Andiamo avanti con l'argomento 2013 Etica della retorica e affrontiamo un tema a noi molto vicino, la retorica politica oggi. Giovanni sasso nel 2008 scrisse questo pezzo, saggio o articolo, come meglio vi pare, per parlare della nuova forma di comunicazione politica di oggi che si basa sulla
PROVOCAZIONE.
Leggetelo e commentatelo, è molto interessante!
Ugo Arioti
La
comunicazione politica oggi, tra retorica e provocazione
Cosa passa, oltre a svariate centinaia di chilometri
di mare, tra il comunicato di un deputato italiano e il video rap di Obama? E,
più in generale, dove va la comunicazione politica oggi? Il video di Obama
centra in pieno il primo degli obiettivi cardine di una comunicazione moderna
(politica e non): quello di emergere. O, se si vuole, di provocare, dunque di
suscitare una reazione. L’evoluzione che i meccanismi della comunicazione hanno
subito negli ultimi dieci anni non trova nessun paragone possibile con il
passato, e i nostri sistemi di percezione e di apprendimento hanno provato a
difendersi dall’enorme aumento di informazioni a disposizione sperimentando
nuovi criteri di selezione.
Trascrivo dal dizionario
Garzanti online la definizione del verbo provocare: «eccitare una persona,
spec. a sentimenti di ribellione, di sdegno; irritare, sfidare: provocare
qualcuno all’ira, all’indignazione; ha reagito perché era stato provocato».
Il superamento della retorica
Al termine di una riunione di partito un deputato
italiano emette il seguente comunicato stampa: «Dal vertice appena terminato è
emersa una volontà condivisa che può innescare un processo atto a ricercare
nuove convergenze che, nel rispetto dei paletti individuati, accogliendo parte
delle istanze della minoranza del partito, possano aprire scenari politici
inediti che conducano a una nuova stagione di cambiamento». Nel frattempo,
dall’altra parte del mondo, nella campagna per le primarie dei democratici
negli Stati Uniti, compare su YouTube un videoclip in cui alcuni frammenti di
un discorso di Barack Obama in Illinois vengono mixati a voci e volti di noti
personaggi statunitensi che parlano e cantano all’unisono con lui, accompagnati
da una base musicale coinvolgente, in un superbo bianconero d’autore.
Cosa passa, oltre a svariate centinaia di chilometri
di mare, tra il comunicato del deputato italiano e il video rap di Obama? E,
più in generale, dove va la comunicazione politica oggi?
A questa ambiziosa domanda potremmo cominciare a
rispondere at- traverso umili constatazioni empiriche. Ho letto il comunicato
del deputato la mattina di una domenica.
Ero relativamente libero da impegni, rilassato, in
poltrona e sufficientemente vigile. Ho dovuto resistere due volte alla
tentazione di lasciare la lettura a metà. Ho continuato solo per masochistica
curiosità professionale. Poi, alla fine, l’ho riletto un paio di volte. Eppure
confesso che ancora oggi faccio fatica a comprenderne fino in fondo il
significato. In alcuni momenti di pessimismo temo che non ve ne sia alcuno. Ho
visto il video di Obama sul mio portatile nel mezzo di un pomeriggio complesso.
Ero in piedi, nella mia stanza, e stavo per trasferirmi in sala riunioni, in
ritardo di venti minuti. Il cellulare mi squillava e contemporaneamente la
segretaria mi annunciava un’altra chiamata in attesa sul fisso. Eppure non
riuscivo a staccare gli occhi da quel video. La chiamata è rimasta in attesa e
il ritardo alla riunione è salito fatalmente a venticinque minuti.
Riccardo Pazzaglia (“filosofo” nel programma
televisivo “Quelli della Notte”) avrebbe detto con enfasi che è molto meglio
gustarsi un bel video americano con Scarlett Johansson e Herbie Hancock
piuttosto che arrovellarsi su un imperscrutabile e autoreferenziale comunicato
di partito. Certo, ma c’è dell’altro.
