mercoledì 25 marzo 2015

IL TEATRO SOCIALE TRA VERITÀ, RAPPRESENTAZIONE ED ETICA


 

ALESSANDRO PONTREMOLI

IL TEATRO SOCIALE TRA VERITÀ, RAPPRESENTAZIONE ED ETICA

 

C’è una profonda differenza tra il teatro che la tradizione occidentale ha identificato come oggetto artistico, e che ci ha consegnato come unico modello possibile della scena, e le sempre più numerose esperienze di quel fenomeno che è venuto via via definendosi, soprattutto all’interno degli studi teatrologici, come teatro sociale. In più occasioni l’ormai ampia letteratura sull’argomento ha affrontato questo nodo, ma a mio parere non tutti gli aspetti implicati in tale distinguo, che è teorico e metodologico anzitutto, ma che ha ricadute notevoli sulla possibile comprensione dei fenomeni stessi e sulla loro configurazione, sono stati ancora chiariti. Senza la pretesa di affrontare con sistematicità e completezza la questione, che nel contesto di questo contributo non sarebbe opportuna, mi sembra tuttavia importante almeno impostare i dati del problema, da un lato per innescare una proficua discussione, dall’altro per inaugurare una riflessione che possa avere in seguito, in altri ambiti, con maggior agio, un adeguato sviluppo. Nella nostra ricognizione teorica ci avvarremo della riflessione fenomenologica, così come è stata riproposta da alcuni pensatori contemporanei: fra gli altri Maurice Merleau-Ponty, Michel Henry, Jean-Luc Marion. Il teatro, inteso come una delle arti, va collocato entro le coordinate della più ampia problematica della verità come rappresentazione (della adaequatio, cioè, fra persona e realtà). Si tratta di un processo conoscitivo che sottende una precisa visione, secondo la quale la libertà umana viene decisamente sacrificata: se la realtà del mondo può essere

dominata dall’uomo solo seguendo le regole della rappresentazione, l’esito di questa azione epistemica è l’estraneità del mondo al soggetto e del soggetto a se stesso. La logica formale implicata dalla rappresentazione, riprodotta nel teatro come messa in scena registica di un testo, di personaggi e di un microcosmo mimetico del mondo, è ancora quella dell’ideale dell’oggettivismo metafisico, che nel tentativo di valorizzare la soggettività, di fatto, nella riduzione antropologica propria della modernità, la aliena, perché assolutizza il processo formale del metodo e comprime la ricchezza dell’esperienza, che diviene così estranea al dinamismo conoscitivo della verità. Sulla scorta di J.-L. Marion, la Verità è attingibile piuttosto come riconoscimento del dato che, vale a dire di una fenomenalità come donazione, indefinibile, continuamente eccedente, incomprensibile, soprattutto nel caso del fenomeno saturo. La determinazione più originaria del fenomeno è la sua donazione, che è sempre al di là della spiegazione e della soggettività trascendentale: la donazione  va infatti messa in relazione con la ricezione, prima e oltre ogni sua definizione. In altre parole: ciò che si dona implica anzitutto che lo si riceva. Ciò porta al superamento dell’istanza che spinge alla ricerca dell’unità di senso dell’oggetto a partire da una soggettività costituente. Il rapporto fra soggetto e oggetto si spiega, per Marion, con una relazione di inclusione della libertà del soggetto e della sua autonomia nella donazione della fenomenalità. Analogamente Merleau-Ponty parla dell’essere selvaggio come esperienza di inclusione di essere e non essere, in cui da sempre la persona è implicata nei termini della partecipazione. Al di sotto dell’opposizione coscienza-oggetto sta la dimensione primordiale della carne, trama unica che implica un sapere le cose  in maniera diversa, attraverso lo stupore come nuova idea di ragione connessa alla corporeità; cerniera, inserzione, comunicazione col mondo da cui partire e tornare per cogliere i diversi strati dell’Essere. Tutto lo spettacolo occidentale, nelle sue forme consolidate della cosiddetta prosa e del balletto, in altri termini il teatro incentrato sulla parola e la danza tutta ostensione corporea, non sono unicamente il frutto, come è stato ampiamente ribadito dagli studi degli ultimi trent’anni, degli steccati istituiti dalle dicotomie del pensiero platonico, via via cristallizzate dalla poetica aristotelica e dalla sua ripresa nell’episteme rinascimentale. Alla base di un teatro che istituisce le sue forme e basa il suo statuto sul principio della delega, rinunciando progressivamente alle sue prerogative di partecipazione rituale e di efficacia palingenetica, sta proprio  e inaspettatamente  il concetto di rappresentazione, meccanismo della conoscenza che, a partire da una presenza, permette la possibilità di una sua costante ripresentazione e duplicazione tautologica. A ben vedere è qui in azione una metafisica della presenza, fonte delle rischiose divisioni contro le quali gran parte del pensiero e molta della produzione artistica del Novecento si sono scagliati. È, insomma, il teatro della prepotenza e della separatezza, che abita i teatri stabili, sontuosi palazzi in cui la tirannide dei pochi soggioga e schiaccia ogni tentativo dei molti di risollevare la testa e di realizzare il proprio desiderio di occupare la scena. Ad un teatro come rappresentazione della presenza, il teatro sociale oppone una corporeità come scrittura, geroglifico: una carne come consegna dell’Essere, condizione di possibilità dell’apparire fenomenico, quella stessa che J.-L. Marion definisce una donazione. L’espressione consegna dell’Essere  va intesa nei suoi molti sensi e nella duplicità oggettiva e soggettiva del genitivo: la condizione del soggetto è infatti quella dell’affezione, della passività radicale, di un essere affetto da.  Attore/ricettore della consegna, nella stessa misura e nello stesso modo di ogni fenomeno, l’uomo  sa che nella sua carne l’Essere gli è consegnato, donato, nei termini di un marchio indelebile, che spesso assume la determinazione del peso della sopportazione e dell’angoscia, soprattutto perché diviene compito inderogabile di essere. Ma questo essere segnati con, essere segno comune è anche apertura di prospettiva comunitaria, profezia della possibilità di condividere consapevolmente il peso della consegna  stessa. La consegna dell’Essere è infatti compito attivo della vita, possibilità di trasmissione in molti modi e da tutti i punti di vista, anche e soprattutto trasmissione dell’incarnazione. Ricominciare a trasmettere attraverso di sé e nelle forme proprie della creatività umana è speranza di una riattivazione della tradizione.

