Sulla bellezza dell’agire per
il bene. Spunti per un’etica della verticalità
Stefano
Cardini
Ágnes Heller, nelle sue lettere sull’estetica morale,
evidenzia come la bellezza della moralità, intesa come bellezza di una
determinata azione, non risieda tanto, o soltanto, nel riconoscimento della
bontà di un particolare atto, ma nel fatto che tale atto «è meritevole di lode
per la sua bontà e, in più, anche per il modo con il quale (…) è
compiuto» (corsivo nostro). La bellezza, di conseguenza, pur non costituendo
condizione sufficiente alla moralità dell’azione, sembrerebbe così a
essa in un certo qual modo necessaria. All’accrescimento del valore
morale di un’azione, inoltre, contribuirebbe un altro tratto eminentemente
estetico, intendendo il termine in senso lato: la sua visibilità, il suo
carattere almeno in linea di principio pubblico; sempre che –
naturalmente – il suo volto non venga sfigurato dal compiacimento, dall’ostentazione
o dall’aperta e orgogliosa rivendicazione, che implica sempre un certo
qual risentimento, più o meno consapevole, diretto a persone o
circostanze vissute. Il profilo estetico di un’azione, infatti, è rinvenibile
là dove l’atto «suscita nell’osservatore non solo apprezzamento, ma anche
piacere, tratto che consente di valutare chi lo ha compiuto «non solo come
persona buona, ma anche come anima bella». L’azione acquista o accresce il suo
valore morale, quindi, se il gesto in cui s’incarna ha un volto visibile,
riconoscibile e condivisibile secondo un certo tipo
morale. In ciò consistono la bellezza necessaria della moralità e la
moralità possibile della bellezza. In forza di questo rapporto, sebbene
la moralità si fondi in un certo senso sulla bellezza, non vale il contrario.
Nella bellezza, tuttavia, si racchiude sempre quantomeno una promessa,
una nostalgia o una eco della moralità. Così come in essa si può
sempre celare il possibile inganno o disinganno, che degradano
(mito di Pandora, Mr. Wickham di Orgoglio e pregiudizio).
Da un maestro della verticalità, materiale e
spirituale, come l’alpinista Walter Bonatti, recentemente scomparso, si può
ricavare una bella immagine per questa sottile ma importante questione. Fu
celebre, banché tacciata di passatismo, la battaglia di questo eccezionale
scalatore, negli anni Cinquanta, contro l’impiego dei chiodi a espansione in
parete, i cosiddetti spit, in grado di fare presa su qualunque rilievo, indipendentemente
dal profilo naturale della roccia, ovvero dalle visibili possibilità
di risalita che essa offre allo sguardo e all’immaginazione audace
dell’alpinista. Qualunque via, con gli spit, diviene apribile. E viene
meno la distinguibilità tra una via bella e una brutta o peggio
banale. Ognuna, infatti, diviene equivalente a ogni altra, se intesa meramente
come atta a conquistare la vetta. Vale la pena di leggere le sue parole,
corsivi nostri. «Fare uso di quel chiodo, il cui impiego richiede la
preliminare perforazione della roccia – il che è molto indicativo! – vuol dire
avvalersi di uno strumento tecnico che, a differenza del chiodo normale, annulla
l’impossibile. Quindi annulla l’avventura. Vuol dire passare con
certezza, anche laddove non si sarebbe capaci. Vuol dire barare al gioco che
spontaneamente ci si è scelti. Così facendo non si vincerà più
l’impossibile, lo si eliminerà. Si distruggeranno le motivazioni ad
affrontarlo e con esso a misurarsi. Non serviranno più l’introspezione, né la
capacità di giudizio. (…) Con il chiodo a espansione (…) l’ignoto svanisce,
l’intelligente ricerca di una via logica viene scavalcata, si perde il senso
critico della difficoltà. Infine, non validi diventano i termini di paragone e
di riferimento. Ne risulta un’arrampicata degenerata e sterile, poco più che un
gesto atletico. Come tale magari è notevole e senz’altro conveniente quale
facile mezzo per arrivare al successo. Un successo, però (…), ottenuto mediante
la mistificazione, quindi con l’inganno di se stessi e della buona fede di chi
ci segue, ci valuta e non sa» (Walter Bonatti, Montagne di una vita,
Baldini Castoldi Dalai editore). L’impossibile va vinto, perché mantenga un
senso, non va distrutto.
Sono a mio parere attinenti alcuni passi di Simone
Weil, da L’ombra e la grazia (Bompiani), corsivi nostri. «Il desiderio
racchiude in sé qualcosa dell’assoluto e se fallisce (una volta esaurita
l’energia) l’assoluto si trasferisce su l’ostacolo. Stato d’animo dei vinti,
degli oppressi. Afferrare (in ogni cosa) che c’è un limite e che non
sarà possibile oltrepassarlo senza aiuto soprannaturale (o, altrimenti, di
pochissimo) e pagandolo successivamente con un abbassamento terribile».
