Gorazd Kocijancic, fine intellettuale slavo, ci presenta la visione poetica dell'Eros della poetessa Miljana Cunta, con la sua grande esperienza dei paesaggi e della retorica dell'Eros che diventa sorgente della stessa ragione dell'essere e nello stesso tempo affermazione della vita sul panorama universale della sua stessa essenza, il motore che spinge sempre il vento dell'esistenza totale. I suoi versi sono miele e fiele, dolce e amaro, sono la rappresentazione di un bisogno primordiale che muove il nostro Io intorno alle sue stesse ragioni epistemiologiche. La presentazione dell'intellettuale è un saggio sull'Eros, mi ha colpito per la sua profondità introspettiva e la sua capacità di affondare la sua parola nella carne dell'esistere e dell'essere forma e ragione dell'Universo. (Ugo Arioti)
Miljana Cunta, giovane autrice slovena, dopo aver diretto dal 2006 al 2009 il programma del Festival Internazionale di Letteratura di Vilenica, ha riscosso un notevole successo di pubblico e critica con la sua prima raccolta, Za pol neba (Per metà del cielo), edita nel 2010 da Študentska Založba di Lubiana. L’occasione di conoscerla è data dalla pubblicazione di Per metà del cielo in edizione italiana, da parte di Thauma Edizioni, nella traduzione di Michele Obit, volume da cui viene proposto anche un frammento dell’introduzione a cura di un altro finissimo intellettuale sloveno, Gorazd Kocijančič. (ft)
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Presentazione di Gorazd Kocijančič :
Possiamo trovare una parola con la quale contrassegnare il linguaggio poetico di questo paradossale, pluridirezionale, metamorfosato eros? Chiamiamola delicatezza. Le parole in tutta la propria disciplinarità si spezzano come desiderio, sono riservate e timide, tuttavia leggendo percepiamo che questa cautela nel contatto con le cose e nella conservazione delle esperienze non è determinata solo dal suo tema centrale, la fragilità dell’amore (di quale?), ma nei punti più profondi si spinge sino al mistero elusivo che dal linguaggio esige un riflessivo ripiegamento in sé. In ciò la delicatezza di parola diventa inaspettatamente contestatrice: si contrappone allo zeitgeist letterario degli ultimi decenni, al suo rendere con parole sempre gli stessi dogmi nichilistici e le loro installazioni linguistiche. A volte il meno è più, a volte è vero il contrario. Non si tratta semplicemente, tuttavia, di resistenza metafisica. Per qualcosa del genere la vera poesia è sempre troppo debole – e troppo forte. Per il fatto che l’unico «è» diventa del tutto personale, solo-essenziale, ipostatico, l’iniziale constellazione platonica nella poetica contestatrice, che la ispira, si trasfigura sostanzialmente. L’eros qui non è più una forza cosmica, nemmeno qualcosa di materialmente compreso «divino» che entrerebbe nel nostro mondo. Come passione ambivalente ha il proprio luogo solo nella lingua – ed è per questo immune per tutte le decostruzioni dello sfondo metafisico della poetica. Questa poesia erotica non si sofferma mai sul tentativo di articolazione del modo di sentire e neanche sulle strategie linguistiche che potrebbero modellare la poesia in qualcosa di generico, in uno specchio nel quale il lettore si potrebbe riconoscere, ma ponderatamente stimola proprio con la sua individuale differenza. L’erotico «è» penetra nel lettore e lo inquieta con il suo essere radicalmente estraneo, con la sua specificità ontologica. Ciò che contraddistingue la genuina poesia erotica – indipendentemente da tutte le strategie di straniamento del «soggetto lirico» – è esattamente la testimonianza dell’essere ipostatico, totalmente personalizzato. E questo, nella raccolta, non manca. Leggendo, in me l’eros estraneo penetra come l’unico. Non mi erotizza quello generico, il riconoscimento della propria esperienza, ma il radicale altro desiderio che è diventato misterioso. Con altre parole: l’accettazione della testimonianza dell’erotico ha una cornice etica, per quanto con êthos comprendiamo proprio il paradossale inter-esse per l’«è» estraneo, che è legato al dolore per la perdita del proprio.
In noi cinici, però, vi è abbastanza êthos per poter accogliere in sé questa eccessiva ed ambivalente brama?
In noi cinici, però, vi è abbastanza êthos per poter accogliere in sé questa eccessiva ed ambivalente brama?
(Dall’Introduzione di Gorazd Kocijančič)
L’albero
L’albero nel nostro giardino
al mattino ha figliato un sasso.
L’intero giorno vi stiamo sotto ed aspettiamo
risposte.
L’albero tace un tempo illimitato
quando è provocato, lo sappiamo,
per questo facciamo in modo che tutto sia
come ieri, quando nel giardino cadevano mele.
Stendiamo la biancheria e rivoltiamo la terra,
piantiamo pomodori nelle fosse dei ravanelli,
congetturiamo sul tempo,
contiamo i baci del sole.
Ma l’albero tace.
Tutto il giorno
l’albero
tace.
Vecchi incanutiti, ceniamo
alla sua ombra di sasso,
con le orecchie irsute allunghiamo
il collo indurito verso la cima
della sua vegetazione, giust’appena
sotto il cielo attendiamo
che dica quale magia lo possiede
o se gli fa male.
La casa è polvere,
l’erbaccia uccide il giardino,
gli arti prosciugati si ricordano del contatto,
c’è solo l’albero.
L’albero, possente sino al cielo,
innalza il suo vigore
e sceglie
le parole.
Le ossa si spezzano
quando entro in te.
Nell’aspirare si frantuma l’inspirare.
Dove, amore, si lacerano le membra,
come i fiori
mi raccogli per le lenzuola del crepuscolo:
un ventre, perché tu possa placare la fronte,
due mani, perché possa domare lo sguardo,
tre dita per il silenzio
e quattro occhi per il sogno.
Quando t’addormenti nelle piaghe del desiderio
sono leggera come il respiro.
Pensieri di carne,
spezzati in gola,
nel sogno cantano un lamento
per l’assenza.
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