di risollevare la testa e di realizzare il proprio desiderio di occupare
la scena. Ad un teatro come rappresentazione della presenza, il teatro sociale
oppone una corporeità come scrittura, geroglifico: una carne come consegna
dell’Essere, condizione di possibilità dell’apparire fenomenico, quella stessa
che J.-L. Marion definisce una donazione. L’espressione consegna dell’Essere va
intesa nei suoi molti sensi e nella duplicità oggettiva e soggettiva del
genitivo: la condizione del soggetto è infatti quella dell’affezione, della
passività radicale, di un essere affetto da. Attore/ricettore della consegna,
nella stessa misura e nello stesso modo di ogni fenomeno, l’uomo sa
che nella sua carne l’Essere
gli è consegnato, donato, nei termini di un marchio indelebile, che spesso
assume la determinazione del peso della sopportazione e dell’angoscia, soprattutto
perché diviene compito inderogabile di essere. Ma questo essere segnati con,
essere segno comune è anche apertura di prospettiva comunitaria, profezia della
possibilità di condividere consapevolmente il peso della consegna stessa.
La consegna dell’Essere è infatti compito attivo della vita, possibilità di
trasmissione in molti modi e da tutti i punti di vista, anche e
soprattutto trasmissione dell’incarnazione. Ricominciare a trasmettere
attraverso di sé e nelle forme proprie della creatività umana è speranza di una
riattivazione della tradizione.
Tradere l’Essere, in termini non kenotici,
nella consapevolezza dell’inevitabile minaccia di
tradirlo, è l’esito della consegna, soprattutto in una società come la
nostra che sembra piuttosto destinata all’accumulo, alla sterile archiviazione
e alla soluzione di continuità fra cultura e sua trasmissibilità, finendo
con l’interrompere il fecondo atto vivente della tradizione.
Il corpo come geroglifico vivente,
sulla scena di quello che mi piace definire come un nuovo
teatro della consegna, è segno, ma differente dall’Essere cui
rinvia o di cui sta occupando il posto. Uno scarto incolmabile inerisce la traccia
che noi siamo, il continuo rinvio, il rimando che ci costituisce, che mentre
segna una distanza nel contempo, in quanto traccia, in quanto indice di
un’assenza, rivela la consegna, il destino di segno/parola che ci accompagna,
e in cui è adombrata la Verità dell’Essere.
Pienezza non come altro e altrove, ma proprio come quel corpo lì e ora, sulla scena
teatrale; e non come doppio di una presunta realtà di riferimento, che per
conoscere dovremmo in qualche modo adeguare o rappresentare, ma come luogo
protetto in cui vivere per imparare a vivere. Proprio per tale motivo il teatro
sociale si colloca sul versante della vita, nei suoi risvolti di concretezza
pratica, nel contesto dell’azione che caratterizza il fluire delle nostre
esistenze, chiamate, nel nostro tempo, a decidere sempre più rapidamente, in contesti
di conflitto e di contraddizione, fra norma universale e contingenza
locale.
Per comprendere i risvolti etici del
teatro sociale è di grande aiuto il riferimento alla filosofia pratica di Paul
Ricoeur, soprattutto quando entra nel merito dei rapporti sociali e delle
relazioni interpersonali. Al proposito sono di particolare interesse i
con-cetti di costituzione dell’alterità e della soggettività; del
riconoscimento; della connessione fra saggezza pratica e giustificazione
morale. Attraverso il teatro, si tratta di definire un orizzonte che è quello
di una pratica dentro il mondo, analizzata al suo orientamento; all’autocomprensione
dell’uomo; si tratta di un attraversamento di tutta l’esperienza, per trovare
ciò che la costituisce mentre essa si fa, per rintracciarne il senso, ma
nella sua concretezza, per cogliere, nell’immanenza del suo darsi,
l’essere come potenza. La sintesi dell’esperienza trova così la sua luce nella
pratica. L’esperienza è sempre data e dentro questa datità il soggetto è già calato.
Ma la comprensione dell’esperienza è un itinerario che approda all’azione,
alla performance come messa in comune e in circolo, come presa di
senso per sé e gli altri. La soggettività si costituisce attraverso una
presa di coscienza, un ritornare a sé.
L’alterità è costitutiva della
soggettività e ciò è visibile e si rivela nella dialettica del
riconoscimento (dialettica dello sguardo):
Non appena vediamo altri vedenti […]
per la prima volta il vedente che io sono mi è
veramente visibile, per la prima volta io mi appaio rivoltato fino in fondo
sotto i miei propri occhi. Per la prima volta, inoltre, i miei movimenti non
vanno più verso le cose da vedere, da toccare, o verso il mio corpo, intento a
vederle e a toccarle, ma si rivolgono al corpo in generale e per se stesso (sia
poi il mio o quello altrui), poiché per la prima volta, grazie all’altro corpo,
io vedo che, nel suo accoppiamento con la carne del mondo, il corpo apporta più
di quanto riceva, aggiungendo al mondo che io vedo il tesoro necessario di ciò
che esso stesso vede. Per la prima volta il corpo non si accoppia più al mondo,
si stringe ad un altro corpo, applicandovisi accuratamente con tutta la sua
estensione […] affascinato dall’unica occupazione di fluttuare nell’Essere con
un’altra vita, di divenire l’esterno del suo interno e l’interno del suo
esterno.
