lunedì 30 marzo 2015

Tra letteratura e impegno civile, parla Giovanna Mulas


Tra letteratura e impegno civile, parla Giovanna Mulas

Scritto da  Simone Morichini

Personalità tra le più coinvolte nella cultura e nell’impegno civile, Giovanna Mulas (Nuoro, 1969) ha pubblicato oltre venti libri nel corso della sua carriera tra narrativa, poesia e saggistica. Tradotta in diverse lingue e autrice apprezzata in numerosi paesi esteri, ha vinto vari premi letterari tra i quali, per ricordare i più recenti, il Premio Internazionale per l’Arte e la Cultura Giosuè Carducci (2008), il Premio Mimosa d’Argento-Donna Sarda dell’Anno (2009), il Premio alla Carriera (Corona d’Alloro) dalla Regione Sicilia (2010) e il Premio Internazionale alla Cultura dalla Città di Ostia (2011). Per approfondire tutti gli aspetti della sua letteratura (http://giovannamulasufficiale.blogspot.it) ma anche il suo lato umano e civile, Daily Green l’ha intervistata per il numero di questa settimana.


Giovanna, se dovessi parlare di te in poche parole come ti descriveresti al pubblico di Daily Green?

Sono stata per anni una sterile salottiera di buon talento, stordita da ombelico e premi letterari, testarda e superba, con quella rabbia del riscatto tipica di chi nasce dal niente e col niente cresce. Alla figura di mia madre, amatissima, fragile e schizofrenica (dalla sua malattia è nato il mio Mater Doloris), ha “supplito”, nella mia prima educazione letteraria, mio padre, un semplice poeta-contadino con la passione per le arti che mi iniziò a modo suo, con quella durezza tipica di una generazione allevata a fascio e cipolla, allo studio dei classici. Ricordo che non avevo ancora compiuto sei anni e già conoscevo a memoria i primi passi della Divina Commedia.
Una cosa in particolare m’insegnò mio padre, ripetendolo fino alla morte: “Non dimenticare mai da dove vieni. Non chi sei, ma da dove vieni”. Solo col tempo avrei capito il significato di questa frase. Ovvio i click, i cambiamenti hanno prodotto in me i tentativi di omicidio subiti e la quasi morte, i lunghi anni trascorsi nel mio “pozzo nero”, quella depressione che ne è venuta, quindi la chiusura alla società e alla mia arte. Il “ritorno”, i viaggi nel resto nel mondo, nell’altrui sofferenza. E poi l’amore puro, finalmente vero per mio marito Gabriel e i nostri sei figli. Devo dire che la vita mi ha regalato tanto, nonostante il dolore che, a volte, credo sia stato necessario, fisiologico a quella ragazzina superba. Con l’esperienza ho imparato quanto con la mia professione si possa e si debba fare per gli altri, quanto l’ombelico e gli specchi servano a poco; quanto sia fondamentale la conoscenza di noi stessi quindi quella altrui, per scriverne: un viaggio continuo, un messaggio costante, anche scomodo. Questo me lo devo nel rispetto del dono di un dio burlone o della Natura, di una letteratura che, oggi più che mai, ha il dovere di farsi impegno civile, fuori dall’acritico, dall’apolitico, dallo sterile: specchio della realtà. Un cammino a piedi scalzi, appunto. Lungo e che so che durerà una vita.

Sei molto legata alla tua terra, la Sardegna. Quanta influenza ha nella tua produzione intellettuale?

Amo riportare nei miei scritti la magia della terra sarda, gli odori, i suoni...tuttiisensiinme. Il profano e non plagiato, quel “tempo non tempo” che all’isola, e al suo micro mondo, appartiene fisiologicamente.

Da dove trai l’ ispirazione principale per i tuoi componimenti? Più legata all’osservazione della natura o ai comportamenti delle persone?

Con i miei racconti amo far parlare i reietti: Moto GP, Annichilina e Olghina, Cecilia… ambisco, con la superbia tipica dell’artista, a far pensare il Lettore e non m’importa cosa. Credo che non si dovrebbe adorare od odiare il creatore di una storia buttandolo all’inferno o, al contrario, destinandolo a utopica eternità. Siamo soltanto un tramite, un affollato cavalcavia tra dimensioni; siamo una penna vuota quanto il nostro stomaco destinata ad ingabbiare, su foglio, quel Personaggio che attende il visionario di turno. E non è detto che gli si conceda del tutto. Voglio dire, il Personaggio va vezzeggiato, sedotto, plagiato, piegato al nostro volere. Sempre sapendo che, in realtà, è il Personaggio che vezzeggia, seduce e plagia, piegandoci al suo volere. Lo scrittore è un pervertito de Sade del congiuntivo, un bon vivant dell’etimologia. Eppure, il vero protagonista di ogni storia ben scritta continua a rimanere il Lettore. Deve innalzare il Personaggio e la sua vita, tra polvere, letti di obitorio o hotel di lusso: cammina a piedi nudi, il Regale Innominato, tra le lenzuola ed il bagno, osa spingersi oltre le righe dell’incipit, quando di buone righe parliamo. Il Lettore deve specchiarsi nel Personaggio, ritrovare il suo vicino di casa, la ragazzotta allegra con la quale ha passato quindici minuti di celebrità sensoriale. Il nostro Lettore deve provare comunque un’emozione, e non m’importa quale. Continuo a vedere lo scrittore come voce del popolo, affinché il pensiero critico faccia discutere, creare, costruire. Autocoscienza necessaria, critica costante sulla e della realtà, che tenda la mano ai movimenti sociali in opposizione alla guerra, l’ingiustizia, alla disuguaglianza sociale. Un movimento di resistenza per la cultura della vita. Davvero, credo che l’augurio da fare ai nostri figli sia quello di riuscire a sottrarsi, con conoscenza illuminata da istinto primordiale, agli abusi della ragione. In questo, una buona lettura può rivelarsi aiuto efficace, ma la domanda è: siamo capaci di riconoscere una buona lettura?