Tradere  l’Essere, in termini non kenotici, nella consapevolezza dell’inevitabile minaccia di

tradirlo, è l’esito della consegna, soprattutto in una società come la nostra che sembra piuttosto destinata all’accumulo, alla sterile archiviazione e alla soluzione di continuità fra cultura e sua trasmissibilità, finendo con l’interrompere il fecondo atto vivente della tradizione.

Il corpo come geroglifico vivente, sulla scena di quello che mi piace definire come un nuovo

teatro della consegna, è segno, ma differente dall’Essere cui rinvia o di cui sta occupando il posto. Uno scarto incolmabile inerisce la traccia  che noi siamo, il continuo rinvio, il rimando che ci costituisce, che mentre segna una distanza nel contempo, in quanto traccia, in quanto indice di un’assenza, rivela la consegna, il destino di segno/parola che ci accompagna, e in cui è adombrata la Verità dell’Essere.

Pienezza non come altro  e altrove, ma proprio come quel corpo lì e ora, sulla scena teatrale; e non come doppio di una presunta realtà di riferimento, che per conoscere dovremmo in qualche modo adeguare o rappresentare, ma come luogo protetto in cui vivere per imparare a vivere. Proprio per tale motivo il teatro sociale si colloca sul versante della vita, nei suoi risvolti di concretezza pratica, nel contesto dell’azione che caratterizza il fluire delle nostre esistenze, chiamate, nel nostro tempo, a decidere sempre più rapidamente, in contesti di conflitto e di contraddizione, fra norma universale e contingenza locale.

Per comprendere i risvolti etici del teatro sociale è di grande aiuto il riferimento alla filosofia pratica di Paul Ricoeur, soprattutto quando entra nel merito dei rapporti sociali e delle relazioni interpersonali. Al proposito sono di particolare interesse i con-cetti di costituzione dell’alterità e della soggettività; del riconoscimento; della connessione fra saggezza pratica e giustificazione morale. Attraverso il teatro, si tratta di definire un orizzonte che è quello di una pratica dentro il mondo, analizzata al suo orientamento; all’autocomprensione dell’uomo; si tratta di un attraversamento di tutta l’esperienza, per trovare ciò che la costituisce mentre essa si fa, per rintracciarne il senso, ma nella sua concretezza, per cogliere, nell’immanenza del suo darsi, l’essere come potenza. La sintesi dell’esperienza trova così la sua luce nella pratica. L’esperienza è sempre data e dentro questa datità il soggetto è già calato. Ma la comprensione dell’esperienza è un itinerario che approda all’azione, alla  performance  come messa in comune e in circolo, come presa di senso per sé e gli altri. La soggettività si costituisce attraverso una presa di coscienza, un ritornare a sé.

L’alterità è costitutiva della soggettività e ciò è visibile e si rivela nella dialettica del riconoscimento (dialettica dello sguardo):

 Non appena vediamo altri vedenti […] per la prima volta il vedente che io sono mi è veramente visibile, per la prima volta io mi appaio rivoltato fino in fondo sotto i miei propri occhi. Per la prima volta, inoltre, i miei movimenti non vanno più verso le cose da vedere, da toccare, o verso il mio corpo, intento a vederle e a toccarle, ma si rivolgono al corpo in generale e per se stesso (sia poi il mio o quello altrui), poiché per la prima volta, grazie all’altro corpo, io vedo che, nel suo accoppiamento con la carne del mondo, il corpo apporta  più di quanto riceva, aggiungendo al mondo che io vedo il tesoro necessario di ciò che esso stesso vede. Per la prima volta il corpo non si accoppia più al mondo, si stringe ad un altro corpo, applicandovisi accuratamente con tutta la sua estensione […] affascinato dall’unica occupazione di fluttuare nell’Essere con un’altra vita, di divenire l’esterno del suo interno e l’interno del suo esterno.