La stessa dimensione tragica
dell’esistenza, data dalla contraddizione cogente fra le alternative di
pensiero e le azioni morali, fra la ragione e la presenza del male che la ragione
non comprende ma può solo descrivere nella sua tragica presa d’atto, non si risolve
in termini teorici. Di questa contraddizione è possibile solo un’empirica e non
un’eidetica.
Nell’uomo, possibilità e libertà
implicano responsabilità. Nella possibilità del male, l’uomo ha in sé una
vulnerabilità costitutiva che lo può portare all’impotenza. È solo nella
pratica, nell’azione, nella
performance del teatro, che è esperienza del come
se e accettazione pratica della propria condizione di traccia di verità , che i
conflitti trovano una composizione. Si tratta della sintesi pratica e non
speculativa dell’esperienza.
Il soggetto è aiutato, nel fare
teatro, a comprendere che può decifrarsi nelle sue opere, nei suoi atti e nelle
sue parole, che sfuggono spesso alla sua intenzionalità e, in quanto scrittura
leggibile nei contesti sociali secondo codici a volte inconsci, alienano i
soggetti dalle loro istanze patiche, da quella presa patica di
sé di cui parla M. Henry che coincide con la vita. Le risorse creative del
soggetto, che è un essere simbolico, gli permettono un’attività
interpretativa feconda per il superamento delle conflittualità. Nell’agire
simbolico del teatro, l’attività metaforica del linguaggio e del corpo illumina
l’opposizione fra sentire sensoriale ed espressione linguistica. La metafora si
fa punto intermedio fra la percezione viva del reale e la sua dizione
linguistica, producendo mobilità semantica. In altre parole, il linguaggio del
teatro dei corpi viventi sulla scena riesce a dire la realtà attraverso la
sintesi metaforica, che genera sempre innovazione di senso: la sintesi dell’eterogeneo
permette la penetrazione intelligibile del reale. La funzione mimetica del
teatro non è pura imitazione o metafisica rappresentazione, ma metafora viva
che porta alla luce la struttura temporale dell’agire: il
teatro si fa così fonte di cambiamento, di trasformazione e di
innovazione. L’esempio più evidente di questo processo è il meccanismo
della narrazione, spesso usato nelle azioni di teatro sociale. La scissione del
soggetto si risolve nella riconfigurazione narrativa applicata dalla persona
alla propria storia. È lo stesso percorso che il soggetto compie all’interno
dell’avventura ermeneutica dell’esperienza, quando il racconto dell’evento o
dell’occorrenza percettiva, passata al vaglio della memoria, dell’emozione e
della ragione, diventa forma condivisibile e per ciò stesso luogo della messa
in comune del senso. L’identità narrativa, di cui parla Ricoeur,
lungi dal cadere nell’errore di mettere in risalto l’esigenza di ricercare
ciò che costituisce l’unità del senso dell’oggetto e di fondare
questa unità nella soggettività costituente, è un’identità mobile e
relazionale, in cui il rapporto soggetto/oggetto è in realtà un’inclusione
delle prerogative di autonomia dei soggetti nella stessa donazione dei
fenomeni, vale a dire in quella
consegna dell’Essere di cui si parlava all’esordio di questi
ragionamenti.
A tal proposito, il concetto di
rappresentazione può tornare, a questo punto, con una connotazione meno
invasiva, rispetto alle pretese della metafisica della presenza: su un piano di saggezza
pratica, la rappresentazione gioca un ruolo di mediazione
simbolica nei confronti delle pratiche sociali, quando queste ultime sono finalizzate
all’instaurazione di legami sociali o a costruire identità collettive e
appartenenze. Le diverse identità narrative, che il teatro sociale avvia sulla
strada dello scambio simbolico, procedono alla costruzione di comunità, quando
si scoprono in tensione ver-so la medesima istanza di vita buona: il rapporto
con l’altro contiene come costitutivo la stima di sé. L’altro è infatti
portatore e portato della stessa consegna/donazione, è carne della
medesima
presa patica della vita, è condizione veritativa
dell’essere traccia che io sono. La ritrovata dimensione comunitaria, come
identità condivisa, aperta e partecipata,innesca processi di azione, guidati da quella
che Ricoeur chiama una saggezza pratica.
È grazie ad essa che il conflitto
tragico fra i casi particolari dell’agire umano e la più generale esigenza
normativa trova una sintesi: l’applicazione circostanziata della norma,se
guidata dall’intento morale di non contraddirla o dismetterla, non è lassismo
o dero-ga, ma capacità di giudizio che sa cogliere l’universale senza
trascurare la circostanza particolare, che è poi la condizione
esistenziale di ogni vivente.
Il campo delle pratiche sociali, che
la comunità come identità collettiva genera-ta dal teatro produce al suo
interno, riconferisce importanza al principale agente del cambiamento, che è la
capacità collettiva di agire instaurando nuovi e ulteriori legami sociali di
natura ricostruttiva, in grado di rispondere al desiderio inappagabile di tutti
gli uomini, di essere riconosciuti e di appartenere.
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