Passando alla tua ultima fatica intellettuale, Memorie di Villa Pedrini, edito dalla casa editrice Rupe Mutevole nel 2014, ho letto che si tratta di un libro tra “miseria e nobiltà, amore puro e amore comandato, uno sfarzo che stringerà il collo delle persone, soffocandole o costringendole a una repentina fuga da loro stesse”. La protagonista delle tue pagine, Vanessa, è una donna che si ribella a un futuro tranquillo ma soffocante. Possiamo leggervi la situazione che coinvolge molte persone nel mondo attuale, combattute tra un presente comodo, una prospettiva serena ma non aderente ai propri desiderata?

Quando la foschia dell’illusione sfuma si apprende, ad esempio, a smascherare l’inutile abbaiare di un altro, a sgonfiarlo di ogni presunzione come farebbe lo spillo sul palloncino ché gonfio, tronfio com’è, non riesce più ad accogliere nient’altro che non sia la propria boria e simulazione.
A volte il coraggio di svilire, spezzare il falso e l’apparenza, non rappresentano incoscienza o amore del pericolo quanto capacità di distinguere cosa è “male” per un uomo o per l’intera Comunità, e cosa non lo è. Per dirla con Seneca, il coraggioso custodisce la propria tutela e nello stesso tempo patisce con risolutezza gli eventi che hanno l’ipocrita apparenza di mali. Dunque dopo e solo dopo, appare la visione del mondo oltre ogni diversità e cultura: solo questa può e potrà cristallizzare un dato tipo umano al fine di donare all’intera Comunità.Le idee, il pensiero, non debbono essere proprietà esclusiva degli intellettuali annoiati o dei partiti politici. Luce e più luce, verità agli Uomini e alle Donne: una cultura della cultura che, ostacoli decenni di individualismo imposto, ritorni alla piazza sempre appartenuta al popolo che l’ha dimenticata. Non lasciare spazi dove tutto ciò contro cui lottiamo in tanti, resistiamo (quel sistema del consumo mentale e fisico, amorfo, placebo), possa risorgere ancora, e poi ancora. Resto convinta che occorra lavorare nella trasformazione di coscienze (da quel Cum-scire latino, “sapere insieme”) anestetizzate; occorre respirare quindi soffiare coscienza di classe proprio lì dove le coscienze creative sono state schiacciate, nascoste, sequestrate dalla società del consumo. Ma per contrastare, contestare anni di dominazione mentale in tutte le classi sociali – in primis, lo sappiamo, in quella vulnerabilissima classe media – è necessario utilizzare strumenti teorici forti, adeguati, e dialettica, confronto, critica costante. Vige prima di tutto il pensiero nel pensiero: confermo questa, come autentica rivoluzione.

Leggendo la tua biografia, non si possono non notare le tue posizioni dal punto di vista civile e, in particolare, sulla violenza sulle donne. La tua letteratura risente di quest’impegno?

Esistono ferite, nella vita, che mai si rimargineranno. Il tempo potrà ammansirle, quietarle, vestirle di una nuova prospettiva di saggezza e serenità. Ma mai, mai queste ferite potranno cicatrizzarsi del tutto. Vuoi perché sono troppo profonde, vuoi perché, oramai, fanno parte di noi e solo con noi scompariranno. E ogni volta che una donna, una sorella, muore per mano di un amore malato, la ferita grida ancora. La mia è una storia come tante, e per raccontarla volo indietro nel tempo, al 2001, in un’apparentemente tranquilla piccola città di provincia, Nuoro: una richiesta di divorzio dall’uomo che allora era mio marito, tre tentativi di omicidio dei quali l’ultimo, per strangolamento e accoltellamento, avvenuto davanti agli occhi dei nostri quattro figli, allora tutti minori. Sospesa tra la vita e la morte. Il limbo. Di quei giorni “non miei” ancora oggi porto il ricordo nebuloso, incerto, vacuo quasi. Gli infiniti perché, il pozzo profondo della depressione, il buio, la crisi artistica: perché io ero viva, perché io, perché a me, perché i miei figli avevano dovuto assistere a tutto questo, perché lui aveva tentato il suicidio, perché lui a me, proprio a me che fino al giorno prima aveva ripetuto di amare alla follia. La violenza si nutre anche di omertà; denunciamola oggi, domani, sempre. E che finalmente, in questa Italia da emergenza femminicidio, si faccia giustizia vera contro la violenza. Non attendiamo che altre donne, sorelle, ci guardino da un lettino di obitorio. Che si lavori costantemente su una Cultura della Non violenza.

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