Pazzaglia avrebbe omesso di aggiungere un particolare
determinante. Il video di Obama, oggettivamente, centra in pieno il primo degli
obiettivi cardine di una comunicazione moderna (politica e non). Cioè quello di
emergere. O, se si vuole, di provocare, dunque di suscitare una reazione, una
curiosità, un coinvolgimento dell’utente, a prescindere dal tema trattato. Il
video di Obama ti scuote, anche se non ne capisci a fondo il significato, anche
se lo vedi in un video di YouTube, con l’audio disturbato, mentre i telefoni
intorno non la smettono di squillare.
Il comunicato stampa del deputato invece,
semplicemente, non esiste. Non esiste perché non parla a chi lo legge. Parla a
se stesso. Non esiste perché non prova a muoverci né a muovere: lascia tutto
com’è. Non esiste perché tra mille comunicati simili non ha alcuna speranza di
emergere, di scuoterci, di catturare la nostra attenzione.
Qualche anno fa, forse, quel comunicato avrebbe potuto
sopravvivere, magari stentatamente, magari un giorno o due. Oggi nasce morto.
L’evoluzione che i meccanismi della comunicazione hanno subito negli ultimi
dieci anni non trova nessun paragone possibile con il passato. L’accelerazione
delle velocità di trasferimento dei dati, l’abbattimento delle barriere geografiche,
l’innovazione dei mezzi, la moltiplicazione quotidiana delle fonti e il crollo
delle gerarchie consolidate nella produzione di contenuti e notizie hanno
prodotto in tempi rapidissimi uno scenario talmente nuovo da mandare in totale
crisi le tecniche di comunicazione classiche. Nello stesso tempo, i nostri
sistemi di percezione e di apprendimento, non potendo fisiologicamente
adeguarsi con eguale rapidità a questa rivoluzione, hanno provato a difendersi
dall’enorme aumento di informazioni a disposizione sperimentando nuovi criteri
di selezione, inesorabilmente più rozzi, che concentrano l’attenzione su quella
piccola percentuale di dati che in qualche modo riesce a farsi notare più delle
altre nel magma mediatico contemporaneo.
In questo panorama si capisce bene come quel
comunicato stampa in politichese, o la dichiarazione di prammatica al TG,
oppure il comizio tradizionale, nonché, assai probabilmente, anche questa mia
noiosa dissertazione, non hanno nessuna speranza di essere notati, capiti o
addirittura memorizzati. I nostri nuovi e iperselettivi cervelli li
classificano nel migliore dei casi come sfondo; nel peggiore, come spazzatura.
La provocazione come strumento
obbligatorio
Doveva aver ben compreso questo meccanismo Antanas Mockus, docente dell’Università
di Bogotà, quando durante una sua lezione, indispettito per la scarsa
attenzione che i suoi studenti gli stavano dedicando, decise di voltar loro le
spalle e di continuare a parlare con i pantaloni abbassati. Attraverso questo
originale artifizio ottenne tre risultati. Il primo, il più importante: gli
studenti da quel momento in poi seguirono attentamente l’intero svolgimento
della sua lezione. Il secondo: fu, quella, la sua ultima apparizione
accademica: il preside, evidentemente privo di spirito, non gradì e lo espulse.
Il terzo: qualche mese dopo la sua bizzarra performance il neo disoccupato
Antanas Mockus fu eletto sindaco di Bogotà. A ben vedere, l’estroso professore
sudamericano aveva soltanto utilizzato un mezzo alternativo (ed efficacissimo)
per conquistare l’attenzione dei suoi studenti. Li aveva cioè provocati. In
questo modo il suo messaggio (la lezione) era arrivato a destinazione.
