domenica 16 marzo 2014

In Italia la L. 194 non viene applicata equamente e con giustizia - INCHIESTE


Tra le donne in fila nel sotterraneo dell'ospedale

di Laura Pertici

ROMA - All’ospedale San Camillo, a Roma, si comincia ad aspettare all’alba. All’aria aperta. In primavera come in inverno. Sulle scalette esterne che portano giù, in basso, al livello scantinato. Lì, scendendo una lunga rampa di gradini, si trova il Day Hospital-Day Surgery della legge 194. Cioè il reparto aborto. Su quelle scale - in attesa che alle 8 apra la porta a vetri, impacchettata da avvisi ed elenchi di documenti senza i quali è inutile agganciarsi alla fila - ci sono madri con figlie adolescenti. Donne straniere. Donne italiane. Donne ben vestite. Donne con abiti consumati. Donne con i sacchetti di plastica. Donne con le borse firmate. Donne con la cartellina delle analisi. Ragazze diventate donne solo quella mattina. Donne accompagnate da qualche uomo, ogni tanto. Tutti in allerta, tutti pronti a correre verso un numero, distribuito allo sportello. E rientrare così nella lista dei (limitati) casi di giornata. Una ventina.  



Noi facciamo il lavoro sporco”, dice la dottoressa Giovanna Scassellati. Dal 2000 dirige il reparto, centro di riferimento di tutta la Regione Lazio e uno dei maggiori in Italia. I non obiettori “strutturati”, compresa lei, sono in tre. Altri quattro sono gli ambulatoriali, medici giornalieri di supporto alla struttura. Solo sette ginecologi su 21 in forza all’ospedale, più il primario. Tremila interruzioni di gravidanza nell’ultimo anno. Di cui 461 casi trattati farmacologicamente con la RU486, la pillola abortiva arrivata in Italia nell’aprile del 2010. “La 194 – afferma Scassellati – è a rischio da anni, svuotata dall’obiezione di coscienza. Lavoriamo molto più degli altri e facciamo quello che nessuno vuole fare. Che nessuno si prepara a fare. Perché non ci sono studenti delle scuole di specializzazione che vengono a formarsi da noi, nessuna università li manda nella nostra sala operatoria”. Per imparare a muoversi dietro quei tavoli chirurgici su cui ogni donna si stende dopo aver cercato altri pensieri, ferma nella stanzetta, un armadio a doppia anta, due letti in ferro e le coperte spesse di lana. Dopo aver provato a guardare fuori dallo scantinato, oltre l’opaco delle finestre chiuse. Aver sentito i lamenti e i pianti di chi era prima nella lista e poi ha provato a riprendersi in corsia. “Il lavoro pesante – prosegue Scassellati – è sulle interruzioni di gravidanza dopo il novantesimo giorno. Non quelle entro le dodici settimane”. Sull’aborto terapeutico. “Quando una donna, che ha deciso di diventare mamma a 37 o 38 anni, ha una risposta negativa dall’amniocentesi. A quel punto viene lasciata sola. Va fuori di testa. Cerca, girando disperatamente, un posto dove le diano ascolto. E noi magari non possiamo farlo perché siamo troppo pochi”.

 

La bocciatura dell’Europa

Il Consiglio d’Europa sull’aborto boccia l’Italia perché “dato il crescente numero di obiettori di coscienza, vìola i diritti delle donne”? Informa il ministero della Salute che gli aborti sono in continuo calo e che i numeri ci collocano tra le posizioni più basse dei paesi industrializzati. Nel 2012 le Ivg sono state 105.968, il 4,9 per cento in meno rispetto al 2011, e il 54,9 per cento in meno rispetto al 1982. Diminuisce la quota delle ragazze che decidono di fermare la gravidanza, rimane alta (sebbene in discesa) quelle delle donne straniere, ancora una su tre. E – eccoci - crescono sì gli obiettori (più 17 per cento in 30 anni), con una media nazionale del 70 per cento che al centro-sud diventa dell’80. Ma la cifra è congrua – per il ministero – rispetto al numero complessivo degli aborti. Si impone solo una razionalizzazione, una nuova distribuzione del personale all’interno delle strutture sanitarie di ogni regione, per riempire i vuoti, e garantire l’accesso al servizio là dove di fatto è inesistente.

Un problema strutturale

Eppure. A parere della Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194
(Laiga) quella cifra di obiettori nei fatti va ritoccata verso l’alto, arriva per esempio al 90 per cento nel Lazio. E per la dottoressa Scassellati andrebbe regolamentata la stessa obiezione con un tavolo nazionale, “altrimenti solo pochi si trovano a fare un lavoro che taglia le gambe. Non sarà un caso che nessun primario non è obiettore, no?”.
“No”, risponde Silvio Viale. Lui è il radicale (oggi consigliere comunale eletto con il Pd), il ginecologo del Sant’Anna di Torino che per primo parlò nel nostro Paese di RU486. Ha iniziato la sperimentazione della pillola abortiva nel 2005, adesso il 30 per cento di Ivg è farmacologica, nel suo ospedale, un altro polo di primissimo piano. Lì a praticare l’aborto sono in 23 su un totale di 83 ginecologi. Gli interventi lo scorso anno sono stati 3490. “Non bisogna individuare un nemico obiettore ed attaccarlo – assicura Viale - la sinistra fa questo errore da trent’anni. Il problema della 194 è strutturale. Perché permette l’aborto solo nelle realtà pubbliche, quindi unicamente per mano di 4910 medici ginecologi. Che però non organizza. Bisogna invece scegliere un numero di ospedali, dire che in quelle strutture e non ovunque si pratica l’aborto, incentivare chi è disponibile a farlo. Poiché la stragrande maggioranza degli obiettori non è contraria alla 194 ma al peso professionale e sociale che comporta, vista la carica di difficoltà emotiva e di disagio che porta con sé”.
E anche per Alessandra Kustermann, che dirige il Pronto Soccorso Ostetrico e Ginecologico della clinica Mangiagalli di Milano, c’è solo una via d’uscita. Non contingentare il numero degli obiettori di coscienza. “E’ incostituzionale, mi creda”. Ma garantire una organizzazione regionale che preveda il servizio nell’arco di 20 chilometri, con programmi di mobilità per i medici.


 
Da: Repubblica.it

 

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