La stessa dimensione tragica dell’esistenza, data dalla contraddizione cogente fra le alternative di pensiero e le azioni morali, fra la ragione e la presenza del male che la ragione non comprende ma può solo descrivere nella sua tragica presa d’atto, non si risolve in termini teorici. Di questa contraddizione è possibile solo un’empirica e non un’eidetica.

Nell’uomo, possibilità e libertà implicano responsabilità. Nella possibilità del male, l’uomo ha in sé una vulnerabilità costitutiva che lo può portare all’impotenza. È solo nella pratica, nell’azione, nella

 performance del teatro, che è esperienza del come se e accettazione pratica della propria condizione di traccia di verità , che i conflitti trovano una composizione. Si tratta della sintesi pratica e non speculativa dell’esperienza.

Il soggetto è aiutato, nel fare teatro, a comprendere che può decifrarsi nelle sue opere, nei suoi atti e nelle sue parole, che sfuggono spesso alla sua intenzionalità e, in quanto scrittura leggibile nei contesti sociali secondo codici a volte inconsci, alienano i soggetti dalle loro istanze  patiche, da quella presa  patica  di sé di cui parla M. Henry che coincide con la vita. Le risorse creative del soggetto, che è un essere simbolico, gli permettono un’attività interpretativa feconda per il superamento delle conflittualità. Nell’agire simbolico del teatro, l’attività metaforica del linguaggio e del corpo illumina l’opposizione fra sentire sensoriale ed espressione linguistica. La metafora si fa punto intermedio fra la percezione viva del reale e la sua dizione linguistica, producendo mobilità semantica. In altre parole, il linguaggio del teatro dei corpi viventi sulla scena riesce a dire la realtà attraverso la sintesi metaforica, che genera sempre innovazione di senso: la sintesi dell’eterogeneo permette la penetrazione intelligibile del reale. La funzione mimetica del teatro non è pura imitazione o metafisica rappresentazione, ma metafora viva che  porta alla luce la struttura temporale dell’agire: il teatro si fa così fonte di cambiamento, di trasformazione e di innovazione. L’esempio più evidente di questo processo è il meccanismo della narrazione, spesso usato nelle azioni di teatro sociale. La scissione del soggetto si risolve nella riconfigurazione narrativa applicata dalla persona alla propria storia. È lo stesso percorso che il soggetto compie all’interno dell’avventura ermeneutica dell’esperienza, quando il racconto dell’evento o dell’occorrenza percettiva, passata al vaglio della memoria, dell’emozione e della ragione, diventa forma condivisibile e per ciò stesso luogo della messa in comune del senso. L’identità narrativa, di cui parla Ricoeur, lungi dal cadere nell’errore di mettere in risalto l’esigenza di ricercare ciò che costituisce l’unità del senso dell’oggetto e di fondare questa unità nella soggettività costituente, è un’identità mobile e relazionale, in cui il rapporto soggetto/oggetto è in realtà un’inclusione delle prerogative di autonomia dei soggetti nella stessa donazione dei fenomeni, vale a dire in quella

consegna dell’Essere di cui si parlava all’esordio di questi ragionamenti.

A tal proposito, il concetto di rappresentazione può tornare, a questo punto, con una connotazione meno invasiva, rispetto alle pretese della metafisica della presenza: su un piano di saggezza pratica, la rappresentazione gioca un ruolo di mediazione simbolica nei confronti delle pratiche sociali, quando queste ultime sono finalizzate all’instaurazione di legami sociali o a costruire identità collettive e appartenenze. Le diverse identità narrative, che il teatro sociale avvia sulla strada dello scambio simbolico, procedono alla costruzione di comunità, quando si scoprono in tensione ver-so la medesima istanza di vita buona: il rapporto con l’altro contiene come costitutivo la stima di sé. L’altro è infatti portatore e portato della stessa consegna/donazione, è carne della medesima

 presa patica  della vita, è condizione veritativa dell’essere traccia che io sono. La ritrovata dimensione comunitaria, come identità condivisa, aperta e partecipata,innesca processi di azione, guidati da quella che Ricoeur chiama una  saggezza pratica.

È grazie ad essa che il conflitto tragico fra i casi particolari dell’agire umano e la più generale esigenza normativa trova una sintesi: l’applicazione circostanziata della norma,se guidata dall’intento morale di non contraddirla o dismetterla, non è lassismo o dero-ga, ma capacità di giudizio che sa cogliere l’universale senza trascurare la circostanza particolare, che è poi la condizione esistenziale di ogni vivente.

Il campo delle pratiche sociali, che la comunità come identità collettiva genera-ta dal teatro produce al suo interno, riconferisce importanza al principale agente del cambiamento, che è la capacità collettiva di agire instaurando nuovi e ulteriori legami sociali di natura ricostruttiva, in grado di rispondere al desiderio inappagabile di tutti gli uomini, di essere riconosciuti e di appartenere.

 

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