Provocare, nel senso letterale di “suscitare una
reazione, sfidare, addirittura irritare”, è dunque diventato oggi un imperativo
categorico per un qualunque processo di comunicazione che voglia dirsi
compiuto. E questo è tanto più vero nel mondo della comunicazione politica,
dove l’appiattimento delle differenze e la frammentazione delle voci rende la
competizione per “emergere” ancora più spietata. Invitare tutti i politici a
calarsi pantaloni e gonne non è però la soluzione (benché ci sia qualcuno che
la pratichi, più o meno metaforicamente). E nemmeno le urla nei talk show, le
dichiarazioni sparate (parzialmente o interamente smentite il minuto dopo), le
gaffe più o meno pilotate, si rivelano oggi tecniche efficaci. Cosa deve dunque
fare un politico per riuscire ad “emergere” dal magma? In sostanza, cosa deve
fare per fare buona comunicazione politica?
«Deve fare buona politica», disse una voce un po’
naif. La stessa voce proverà, in modo meno ingenuo, ad argomentare la risposta.
Nella mia non lunghissima carriera di comunicatore
(anche) politico, ho vissuto raramente momenti di reale imbarazzo. Uno di
questi, però, lo ricordo bene. Con i miei collaboratori e il responsabile
comunicazione di un partito, intorno a un tavolo ovale, avevamo appena
trascorso più di tre ore a definire tutti i particolari della imminente
campagna: dai nomi dei testimonial alle location, dalle tecniche di regia al
tono dello speaker, dal formato delle affissioni al carattere tipografico da
utilizzare. Ci apprestavamo dunque ad approfondire la cosa più importante: i
temi sui quali si sarebbe incentrata la campagna. «Vabbè, fate voi, puntate
sulle solite cose, quelle che fanno più presa sulla gente», disse tra un
malcelato sconcerto generale il responsabile del partito.
Riunione terminata, strette di mano, arrivederci alla
prima bozza di manifesto. In ascensore, guardando i miei colleghi, mi venne
voglia di mollare tutto. Poi di fondare un partito. Infine, capii che il dio
della comunicazione ci stava mettendo al centro di una scena altamente
metaforica. Eravamo i protagonisti inconsapevoli di una parabola da cui trarre
un insegnamento prezioso. Stavamo vivendo in prima persona la materializzazione
della crisi della politica italiana. Si stava manifestando, davanti ai nostri
occhi, la politica, e stava abdicando al suo ruolo in favore del marketing
elettorale.
La politica, in una specie di trance, in un flusso di
autocoscienza, stava riconoscendo i suoi limiti e demandava al comunicatore il
compito di scegliere i temi del suo programma. La politica, che per tre ore si
era mostrata interessata e competente nella definizione delle forme della
campagna, si rifiutava di investire anche un solo minuto per occuparsi dei
contenuti.
Ecco l’insegnamento: la politica dunque ha
interiorizzato la teoria della provocazione, delle braghe calate, in un modo
così totalizzante da averla distorta. Ora sa che è necessario stupire,
provocare, emergere, e si concentra su questo, solo su questo, per vincere. Ma
per vincere cosa?
Medium is not message
Eravamo dunque di fronte, quel giorno, alla politica
che confonde (forse consapevolmente) il mezzo con il messaggio, perché sul
primo può giocarsi carte che sul secondo non ha più. Ma le elezioni, è ovvio,
sono solo la prima mano della partita. Il giorno dopo i cittadini verranno a
vedere; e quando scopriranno il bluff, tornare indietro sarà oltremodo
complicato.
Fuor di metafora, la comunicazione politica italiana,
il larga parte, vive una situazione fuori controllo che produce le seguenti
mistificazioni: 1) i temi delle campagne elettorali vengono scelti sulla base
di sondaggi; 2) l’imperativo è dire quello che “la gente” vuole sentirsi dire
(possibilmente con qualche decibel in più dell’avversario); 3) si accantonano
le grandi questioni, con l’alibi della complessità e della difficoltà di
comprensione; 4) la trattazione dei problemi reali del paese nei talk show è
inversamente proporzionale alla prossimità della scadenza elettorale; 5) il
tornaconto immediato diventa l’unica cartina di tornasole per orientare le
scelte di comunicazione, che dunque da elettorale si trasforma in
elettoralistica.