Ma c’è un altro passo molto importante di Simone Weil evocato dalle parole di
Bonatti, laddove ricorda il senso, decisivo nella vita non meno che
nell’alpinismo, dell’avventura. Da La prima radice (Se): «Il
rischio è un bisogno essenziale dell’anima. L’assenza di rischio suscita una
specie di noia che paralizza in modo diverso da quanto faccia la paura,
ma quasi altrettanto. E poi ci sono situazioni che, implicando un’angoscia
diffusa senza rischio preciso, trasmettono contemporaneamente l’una e
l’altra malattia. Il rischio è un pericolo che provoca una reazione riflessa; cioè
non sorpassa le reazioni dell’anima al punto di schiacciarla sotto il peso
della paura. In certi casi contiene una parte di gioco; in altri, quando
un obbligo preciso costringe un uomo ad affrontarlo, è lo stimolo più alto che
esista. La protezione degli uomini contro la paura e il terrore non implica la
soppressione del rischio; implica invece la presenza permanente di una certa
quantità di rischio in tutti gli aspetti della vita sociale; perché l’assenza
di rischio indebolisce il coraggio al punto da lasciar l’anima, in caso
di bisogno, senza la benché minima protezione interiore contro la paura. È
necessario soltanto che il rischio si presenti in condizioni tali da non
trasformarsi in un sentimento di fatalità». Ovvero d’irresponsabilità
dinanzi agli esiti della scelta. Totale o scarsa consapevolezza. Cattiva
coscienza.
La moralità, e la bellezza che le è propria, quindi,
non sono meramente questioni di buone proporzioni, equilibrio, pesi e
contrappesi. Essa contempla i propri tipi ideali, i propri caratteri:
stili differenti con cui perviene a manifestazione. Riprendiamo Ágnes
Heller. Per la filosofa ungherese l’armonia fra le parti dell’anima non è
concepita come semplice capacità di autodisciplina razionale nel controllo
degli istinti e delle passioni, capace, subordinandoli, di convertire il
“disordine” in “ordine”, bensì come un accordo fra tutte le parti in virtù del
quale ciascuna continua a svolgere il proprio ruolo contribuendo alla
costituzione di tale armonia. «Certi caratteri – rileva la Heller – possono
essere amabili anche se la loro vita emozionale non è bilanciata». In questo
caso noi li amiamo per la loro aspirazione «all’assoluto, all’incondizionato, a
qualcosa che è infinito», li amiamo «perché la loro bontà è sublime». Il senso
del limite, delle possibilità razionali in gioco in vista dell’azione buona,
qui può e dunque deve congiungersi con il senso dell’illimitato,
come orizzonte imponderabile in cui, in definitiva, nella misura in cui nulla
è garantito, tutto è possibile. L’azione buona (e dunque
bella) non può reggersi meramente sul rispetto rigido della norma, perché ogni
norma intende una generalità che deve prescindere dal reale contesto
d’applicazione. Ma è in un tale contesto che si gioca il dissidio tra i
valori. E ogni valore, quand’anche fosse in sé, può variamente confliggere con
un altro, nel teatro effettivo dell’azione. È possibile, quindi, una bellezza
morale retta su un felice disequilibrio il quale, proprio per questo, può
dare nuovi frutti e persino nuovi tipi o varianti di tipi morali visibili,
riconoscibili, condivisibili. È di nuovo Bonatti a offrirci
immagini della dialettica che stringe, nel dilemma e talvolta nel dramma etico,
reale, o probabile, possibile, imponderabile. «È
l’ignoto di ciò che ci sta davanti a noi che spesso ci fa mollare, ci fa
fallire ancor prima di trovarci in una reale impossibilità di agire. Noi
alpinisti conosciamo bene questo genere di difficoltà. Sappiamo benissimo che
chi non abbia assimilato la montagna in tutte le sue manifestazioni, in tutto
il suo carattere, si può trovare di fronte alla probabilità di non riuscire a
passare in certi luoghi, e spesso desiste ancor prima di trovarsi il passo
realmente sbarrato. Questo succede se non si è dunque più che forti
interiormente e consapevoli dei propri mezzi». E più oltre: «Però esiste
l’imponderabile. Ma dove non esiste l’imponderabile? Allora, se tu davvero
vuoi un qualche cosa in cui credi veramente, non puoi certo rinunciarvi per
paura dell’imponderabile» (Walter Bonatti, Una vita così, Dalai
editore). Bellezza e moralità dell’agire, quindi, nel gioco tra limite e
illimite, reale e ideale, plausibile e imponderabile, credenza razionale,
fiducioso confidare nel futuro o nel soprannaturale, si situano prima
del sentimento irresponsabile – e, più o meno nascostamente, colpevole – di
fatalità, ma oltre il rigido, volontaristico e intellettule rispetto
della norma generale accettata sulla base delle credenze acquisite e delle
aspettative di ricompensa su di esse basate, a partire dalla
rassicurante e consolatoria gratificazione che deriva dal mero sentimento di
aver assolto agli impegni assunti. Superficialità contro profondità.
Inconsapevolezza contro consapevolezza. Doveri verso gli altri
contro doveri verso sé. È lo spazio da nulla garantito della
possibile fioritura personale. Ma anche della possibile e peggiore degradazione,
dell’abbassamento di sé. Pesantezza contro luce, nobiltà
contro bassezza, amore contro odio, rabbia, risentimento,
brama di vendetta e infine, di nuovo, paura. (Weil). Di qui
rattrappimento, angustia, aridità, meschinità, invidia, tendenza al
chiacchiericcio malevolo, coltivato con falso senso di giustizia, o all’impulso
improvviso – anche gratuito – alla maldicenza svalutante, noncurante e vile. E
ancora: tormentata o smodata ambizione di potere o status, sfrontatezza,
ipocrisia, vuoto e gesticolante amore per il giusto e il vero, privo quindi
delle luci improvvise e benevole che tradiscono mitezza d’animo verso le
proprie e altrui debolezze, lealtà nella contesa, magnanimità nella vittoria,
umiltà nella sconfitta, onestà e serietà: responsabilità. «Tragedia
di coloro che essendosi inoltrati per amor del bene in una via dove c’è da
soffrire, giungono dopo un certo tempo ai propri confini: e si degradano» (L’ombra
e la grazia, cit.).
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