Date queste premesse, alcuni politici si trasformano
in burattini dei loro spin doctor, mentre nella stanza attigua sondaggisti di
fiducia sono impegnati a stilare il programma. Da comunicatore, questo panorama
dovrebbe entusiasmarmi, o quantomeno farmi comodo. Invece mi deprime. Molto
semplicemente ritengo che ognuno dovrebbe tornare a svolgere il proprio ruolo.
La comunicazione che diventa protagonista della politica non è e non sarà mai
una buona comunicazione. La comunicazione deve tornare a mettersi al servizio
della politica. Della buona politica. Perché non esiste una buona campagna per
un prodotto scadente.
La nuova sfida: buona
comunicazione per buona politica
E la politica, da parte sua, dovrebbe tornare ad
essere ambiziosa. Dovrebbe ritrovare il coraggio, la passione, la voglia di
rischiare. Non parlo di azzardo né di improbabili rivoluzioni. Oggi il vero
rischio è la serietà. La vera ambizione è provare ad andare oltre la retorica
dello slogan masticabile (“meno tasse, più sicurezza”), ormai talmente
masticato che non se ne sente nemmeno più il sapore. La vera sfida è provare a
provocare con le idee, non fermarsi alle braghe calate.
Insomma, il primo passo è la buona politica. Quella
dei fatti, delle scelte. E dopo, ma solo molto dopo, toccherà alla buona
comunicazione.
Perché nessuno ha mai provato a spiegarmi cosa
significa per le mie tasche la riduzione di un punto del rapporto deficit-PIL?
Forse perché sarebbe troppo complesso? Forse perché è un argomento che mal si
concilia con i tempi di una campagna elettorale peraltro (ecco un altro alibi)
ormai permanente? Vero. Ma allora a cosa serve un comunicatore se non a questo?
È appunto qui la novità di una buona comunicazione politica. Davanti a un
elettore sempre più smaliziato e diffidente, frettoloso e scettico, il buon
comunicatore prova a non assecondarne gli istinti più bassi, ma a rispettarne
(e a stimolarne) l’intelligenza. Prova a mettersi al servizio delle buone idee
studiando i tempi e i modi opportuni per renderle comprensibili alla maggior
parte degli elettori. In questo semplice modo, il politico torna a fare
politica e il comunicatore a comunicarla. “Truth well told”, recita il claim di
una famosa agenzia di comunicazione. “Verità detta bene”, questa è la missione.
Banale, ma rivoluzionaria. Laddove la “verità” sta per l’idea, il valore, la
soluzione ai problemi e magari anche i suoi tempi di attuazione, le sue
coperture finanziarie. E laddove “detta bene” sta per studio di linguaggi
innovativi, rifiuto dei luoghi comuni e delle scorciatoie, ricerca di mezzi
alternativi, capacità di elaborare soluzioni creative diverse dai soliti format
di scuola.
Alla fine di una estenuante campagna elettorale, un
candidato che avevamo seguito per sei mesi, ci disse: bravi ragazzi, avete
fatto politica. Aveva ragione. Ma non si riferiva a quel perverso scambio di
ruoli di cui parlavamo in precedenza. Intendeva dire che quando un messaggio
politico, un’idea, una proposta, viene comunicata correttamente e in maniera
efficace, il risultato è elementare, ma entusiasmante: l’idea arriva forte e
chiara al destinatario. E quindi, se è un buon messaggio, una buona proposta,
una buona idea, il solo fatto che arrivi al destinatario genera di per sé un
processo virtuoso. Cioè produce una risposta, crea un’interazione virtuosa.
Quindi non solo elettoralistica adesione da parte del cittadino, ma dibattito e
creazione di altre idee, pubbliche o private, che a loro volta entrano in
relazione con le originarie e le fanno evolvere. Questa non è, appunto, solo
comunicazione. Diventa essa stessa politica. Da comunicatore, da elettore e da
amante della politica, sogno un mondo in cui mi si chieda di spiegare la
finanziaria a un bambino di sei anni. Sarebbe il trionfo della buona
comunicazione. E della buona politica.
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